I libri osceni del marchese libertino, morto il 2 dicembre 1814, non figurano nelle liste inquisitorie della Chiesa Cattolica. Alla sua morte Sade ebbe diritto a funerali religiosi e venne sepolto nel cimitero del manicomio di Charenton. Le sue opere sono un caso editoriale che dura tutt’ora. Il Corriere della Sera cerca di capire le ragioni per cui nessuna delle sue opere sia stata inserita nell'Indice dei libri proibiti.
SADE NON FU MAI MESSO ALL’INDICE
Nel
1947, per la prima volta, varie opere di Sade vengono pubblicate a
Parigi con il nome e l’indirizzo di un editore, Jean-Jacques Pauvert,
che inizia con La storia di Juliette ovvero le prosperità del vizio ,
apparsa in origine nel 1797 con il falso luogo «In Olanda» e arricchita
da cento incisioni.
Di
essa l’autore negò la paternità, ma i librai non esitarono a tradirlo,
mentre du Ravel dichiarò che egli aveva superato se stesso con uno
scritto ancora più detestabile di quell’infame «capolavoro di
corruzione» rappresentato da Justine (1791), sorella di Juliette, che
sarà seguito dai 4 volumi della Nuova Justine .
Nel
marzo 1801 Sade viene nuovamente arrestato (in tutto saranno 28 i suoi
anni di carcere) e il manoscritto di Juliette viene sequestrato dalla
polizia, ma i librai parigini nel 1802 fanno a gara per ristampare e
diffondere le sue opere. Si trattava, e così sarà fino al 1947, di
edizioni clandestine o di tirature molto ridotte.
Pauvert,
che aveva sfidato tabù sociali e leggi sulla censura pubblicando 24
volumi di Sade, venne «severamente condannato» nel 1957 dal tribunale di
Parigi per aver stampato opere contrarie al buon costume (delle quali
vennero ordinate la confisca e la distruzione), denunciate dalla
Commissione per i libri prevista dalle leggi: tra i testimoni Paulhan,
Bataille, Cocteau, Bréton. L’anno successivo l’editore, difeso da un
principe del foro, Maurice Garçon, accademico di Francia, verrà assolto
in appello per l’acclarata nullità della decisione della Commissione per
l’assenza di alcuni suoi membri.
Come
ha scritto lo stesso Pauvert, per la prima volta «veniva riconosciuto
il diritto di esistere all’opera più scandalosa di tutti i tempi», ma il
21 dicembre 1958 la Francia di de Gaulle approverà una legge che
ripristinava la censura con misure definite da Garçon più dure di quelle
di Napoleone, in quanto con la scusa di tutelare l’infanzia esse davano
il potere al ministro dell’Interno di predisporre una lista di libri
proibiti. Dopo qualche garanzia per gli editori negli anni Sessanta, il
nuovo codice penale del 1994 introdurrà pene severe contro libri o
audiovisivi che diffondessero messaggi violenti o pornografici violando
la dignità umana: ancora Garçon qualificherà le relative norme «il
capolavoro della Censura».
Gli
ultimi anni Novanta del Novecento vedranno però l’opera di Sade
consacrata nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, a
cura di Michel Delon. Gli studi su di lui si erano, peraltro,
moltiplicati, come l’attenzione dei più accreditati intellettuali
mondiali.
Colpisce
comunque che negli anni trascorsi dal tempo di Sade, scomparso
esattamente due secoli fa il 2 dicembre 1814, la Chiesa di Roma non paia
essersi accorta dei suoi scritti particolarmente violenti contro la
religione.
