12 maggio 2018

IL MANIFESTO DEL 1848 CONTINUA A TOGLIERE IL SONNO AI PADRONI DEL MONDO E AI LORO SERVI


Un’operazione editoriale e politica ambiziosa dal punto di vista del metodo. Prendere il «Manifesto comunista» e commentare i capitali che lo compongono allo scopo di svelare l’attualità dei temi lì affrontati. L’esito, pubblicato da Ponte alle Grazie, è un volume che raccoglie contributi di illustri studiosi e pensatori marxisti. Ne emerge una sorta di commento interlineare del celebre libro di Karl Marx e Frederich Engels e, cumulativamente, una lettura del testo marxiano che si discosta dalle interpretazioni dominanti su Marx sia tra i suoi detrattori che dei suoi apologeti: il profeta sconfessato dalla Storia o, all’opposto, il testimone senza tempo e disincarnato dalla realtà di un’attitudine critica del capitalismo. Di seguito parte del contributo del filosofo francese Etienne Balibar.


Etienne Balibar

Doppia interlinea per un’opera aperta

Pur non essendo l’opera «comunista» più diffusa della storia (la palma in questo senso va al «libretto rosso» di Mao, titolo divulgativo delle Citazioni del Presidente Mao Tse Tung, che contende da vicino il primato di diffusione al Corano e alla Bibbia), il Manifesto del 1848 resta il testo più emblematico della tradizione marxista rivoluzionaria. Quello che ne dichiara e ne rende esplicite le intenzioni, ne getta le fondamenta teoriche, attraverso un excursus storico integrato con un’analisi sociale, per arrivare infine a elaborare un programma politico.

Nel Manifesto vengono formulate le parole d’ordine attorno alle quali si organizzerà e svilupperà (ma anche, come accade nella storia di tutte le grandi «fedi», si scinderà e si riformerà) un movimento di massa che, pur non avendo trasformato il mondo come nelle sue intenzioni, è comunque stato determinante più di ogni altro nello scenario politico di tutto il XIX secolo e di buona parte del XX. Inoltre, il Manifesto ha fatto di Marx e Engels l’incarnazione di quella figura intellettuale da sempre ricercata dalla tradizione filosofica (per lo meno quella occidentale, che è stata in seguito universalizzata), almeno da Platone in poi: quella del «filosofo Re», ossia di un discorso che produce effetti concreti sulla vita degli esseri umani.

La figura, insomma, di un certo assoluto, non trascendente ma storico e politico, in cui l’obiettività sociale e la soggettività rivoluzionaria si sviluppano e si determinano l’una con l’altra. In queste circostanze, non desta sorprese il fatto che il Manifesto sia finito per diventare, più di ogni altro documento «letterario», l’incarnazione di quella idea di rivoluzione che gli uomini e le donne ancora oggi nel XXI secolo continuano a temere o a sognare.

È qui che cominciano le difficoltà, tuttavia. Ora che il basamento storico delle esperienze su cui poggiava quest’idea è stato quasi completamente scalzato – non soltanto dall’usura del tempo, ma anche per effetto di drammatiche vicissitudini – o ancora (metafora alternativa usata da Michel Foucault) ora che il testo e le sue idee sono, nella storia, come «pesci fuor d’acqua» e fanno fatica a respirare, quale può essere lo statuto di questo testo, non soltanto per chi continuerà a leggerlo, ma per tutti coloro che vorranno ancora leggerlo come la sintesi del marxismo?

Il grande rischio è che si finisca per oscillare tra due poli antitetici. Da un lato, considerarlo come un documento, un reperto da museo al quale senz’altro si devono dedicare tutte le cure filologiche, ideologiche e sociologiche, ma che per definizione non designa nient’altro che un «futuro passato»; dall’altro lato, interpretarlo come una profezia senza tempo o, meglio, come un baluardo di speranza più forte di ogni «dato di fatto» (quei dati di fatto che, come diceva Rousseau, si devono «mettere da parte» per pensare la possibilità dell’emancipazione) e che si potrebbe definire come un’Idea (l’«Idea Comunista»). (…)
    Etienne Balibar

