Venti anni di mancanza di Illich
Aldo Zanchetta
Domani, 2 dicembre, ricorre il ventesimo anniversario della morte di Ivan Illich. Stavo per scrivere “scomparsa”, parola spesso usata in luogo di “morte”, essendo quest’ultima troppo cruda per la sensibilità di una società che sembra aspirare alla “a-mortalità” – come lo stesso Illich aveva osservato – cancellando questo evento naturale della vita dalla memoria e aspirando di riuscirvi, anche fattualmente, attraverso il sogno del cyber post-umano immortale.
Parlare di “scomparsa” di Illich potrebbe però essere equivocato in un momento in cui il suo pensiero, dopo un periodo di messa in mora perché ritenuto utopico o troppo radicale, sta oggi riemergendo. Riemerge con nuovo vigore perché reso più leggibile dal verificarsi di eventi non pensabili alcuni anni fa ma da lui pronosticati con amara lucidità. Una riemersione che lui stesso, ragionando con amici, aveva ipotizzato possibile quando certe sue tristi previsioni fossero divenute realtà.
Non un ritorno su vasta scala, certo, però reale. Un ritorno che sta guadagnando terreno poco a poco. Lo confermano alcuni eventi che avranno luogo domani in diversi luoghi, fra loro geograficamente lontani e collocabili in contesti sociali assai diversi, dove il suo pensiero sarà al centro di seminari e incontri multiformi. Gli eventi saranno particolarmente numerosi in Messico – ad esempio a Cuernavaca, dove Illich trascorse periodi importanti della vita – ed anche in altri paesi, come in Canada. Lì a riunirsi è un nucleo ancora consistente di partecipanti a trascorsi tavoli conviviali, in particolare a quello che si riunì più volte presso la Penn State, l’Università statale della Pennsylvania, dove Illich praticò la sua originale maniera di tenere corsi di apprendimento fra amici riuniti in modo austero ma nondimeno gioioso attorno a un piatto fumante di spaghetti e a un fiasco di buon vino. Così avverrà domani sera a Wiesbaden, in Germania, mentre a “Mondeggi bene comune”, nel Chianti fiorentino, avrà inizio, una delle prime iniziative della recentemente nata UniTerra, il XIV Convivio Ivan Illich in cui, nel corso di tre giorni e con modalità orizzontale, i/le partecipanti proporranno ciascuno/a un approfondimento su un particolare aspetto del pensiero illiciano o alla luce di questo analizzeranno criticamente aspetti della realtà contemporanea.
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Per più giorni ho tentato di proporne all’attenzione di chi leggerà queste note alcuni dei punti più significativi del suo pensiero, ma invano. Infatti un “Bignami”[1] del pensiero di Illich, oltre ad essere insolente, è impossibile vista la vastità dei suoi interessi intellettuali e dei suoi impegni politici e sociali ad esso correlati. Ci sono sue pagine, alcune per me inizialmente oscure, che con maggiore frequenza oggi rileggo a piccole dosi, trovando in esse nuovi elementi di comprensione o approfondimento. Alla fine ho deciso di concretizzare questa mia intenzione in un semplice invito a leggerlo o rileggerlo, secondo i casi, rivolto ovviamente a chi si interroga sulle sorti di questo Absurdistan in cui stiamo vivendo, o forse solo sopravvivendo. Quale fondamento credibile ha questo invito? Perché leggere (o rileggere) oggi Illich?
Due mi sembrano le motivazioni.
Illich aveva previsto con lucidità questo finale oscuro dell’epoca dei “lumi” e intravisto lo scenario successivo, quello della definitiva disincarnazione dell’homo sapiens dalla sua realtà corporea, radicata sul suolo concreto, vissuto. Nelle sue conversazioni con il giornalista canadese David Cayley – ora riediti col titolo significativo di “Una fiamma nel buio” (Elèuthera, 2020) – aveva detto: “Voglio poter baciare il suolo su cui mi trovo. Poterlo toccare. La terra che non è nient’altro che una fotografia scattata da una Hasselblad che orbita su un satellite è la negazione della terra […] La terra è qualcosa che puoi annusare, che puoi assaporare. Io non vivo su un pianeta“.
Oltre a questo forte richiamo all’uomo alle sue reali radici, l’altro aspetto che voglio richiamare è che leggere Illich, anche se inizialmente può essere difficile o irritante – quest’ultima è una sensazione provata da molti che vedono messe in questione proprie “certezze”, ma una volta superato questo ostacolo, provano un forte effetto liberatorio della propria mente. Illich è stato un critico acuto e inflessibile delle “certezze” che costituiscono i pilastri portanti del pensiero della Modernità. Una lettura inizialmente difficile, almeno per me, dopo 18 anni di scolarizzazione obbligatoria e di conseguenza praticamente unica, sui banchi di una scuola strutturata per renderci compatibili ed anzi riproduttori di un sistema al quale la maggioranza è stata convinta che “there is no alternative”.
