Paul Gauguin, D’où venons-nous? Qui sommes-nous? Où allons-nous?, 1897
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Valeria Spallino
«Credo
che questa tela non solo sia superiore a tutte quelle precedenti, ma
anche che mai mi riuscirà di farne una migliore o anche solo simile. Vi
ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, e una tale passione
dolorosa in circostanze così terribili, una visione così pura, senza
correzioni, che tutto ciò che vi è di precipitoso sparisce e ne sorge la
vita. … Il mio sogno non si lascia catturare, non ha alcuna allegoria; è
un poema musicale e fa a meno di qualsiasi libretto… l’essenziale in
un’opera d’arte è in quello che non è espresso».
Paul Gauguin (Parigi, 1848 – Hiva Oa, 1903)
Protagonista della fase artistica
definita post-impressionismo, Gauguin fu un genio vagabondo e ribelle,
insoddisfatto ed incompreso, ma grande maestro del colore attraverso cui
espresse la sua profonda inquietudine umana ed interiore. Per tutta la
vita Gauguin viaggiò spinto non tanto da un bisogno di evadere verso
luoghi incontaminati quanto dal desiderio di ritrovare se stesso e la
propria arte in uno stato genuino di comunione con la natura.
La pittura di Gauguin è una sintesi
delle principali correnti artistiche che attraversano l’arte pittorica
francese alla fine del XIX secolo. Da un esordio impressionista,
passando per una fase sintetista, alla ricerca di una pittura sempre più
intensa ed espressiva e per volontà di andare oltre il visibile, egli
approdò al simbolismo, rivendicando la libertà dell’artista e il suo «diritto di osare tutto»;
fu tra gli artisti che, sul finire dell’Ottocento, contribuirono con
straordinaria forza innovativa a superare la tradizione verso una
concezione dell’arte più chiaramente moderna.
Nel tentativo di un ritorno alle origini
e agli istinti primitivi dell’uomo, egli produsse una pittura in uno
stile volutamente rudimentale, caratterizzato da forme semplificate,
delimitate da linee nette, e da colori forti, puri ed intensi, stesi a
campiture piatte senza sfumature, in uno spazio privo di profondità
prospettica e svincolato da qualsivoglia effetto di luce, spazio reso
con elementi decorativi che richiamano l’arabesco, in una raffigurazione
non esente da influenze e simbologie indiane e giapponesi. Un nuovo
modo di dipingere, rapido e sintetico, libero da schemi e regole, legato
all’espressione dei moti dell’animo o allusivo a suggestioni
simboliche.
Gauguin ripudia la società del proprio
tempo fino ad evadere (e morire) in Polinesia, per ritrovare, in una
natura e tra genti non guaste dal progresso, la condizione di
autenticità e d’ingenuità primitiva in cui può ancora sbocciare l’arte,
il fiore della bellezza e della poesia che il clima dell’Europa
industriale uccide. Egli è contrario all’abbrutimento della macchina e
allo scandalo morale del colonialismo e, a contatto con popoli e luoghi
esotici ed incontaminati, ricerca nell’immaginazione non un’evasione ma
una coscienza dell’immaginazione, nell’arte non una ricerca
intellettuale ma la comunicazione di un sentimento, un messaggio,
un’etica e una morale.
Considerato il testamento spirituale del
suo originale percorso biografico ed artistico, questa tela è di grandi
dimensioni e si sviluppa in una composizione orizzontale con lettura da
destra verso sinistra secondo un percorso che simboleggia, attraverso
figure umane e paesaggi tipici dell’ambiente polinesiano, il tempo ed il
cammino esistenziale (la fanciullezza, la giovinezza, la vecchiaia), le
gioie e le incertezze delle vita.
È lo stesso Gauguin in una lettera ad un amico a guidarci in una prima lettura della tela:
«Ai due angoli in alto, dipinti in
giallo cromo, reca il titolo a sinistra e la mia firma a destra, come un
affresco guasto agli angoli applicato su di un fondo oro. A destra in
basso, un bambino che dorme e tre donne accoccolate. Due figure vestite
di porpora si confidano i loro pensieri. Un’altra che ho voluto assai
grande e, in contrasto con la prospettiva, accoccolata, leva in alto il
braccio e guarda quelle, stupita che non temano di pensare al loro
destino. Nel mezzo un’altra coglie frutta. Due gatti accanto ad un
bambino. Una capra bianca. L’idolo leva misteriosamente le braccia e
sembra indicare l’altro mondo col suo ritmo. Una figura accoccolata,
come ad ascoltarlo; una vecchia infine, vicina a morire e rassegnata a
ciò che pensa, conclude la leggenda: ai suoi piedi uno strano uccello
bianco che tra le zampe tiene ferma una lucertola. Sta a significare la
vanità delle parole. Tutto ciò accade lungo un ruscello, sotto gli
alberi. In fondo è il mare e le cime dell’isola vicina. Malgrado i
diversi motivi di colore, il tono del paesaggio è tutto blu e verde
veronese. Su questo fondo tutti i nudi staccano in vivo arancione».
Il quadro non è dunque una semplice
allegoria delle fasi della vita e resta oscuro e ambiguo in taluni suoi
elementi e connessioni: tentarne la lettura significa accostarlo con
cuore aperto, con sguardo libero e mente priva di schemi interpretativi
preconcetti, per lasciarsi interamente catturare dalla sua magia esotica
ed evocativa. In esso permane un senso profondo di semplicità
originaria in cui regna l’armonia tra esseri viventi ed ambiente, e dove
le sofferenze e le tristezze della vita non sono cancellate ma
accettate e integrate in un sistema gioioso superiore su cui veglia
benigna una divinità.
Alle tre domande espresse dal titolo (Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?),
sul perché dell’esistenza, sulla propria origine e destinazione, l’uomo
e lo stesso pittore non possono dare risposta alcuna: le parole,
avverte Gauguin, sono vane, sono impotenti di fronte al mistero. Il
quadro più che svelare o suggerire una soluzione, invita dunque a
riflettere e sottolinea l’enigma appassionante della vita.
Testo ripreso da: https://www.lunarionuovo.it/
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