31 maggio 2018

S. LO LEGGIO, Cosa vuol dire oggi essere "marxisti"


“Siamo marxisti? Esistono marxisti?” 

Salvatore Lo Leggio


Per il duecentesimo compleanno di Marx non c'è stato il clamore di altre ricorrenze del passato riferibili al rivoluzionario di Treviri, né il fervore religioso di certe antiche celebrazioni. La fine dell'Unione Sovietica, che nel pensiero di Marx, anzi nel marxismo, anzi nel marxismo-leninismo, pretendeva di trovare la giustificazione della sua nascita e della sua esistenza, e del comunismo novecentesco che a quell'esperienza si collegava, ha laicizzato la ricorrenza. Il che non è necessariamente un male.
Un approccio laico, del resto, era quello di Antonio Gramsci un secolo fa, per il primo centenario della nascita, nell'editoriale scritto per il “Grido del popolo”, il settimanale dei socialisti torinesi, dal titolo Il nostro Marx. Basta rileggerne l'incipit: “Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? [...] La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d’inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio...”.
Unica celebrazione solenne di questo secondo centenario è stata quella svoltasi a Pechino, in un immenso Stato tuttora governato da un Partito Comunista, ma il cui sviluppo lascia molte perplessità sulla natura sociale di quel modello economico e politico. A Pechino, per l'Italia, c'era Massimo D'Alema, che ha prodotto su Marx uno dei pochi interventi italiani “simpatetici” di questo centenario. Sulla stampa nazionale che un tempo chiamavamo “borghese” non sono, infatti, mancati interventi sul Marx pensatore, storico, teorico dell'economia, in gran parte encomiastici, e qualcuno di essi ricordava che per alcune sue formulazioni e ricerche egli oggi funge paradossalmente da maestro di quei capitalisti contro cui organizzava la classe operaia e il proletariato. Ma in genere gli elogi si accompagnano all'archiviazione del Marx ispiratore di movimenti politici, ad una sua collocazione monumentale nella storia della cultura, anzi della Cultura, occidentale. D'Alema no, in un certo senso è rimasto “chierico”: ha perciò parlato di Marx come maestro, tentando un'interpretazione della nozione di “capitale fittizio” e dichiarando che la lente critica di Marx può aiutare a governare il capitalismo, controllando le pulsioni distruttive che accompagnano il “feticismo del denaro”.
Trovo più convincente Immanuel Wallerstein che a Marx ha sempre guardato senza rispetto religioso. Nel concludere un suo prezioso libretto, Il capitalismo storico, più di trent'anni fa, quando l'URSS c'era ancora, scriveva: “ Karl Marx è stato una figura monumentale nella storia intellettuale e politica contemporanea. Ci ha lasciato una grande eredità, che è concettualmente ricca e moralmente ispirata.[…] Egli sapeva, a differenza di molti di quelli che si sono spesso autoproclamati suoi discepoli, di essere un uomo del secolo XIX […]. Adoperiamo dunque i suoi scritti nell'unica maniera ragionevole - consideriamolo un compagno di lotta, che ne sapeva quanto lui ne ha saputo”. Oggi – in un dialogo con un giovane studioso italiano, Marcello Musto, pubblicato un mese fa su “La lettura” del Corsera – Wallerstein ricorda come Marx ci abbia insegnato “meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società” e come dal capitalismo come totalità (imperfetta, ma totalità) sia possibile uscire. Marx, soggiunge, nel capitalismo globalizzato e pieno di ingiustizie, è ancora nostro compagno e può ancora aiutarci ad uscirne.
Quanto a noi – parlo di me, ma credo possa essere riferito a diversi compagni di “micropolis” e “Segno critico” - non abbiamo difficoltà a definirci “marxisti” impenitenti, specie oggi che esserlo è fuori moda. Ricordiamo l'affermazione di Marx di non essere “marxista” e abbiamo letto con profitto su una rivista on line di storia delle idee, “InTrasformazione”, patrocinata dall'Università di Palermo e diretta da Piero Violante, l'utilissimo glossario storico sulla babele dei marxismi e sulla confusione semantica e concettuale che ne è nata, elaborato da Enrico Guarneri, un vecchio compagno della scuola di Mario Mineo. Ma, a modo nostro, ci piace continuare a dirci “marxisti”, provando a ricomporre, seguendo l'esempio del nostro compagno Karl, la scissione tra ricerca teorica e impegno pratico, di cui scrive Paolo Favilli sul “manifesto” (“Bisogna entrare nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica”). Ci riconosciamo in quanto, all'inizio del millennio, ribadiva un grande intellettuale (ed eccellente poeta) come Edoardo Sanguineti: “Nel momento niente offre una visione più matura, più ricca del marxismo che, mi pare, è ancora quella che spiega meglio a che punto siamo della storia umana, quali sono i temi fondamentali da affrontare e anche qual è la direzione verso la quale muoversi, che poi è la questione veramente radicale. Cioè: che fare”.
Il nostro "marxismo" è un'approssimazione, un modo di dire, non certo un pensiero in sé compiuto, ma, così concepito, non rientra nel circuito dell'ideologia. L'ideologia non cerca verifiche o smentite nella realtà, si contenta della coerenza formale; il pensare alla marxista invece di necessità comporta scarti e accidenti. Si può essere davvero "marxisti", solo lasciando aperte porte e finestre.

"micropolis", maggio 2018 - Nella rubrica "La battaglia delle idee"

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