Questo ritrovato senso di libertà e creatività intellettuale è reso possibile dal suo attento ripercorrere a ritroso del cammino storico in cui sono venute costruendosi le certezze su cui poggia il pensiero della Modernità. Non sono pochi oggi gli antropologi, i sociologi, gli storici che sospettano che a qualche bivio del lungo percorso il sapiens abbia sbagliato strada. Il grande merito di Illich è stato quello di determinare dove e perché, fornendoci una “cassetta degli attrezzi” mentale da usare in futuro, anzi oggi, nelle ambasce di questo presente, affinché ci sia un futuro.
In questa epoca di evasione digitale dalla realtà, di elogio dell’”uomo potenziato” grazie ad un chip immesso nella sua materia cerebrale interconnesso con una sorgente di IA, l’Intelligenza Artificiale, il richiamo di Illich può apparire vetusto, rinunciatario. In uno dei testi per me più significativi, “Elogio del suolo”, egli scrisse, assieme a due colleghi:
Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegniamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo – la sua coltivazione e il nostro legame con esso – è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale. Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo. Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso, all’abilità artigianale, all’arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra, l’ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno arricchito con le loro tracce […].
Termino queste note – una piccola parte di quello che avrei voluto dire – con una lunga citazione della presentazione che Erich Fromm – autore del famoso bestseller Essere o avere ai tempi della mia gioventù – fece al primo dei pamphlet di Illich, Celebrare la consapevolezza, che nell’edizione italiana fu forzato nella frase Rovesciare le istituzioni,
I testi contenuti in questo libro non hanno bisogno di alcuna presentazione, né, tantomeno, il loro autore. […] Illich è sempre stato fedele a se stesso per quanto riguarda il nocciolo più autentico del suo approccio alla realtà ed è questo nocciolo che mi sento di condividere con lui. Non è facile trovare il termine appropriato per definire questo nucleo essenziale. Com’è possibile, infatti, rinchiudere un atteggiamento fondamentale nei confronti della vita in un semplice concetto senza alterarlo e distorcerlo? Eppure, dal momento che non possiamo fare a meno di comunicare con parole, mi sembra che la definizione più adeguata – o meglio, la meno inadeguata – sia quella di un radicalismo umanistico. Cosa viene a significare il termine radicalismo e cosa implica l’aggettivo umanistico legato a quel sostantivo? Quando parlo di radicalismo non intendo principalmente un certo insieme di idee radicali, quanto piuttosto un atteggiamento – come dire – un approccio alla realtà. Tanto per cominciare un simile approccio può essere caratterizzato dal motto: de omnibus dubitandum; ogni cosa deve essere posta in dubbio, ma soprattutto quel patrimonio ideologico di concetti cristallizzati che sono virtualmente assunti da ciascuno e diventano, di conseguenza, assiomi fondamentali del senso comune che nessuno oserebbe porre in dubbio.
“Dubitare”, in questo senso, non implica certo una condizione psicologica di incapacità d’arrivare a decisioni o convincimenti ben fondati, come nel caso del dubbio ossessivo, quanto piuttosto una prontezza ed una capacità di porre in discussione criticamente tutte le certezze e le istituzioni che sono diventate puri e semplici idoli chiamati senso comune, logica e tutto ciò che si presume essere naturale. Questo modo radicale di porre in discussione le acquisizioni del mondo in cui viviamo è possibile solo quando non si diano per scontati i concetti base della società in cui si vive o addirittura di un intero periodo storico, come ad esempio, l’intera cultura occidentale dal Rinascimento in poi, e ancor più, se si dilata la portata della nostra consapevolezza cercando di scoprire gli aspetti inconsci che condizionano il nostro pensiero. Il dubbio radicale è, al tempo stesso, svelare e scoprire; è il sorgere della consapevolezza del fatto che l’Imperatore è nudo e che i suoi splendidi vestiti non sono altro che il prodotto della nostra fantasia. Il dubbio radicale significa mettere in questione; non significa necessariamente negare. È facile negare mediante la semplicistica affermazione del contrario di ciò che esiste; il dubbio radicale è dialettico dal momento che in esso si svela il processo delle contraddizioni e con esso si tende ad una nuova sintesi che nega e afferma contemporaneamente. Il dubbio radicale è un processo, un processo di liberazione da concezioni idolatriche, un modo di ampliare la nostra consapevolezza, l’immaginazione, la visione creativa che dobbiamo avere in ordine alle nostre possibilità ed alle scelte che ci impegnano.
2 dicembre 2022 – Venti anni di mancanza di Illich
[1] I “bignami” erano dei manualetti che ai tempi della mia gioventù condensavano in poche pagine il pensiero di Kant o la Guerra dei Trent’anni, con la lettura dei quali tentare di spuntare almeno un sei meno alle interrogazioni.
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