Il quarto capitolo del Manifesto esprime la «posizione» dei comunisti riguardo ai «diversi partiti di opposizione». Nello svolgimento del capitolo questa denominazione viene allargata a «ogni movimento rivoluzionario contro la situazione sociale e politica attuale», «ovunque» si sviluppi. Come già nel secondo capitolo, questa formula sancisce in modo chiaro che i comunisti non sono un «partito particolare», distinto in senso organizzativo. Funzionano piuttosto da istanza di collegamento, da capacità «soggettiva» che opera una sintesi tra i vari «partiti» rivoluzionari: una sorta di «partito dei partiti», o «movimento dei movimenti», che deve totalizzarli per spingere la loro azione al livello della totalità, ovvero sul piano del mondo unificato dal capitalismo. Questo significa anche che i movimenti che hanno l’obiettivo di rovesciare l’ordine esistente possono essere pensati tutti sotto un unico punto di vista.

Questa logica ha tuttavia molte sfaccettature, e ce ne accorgiamo quando esaminiamo il modo in cui il Manifesto arriva al celebre slogan conclusivo «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» In primo piano spicca l’antagonismo «violento» tra il proletariato e la borghesia, la quale dà vita e organizzazione all’ordine capitalistico. Questo antagonismo affonda le sue radici nel meccanismo stesso dello sfruttamento del lavoro – che in questa sede viene caratterizzato come lavoro operaio, opera di una classe operaia alla quale l’appellativo di «proletariato» conferisce il significato di classe radicalmente sfruttata, senza alcuna riserva di autonomia – per mezzo della proprietà privata degli strumenti di produzione e del lavoro salariato. L’esito inevitabile di tutto questo è il rovesciamento o l’abolizione della proprietà capitalistica. (…).
Lo slogan ha altri due sensi, facce che il resto del testo, nella misura in cui descrive un «movimento» e non soltanto un «regime», ci porta a considerare come veri e propri correlati di questo primo senso, quindi come elementi a pieno titolo della concezione di comunismo esposta nel Manifesto. Si tratta dell’internazionalismo e del radicalismo politico, che prescrive di «sostenere» i partiti democratici, criticandone le «illusioni rivoluzionarie», per orientarli verso il «futuro» oggettivo del movimento, cioè verso la rivoluzione comunista. Questi due aspetti sono strettamente legati l’uno all’altro, nella misura in cui le forme di internazionalismo concretamente evocate nel testo servono precisamente a catalizzare la «tendenza» della democrazia radicale (ugualitaria, rivoluzionaria) a superarsi in rivoluzione sociale (o comunque a farle superare i suoi «limiti borghesi»). È chiaro tuttavia che queste due facce non hanno esattamente lo stesso statuto, il che diventa ancora più evidente se guardiamo alla loro genealogia nel sistema del testo.

L’internazionalismo, da un lato, è immediatamente connesso all’idea stessa di proletariato: questa correlazione si fonda sull’analisi del carattere transnazionale dello sviluppo del capitale (e del lavoro come sua controparte). Il capitale è, per definizione, mondiale, e «gli operai non hanno patria» (secondo capitolo). Si può dire che nel Manifesto esista un’unità «analitica» tra comunismo e internazionalismo: l’uno non si può pensare senza l’altro.

Al contrario, l’unità tra comunismo e democrazia è «sintetica» in quanto congiunge due termini distinti, il che non significa tuttavia che essa sia contingente. Perché senza la lotta per la democrazia il comunismo non esiste (è la democrazia a costituire l’educazione politica dei proletari) e senza «conquista della democrazia» (secondo capitolo) non si può operare il passaggio alla società senza classi, in cui i valori di libertà e uguaglianza implicati nell’ideale democratico vengono senz’altro conservati e, anzi, intensificati.

Tuttavia, il termine «democrazia» può sembrare non designare altro che un mero «mezzo» politico, una mediazione dialettica che il movimento comunista deve operare per raggiungere il suo scopo. Mediazione che poi svanisce nel suo stesso risultato.

Il manifesto – 3 maggio 2018

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