02 ottobre 2015

BASQUIAT A BILBAO



Una splendida retrospettiva al Guggenheim di Bilbao ricostruisce il percorso artistico e umano di uno dei più interessanti interpreti della post-modernità.

Achille Bonito Oliva

Jean.Michel Basquiat

Cento grandi opere costituiscono il corredo della retrospettiva di Jean-Michel Basquiat al Guggenheim di Bilbao, fino al primo novembre. Un ampio percorso dell’artista americano precocemente scomparso (1960-1988) protagonista di un decennio, gli anni Ottanta, segnato da turbolenze sociali ed esigenze identitarie. All’assalto di una visibilità politicamente negata, da conquistare ad ogni costo. Nato e vissuto a Brooklyn (da padre haitiano e madre portoricana) fino a 12 anni, dopo tre anni a Porto Rico ritorna a New York iniziando la sua vita intensa e sradicata, nutrita fino al 1980 di graffitismo, col nome di Samo.

In America l’arte è welcome se sospende il giudizio sulla società che la accoglie. Così è ben accetta la vistosa messinscena della Pop Art e l’apparente cinismo della pittura fredda e distaccata di Andy Warhol. A questo contesto produttivo ed artistico ancorato ai caratteri di impersonalità, oggettività, neutralità, seppure amplificato da stimoli visivi musicali, il graffitismo risponde con una autentica necessità espressiva.



Con quella che Norman Mailer chiama “fede dei graffiti”, slogan politici, frasi erotiche, richiami ermetici, scrittura libera e anonima, cromaticamente aggressiva e tracciata con le bombolette spray.
Samo e i suoi amici si esprimono utilizzando gli spazi della subway, le pareti della metropolitana con colori industriali mediante un linguaggio fatto di immagini e parole. Il risultato è un meticciato delle arti: parole, musica, danza, architettura, scenografia, movimentismo e droghe, che ricordano involontariamente la definizione di arte totale di Kandinsky e Marinetti. 

Un armamentario linguistico che con oggettiva allegria trova le sue origini anche nelle avanguardie storiche europee: l’onomatopea e la parolibera futurista, l’uso della provocazione dadaista e l’aggressività del linguaggio pubblicitario. 

L’esercito notturno dei graffitisti dunque afferma un proprio diritto alla parola, segnala pubblicamente la propria presenza esaltandone la deriva esistenziale. Samo lentamente si è spostato dal clima notturno a quello diurno, dagli spazi pubblici e improvvisati della città a quelli circoscritti e selezionati della galleria e del museo. Frutto di un bisogno che sempre più sente la necessità di formalizzare le spinte espressive entro il recinto di una comunicazione più complessa e meno spontaneista. 



Nel sistema dell’arte egli trova un clima favorevole a tale passaggio, segnato dal nomadismo culturale, dalla ripresa del genius loci e dall’eclettismo ed è sostenuto da uno stretto sodalizio con Haring, Clemente e Warhol. Ora egli riporta sulla tela la forza astratto-figurativa di questa esperienza, il carattere dichiarativo e narrativo, la forza esplicita e didascalica, lo stato di confusione e aggregazione spontanea degli elementi visivi. 

Sul piano linguistico, i rimandi corrono nella direzione di De Kooning per il taglio figurativo delle immagini, in quella di Twombly per quanto riguarda la grafia elementare e verso l’espressionismo astratto di Pollock, da cui il giovane artista americano recupera il furor del segno e la sua capacità di stabilire un avvolgimento dell’immagine. 

Con una capacità di sintesi picassiana e una intelaiatura brut alla Dubuffet, Basquiat introduce nella sua epica visiva eroi neri da Malcom X a Charlie Parker, da Jesse Owens a Billie Holiday. Eroi neri che con la loro presenza elaborano il lutto storico di minoranze ghettizzate e magari utilizzate con falso orgoglio yankee.



Le opere spesso sono composte di molti pannelli che dividono superfici ricoperte di scritte, immagini e collage in rotta di collisione tra loro. Sentimento di uno spazio conflittuale ripreso dai percorsi intricati eppure vitali della città americana. Basquiat ne coglie il trend iconografico, il sistema pubblicitario raffigurato dal dollaro con una sapiente scompaginazione formale che non dimentica Klein e Rauschenberg, articolando l’immagine secondo opposte tensioni che giocano tra impeto costruttivo e desiderio di cancellazione, che portano il tutto a turbolenta superficie. Senza dimenticare la memoria di una sensibilità pellicolare del segno scheletrico proveniente da Klee. 



Forte è l’attenzione verso l’opera di Warhol e Lichtenstein, le immagini quotidiane di Larry Rivers. Se le prime opere riproducono lo stile afasico del rap, successivamente assumono il timbro compatto e squillante proveniente dalla memoria visiva di Ellsworth Kelly.

La mostra di Bilbao ci consegna l’opera duratura di un artista che ci ha lasciato tracce lampanti di un cupio dissolvi arginato dall’erotismo d’immagini che testimoniano una nostalgia postuma della vita. Astrazione e figurazione s’intrecciano alla ricerca di un’immagine che non vuole essere mai perentoria, ma l’accenno tra un desiderio di fuga e il piacere di un possibile riparo che forse soltanto l’arte può dare.


La Repubblica - 6 Settembre 2015

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