Un’operazione
editoriale e politica ambiziosa dal punto di vista del metodo.
Prendere il «Manifesto comunista» e commentare i capitali che lo
compongono allo scopo di svelare l’attualità dei temi lì
affrontati. L’esito, pubblicato da Ponte alle Grazie, è un volume
che raccoglie contributi di illustri studiosi e pensatori marxisti.
Ne emerge una sorta di commento interlineare del celebre libro di
Karl Marx e Frederich Engels e, cumulativamente, una lettura del
testo marxiano che si discosta dalle interpretazioni dominanti su
Marx sia tra i suoi detrattori che dei suoi apologeti: il profeta
sconfessato dalla Storia o, all’opposto, il testimone senza tempo e
disincarnato dalla realtà di un’attitudine critica del
capitalismo. Di seguito parte del contributo del filosofo francese
Etienne Balibar.
Etienne Balibar
Doppia interlinea per
un’opera aperta
Pur non essendo l’opera
«comunista» più diffusa della storia (la palma in questo senso va
al «libretto rosso» di Mao, titolo divulgativo delle Citazioni
del Presidente Mao Tse Tung, che contende da vicino il primato di
diffusione al Corano e alla Bibbia), il Manifesto del
1848 resta il testo più emblematico della tradizione marxista
rivoluzionaria. Quello che ne dichiara e ne rende esplicite le
intenzioni, ne getta le fondamenta teoriche, attraverso un excursus
storico integrato con un’analisi sociale, per arrivare infine a
elaborare un programma politico.
Nel Manifesto vengono
formulate le parole d’ordine attorno alle quali si organizzerà e
svilupperà (ma anche, come accade nella storia di tutte le grandi
«fedi», si scinderà e si riformerà) un movimento di massa che,
pur non avendo trasformato il mondo come nelle sue intenzioni, è
comunque stato determinante più di ogni altro nello scenario
politico di tutto il XIX secolo e di buona parte del XX. Inoltre,
il Manifesto ha fatto di Marx e Engels l’incarnazione di
quella figura intellettuale da sempre ricercata dalla tradizione
filosofica (per lo meno quella occidentale, che è stata in seguito
universalizzata), almeno da Platone in poi: quella del «filosofo
Re», ossia di un discorso che produce effetti concreti sulla vita
degli esseri umani.
La figura, insomma, di un
certo assoluto, non trascendente ma storico e politico, in cui
l’obiettività sociale e la soggettività rivoluzionaria si
sviluppano e si determinano l’una con l’altra. In queste
circostanze, non desta sorprese il fatto che il Manifesto sia
finito per diventare, più di ogni altro documento «letterario»,
l’incarnazione di quella idea di rivoluzione che gli uomini e le
donne ancora oggi nel XXI secolo continuano a temere o a sognare.
È qui che cominciano le
difficoltà, tuttavia. Ora che il basamento storico delle esperienze
su cui poggiava quest’idea è stato quasi completamente scalzato –
non soltanto dall’usura del tempo, ma anche per effetto di
drammatiche vicissitudini – o ancora (metafora alternativa usata da
Michel Foucault) ora che il testo e le sue idee sono, nella storia,
come «pesci fuor d’acqua» e fanno fatica a respirare, quale può
essere lo statuto di questo testo, non soltanto per chi continuerà a
leggerlo, ma per tutti coloro che vorranno ancora leggerlo come la
sintesi del marxismo?