Negli
«Indici dei libri proibiti» pubblicati dal papato in questo lasso di
tempo (l’ultimo è del 1948, nel 1966 l’ Index verrà eliminato) mai
l’autore o qualcuna delle sue opere blasfeme si rinviene nella nota
collezione quasi completa di normative, documenti, elenchi di scritti
pubblicata a Ginevra e a Montréal dal De Bujanda. Non mancano Voltaire e
Rousseau, Casanova e d’Annunzio, Beccaria, Sartre e Simone de Beauvoir,
Zola e Balzac, Fogazzaro e Moravia, Gioberti e Rosmini, Croce e
Gentile, George Sand e Ada Negri, che certo non appartengono al «mondo
alla rovescia» del nostro marchese. Sade peraltro era un grande
conoscitore della Bibbia e la sua «religione» appare «molto più
complessa e paradossale di una antiteologia che si contentasse di
proclamare tutto il contrario dei valori della Chiesa» (Vilmer).
Non
si rinviene traccia di Sade nella documentazione conservata negli
archivi romani della «Congregazione dell’Indice», soppressa nel 1917 da
Benedetto XV con l’attribuzione delle relative competenze a quella del
Sant’Uffizio. Non è agevole, quindi, spiegare i silenzi della Chiesa,
che non possono essere dovuti né a distrazione dei censori
ecclesiastici, né alla scarsa notorietà o alla paternità non
immediatamente dichiarata di alcuni scritti, né, ancora, al fatto che le
opere lascive sarebbero ricadute in una generica e originaria condanna.
Opere del genere infatti, in diverse epoche, si ritrovano tra quelle
condannate.
Si
aggiunga che alla sua morte, nonostante le diverse disposizioni
testamentarie, Sade ebbe diritto ai funerali religiosi e venne sepolto
nel cimitero del manicomio di Charenton in una tomba senza nome, ma con
solo una grande croce di pietra. Le autorità di polizia furono
tranquillizzate: metà dei suoi numerosi manoscritti vennero da esse
sequestrati e dati alle fiamme, l’altra metà chiusi in un baule e
consegnati alla famiglia che, fino alla quinta generazione dei Sade, si
guardò bene dall’aprirlo.
Solo
di recente è stato ritrovato ed esposto a Parigi al Museo dei
manoscritti il famoso rouleau , un insieme di fogli clandestini
incollati tra loro sui quali Sade aveva trascritto Le 120 giornate di
Sodoma e che restarono nella sua cella alla Bastiglia quando venne
trasferito a Charenton e, dopo la presa della fortezza nel 1789,
finirono in mani private.
C’è
la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel
pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della
filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e
materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei
Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina
agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo»
(Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant.
Di
certo il silenzio ecclesiastico sulle sue opere appare tanto più
stupefacente se si tiene conto che, proprio in Juliette , egli immagina
un episodio nettamente blasfemo e mette in ridicolo papa Braschi (Pio
VI) — alla cui «incoronazione» aveva assistito — facendogli scrivere una
lunga «enciclica», intitolata Di tutte le stravaganze dell’uomo , piena
di dottrina e di riferimenti storici, filosofici e teologici, che
esalta l’assassinio e gli assassini.
Quel
che è più grave è che Juliette negozia con il Papa — che lei provoca in
tutte le forme e definisce «fantasma orgoglioso» e «vecchia scimmia» —
la dissertazione e i suoi contenuti in cambio di una «immensa orgia,
piena di lussuria e di libertinaggio» che si sarebbe svolta intorno
all’altare di San Pietro protetto da enormi paraventi.
Pio
VI, comunque, riconosce che l’elevazione delle idee di Justine è
estremamente rara tra le donne e conclude il suo testo con queste
parole: «Tutti i popoli hanno sgozzato uomini sugli altari dei loro dei.
In ogni tempo l’uomo ha provato piacere versando il sangue dei suoi
simili e… talvolta ha mascherato questa passione con il velo della
giustizia, talvolta con quello della religione. Ma il fondamento, lo
scopo era, senza dubbio alcuno, lo stupefacente piacere che ne provava».
Un testo profondamente… sadico (o sadista?) che sicuramente non dovette
sfuggire ai censori ecclesiastici, ma che continua, dopo più di due
secoli, a poter essere letto senza tema di pene anche solo spirituali.
“Corriere della Sera” 1 dicembre 2014
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