Il grande rischio è che
si finisca per oscillare tra due poli antitetici. Da un lato,
considerarlo come un documento, un reperto da museo al quale
senz’altro si devono dedicare tutte le cure filologiche,
ideologiche e sociologiche, ma che per definizione non designa
nient’altro che un «futuro passato»; dall’altro lato,
interpretarlo come una profezia senza tempo o, meglio, come un
baluardo di speranza più forte di ogni «dato di fatto» (quei dati
di fatto che, come diceva Rousseau, si devono «mettere da parte»
per pensare la possibilità dell’emancipazione) e che si potrebbe
definire come un’Idea (l’«Idea Comunista»). (…)
Etienne Balibar
Il quarto capitolo
del Manifesto esprime la «posizione» dei comunisti
riguardo ai «diversi partiti di opposizione». Nello svolgimento del
capitolo questa denominazione viene allargata a «ogni movimento
rivoluzionario contro la situazione sociale e politica attuale»,
«ovunque» si sviluppi. Come già nel secondo capitolo, questa
formula sancisce in modo chiaro che i comunisti non sono un «partito
particolare», distinto in senso organizzativo. Funzionano piuttosto
da istanza di collegamento, da capacità «soggettiva» che opera una
sintesi tra i vari «partiti» rivoluzionari: una sorta di «partito
dei partiti», o «movimento dei movimenti», che deve totalizzarli
per spingere la loro azione al livello della totalità, ovvero sul
piano del mondo unificato dal capitalismo. Questo significa anche che
i movimenti che hanno l’obiettivo di rovesciare l’ordine
esistente possono essere pensati tutti sotto un unico punto di vista.
Questa logica ha tuttavia
molte sfaccettature, e ce ne accorgiamo quando esaminiamo il modo in
cui il Manifesto arriva al celebre slogan conclusivo «Proletari di
tutti i paesi, unitevi!» In primo piano spicca l’antagonismo
«violento» tra il proletariato e la borghesia, la quale dà vita e
organizzazione all’ordine capitalistico. Questo antagonismo affonda
le sue radici nel meccanismo stesso dello sfruttamento del lavoro –
che in questa sede viene caratterizzato come lavoro operaio, opera di
una classe operaia alla quale l’appellativo di «proletariato»
conferisce il significato di classe radicalmente sfruttata, senza
alcuna riserva di autonomia – per mezzo della proprietà privata
degli strumenti di produzione e del lavoro salariato. L’esito
inevitabile di tutto questo è il rovesciamento o l’abolizione
della proprietà capitalistica. (…).
Lo slogan ha altri due
sensi, facce che il resto del testo, nella misura in cui descrive un
«movimento» e non soltanto un «regime», ci porta a considerare
come veri e propri correlati di questo primo senso, quindi come
elementi a pieno titolo della concezione di comunismo esposta
nel Manifesto. Si tratta dell’internazionalismo e del
radicalismo politico, che prescrive di «sostenere» i partiti
democratici, criticandone le «illusioni rivoluzionarie», per
orientarli verso il «futuro» oggettivo del movimento, cioè verso
la rivoluzione comunista. Questi due aspetti sono strettamente legati
l’uno all’altro, nella misura in cui le forme di
internazionalismo concretamente evocate nel testo servono
precisamente a catalizzare la «tendenza» della democrazia radicale
(ugualitaria, rivoluzionaria) a superarsi in rivoluzione sociale (o
comunque a farle superare i suoi «limiti borghesi»). È chiaro
tuttavia che queste due facce non hanno esattamente lo stesso
statuto, il che diventa ancora più evidente se guardiamo alla loro
genealogia nel sistema del testo.
L’internazionalismo, da
un lato, è immediatamente connesso all’idea stessa di
proletariato: questa correlazione si fonda sull’analisi del
carattere transnazionale dello sviluppo del capitale (e del lavoro
come sua controparte). Il capitale è, per definizione, mondiale, e
«gli operai non hanno patria» (secondo capitolo). Si può dire che
nel Manifesto esista un’unità «analitica» tra
comunismo e internazionalismo: l’uno non si può pensare senza
l’altro.
Al contrario, l’unità
tra comunismo e democrazia è «sintetica» in quanto congiunge due
termini distinti, il che non significa tuttavia che essa sia
contingente. Perché senza la lotta per la democrazia il comunismo
non esiste (è la democrazia a costituire l’educazione politica dei
proletari) e senza «conquista della democrazia» (secondo capitolo)
non si può operare il passaggio alla società senza classi, in cui i
valori di libertà e uguaglianza implicati nell’ideale democratico
vengono senz’altro conservati e, anzi, intensificati.
Tuttavia, il termine «democrazia» può sembrare non designare altro che un mero «mezzo» politico, una mediazione dialettica che il movimento comunista deve operare per raggiungere il suo scopo. Mediazione che poi svanisce nel suo stesso risultato.
Il manifesto – 3 maggio
2018
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