14 maggio 2018

V. VASILE, Il 68 a Palermo


“InTRASFORMAZIONE” (http://www.intrasformazione.com) è la Rivista di Storia delle Idee dell'omonimo Centro Studi palermitano. È patrocinata dall’Università degli Studi di Palermo e diretta da Piero Violante, politologo e musicologo, a lungo docente presso quella università e animatore in vari ruoli della vita culturale palermitana. 
Il I° numero del 2018, suo settimo anno, consultabile in rete, è assai ricco e contiene tra l'altro una sezione dedicata al Sessantotto nella capitale siciliana.
Nella sezione, aperta da un breve scritto di Violante (che non mancherò di “postare” e proporre anche in questo blog), compare la “memoria” di un giornalista palermitano, una colonna della grande “Unità”, Vincenzo Vasile, che nel titolo allude al più celebre incipit di Paul Nizan (Aden Arabia, 1931): “Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”
A me – che qui la propongo – questa pagina pare intensa e ricca di risonanze, e non soltanto perché, tra tanti compagni e amici indimenticabili, evoca anche la mia partecipazione “canora” al Movimento, ma perché restituisce, vivi, stati d'animo e situazioni di cinquant'anni fa. (S.L.L.)

Sessantotto. Il Movimento a Palermo. Nizan aveva torto 

Vincenzo Vasile 


Lentini si affacciava sul corridoio, corrucciato. Al nostro passaggio faceva il gesto di mordersi la mano, e scherzava (siamo sicuri che scherzasse?): “Pazzi, siete pazzi”, anzi: paffi, fiete paffi , però si capiva che gli piacevamo. Come, a noi “matricole” di Filosofia che eravamo stati sin dal 1965 tra i primi ospiti - frequentanti e poi occupanti - della nuovissima palazzina rosa in fondo al viale delle Scienze (che ancora ci si ostinava a chiamare Parco d’Orléans, alla palermitana: "dorleàns", anziché "orleàn"), lui — il socialista riformista Giacinto Lentini, professore di s(f)ociologia — era assai simpatico.
Ci spiegò, con le sue “s” sibilanti, che si poteva essere, o meglio: essere stati, liberali, comunisti fino al ’56 per la rivolta di Ungheria, e infine socialisti, “socialisti riformisti” - precisava - proprio come lui che, appena incaricato dell’insegnamento a Palermo, aveva trovato la Facoltà in preda ai bollori del Sessantotto. “La vostra fortuna siamo noi, i socialisti al governo con i democristiani. Sennò dopo la battaglia di Valle Giulia sareste già in galera, ma avete in sorte per compagni di banco tutti i numerosi figli del ministro dell’Interno. Una polizza di assicurazione: non vi sgombereranno mai con la polizia”.
In effetti, quasi ogni Facoltà dell’Università di Palermo, a quei tempi diffusa in più sedi sparse in mezza città, a via Archirafi, alla Centrale, ad Architettura, a Magistero, al Policlinico - vedeva tra gli studenti - secondo questa scherzosa leggenda diffusa dal nostro prof. preferito — almeno un figlio della cospicua prole del democristiano Franco Restivo. Che oltre ai figli Raffaele a Giurisprudenza, Lucia e Chiara a Lettere, Antonio in Fisica, allevava anche una maxipattuglia di allievi e assistenti nel suo Istituto di diritto pubblico, al secondo piano della “Centrale” di via Maqueda: e qui ricordo alla rinfusa tra quelli di sinistra più anziani Enzo Sellerio prima di diventare grande fotografo ed editore; e tra quelli di centro Sergio Mattarella, e i giovani (ma più vecchi di noi) Sergio D’Antoni e Vito Riggio, che con il Luigi Cocilovo erano i leader dell’Intesa (cioè in sostanza gli universitari democristiani). Leoluca Orlando, altro giurista dc, non me lo ricordo, ma ha sempre detto che studiava a Heidelberg in quel fatidico periodo di svolta.
Alcune lezioni con frequenza obbligatoria si tenevano in altre sedi, “Storia medievale” ad Architettura in via Maqueda, “Psicologia” all’istituto di Medicina legale del Policlinico alla Feliciuzza, con il vulcanico Gastone Canziani che entrava in aula mentre ne uscivano le barelle con le salme sulle quali aveva appena svolto la sua dissertazione un sorridente Ideale Del Carpio.
Ci si perdeva, anche quelli del terzo e quarto anno, alle prese con la topografia ancora sconosciuta della nuova sede del parco d’Orléans: “Filologia romanza è al terzo piano?” “Macché, … non so, forse.. .chiedi al bidello”. E c’era la fiera permanente della parola e dell’acronimo misterioso: statino, Opera, giunta Unuri, elezioni Orup. Esistevano ancora, quand’eravamo entrati all’Università, gli “organismi rappresentativi”; all'Orup (organismo rappresentativo universitari di Palermo), capolista per il Fuan, l’organizzazione degli universitari di destra egemonizzata dall’Msi, nelle mie prime e ultime, svogliate elezioni universitarie del ’66, era un giovane e ombroso laureando in Giurisprudenza, l’“indipendente” Paolo Borsellino. L’Unuri (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana), il parlamentino nazionale che aveva fatto da palestra per i gruppi dirigenti dei partiti, con Craxi, Occhetto, Pannella, non lo sapevamo, ma stava per sciogliersi: lo fece, senza guadagnarsi troppe righe sui giornali a fine anno, autoimplodendo travolto dal “movimento”. Movimento con la m maiuscola, che fu la scelta naturale e obbligata per gli universitari figgiccini di Palermo, cresciuti nei licei a pane, Ho Chi Minh e Che Guevara; e giusto in quei mesi di fine ’67 la grande foto listata a lutto del Guerrillero heroico, pubblicata da Feltrinelli andò a ruba alla libreria “Nuova presenza”, l’unica attrezzata alla vendita rateale, per noi ovviamente preferita. Quello stesso poster, rubato da qualcuno mosso da passione politica, sparì anche dalla bacheca al piano terra in Facoltà. Sicché lo rimpiazzammo con la copertina del quindicinale della Federazione giovanile comunista, “Nuova generazione”, che vedeva in primo piano stilizzato il volto del Che immortalato nello stesso “scatto” di Alberto Korda, senza provocare sussulti settari degli altri colleghi, in assenza di alternative disponibili.
Sempre riguardo ai preparativi del Sessantotto, circolava da tempo aria di rottamazione delle generazioni di dirigenti studenteschi (questo era il termine) per anagrafe subito precedenti la nostra: un giorno ci comunicarono da Roma che Gianni Puglisi, ex-segretario dei giovani palermitani del Psdi saragattiano, per accordi nazionali, essendo avvenuta la fusione fredda di Psi e Psdi, avrebbe presieduto la sede di Palermo dell’Ugi, unificandosi per l’occasione con una piccola formazione locale di “laici”, detta Nuova Goliardia. Non ci fu il tempo per rigettare l’unificazione e il suo alfiere locale con un contro-tesseramento di sinistra, cui demmo vita noi della Fgci, la Fgs del Psiup con Corradino Mineo, gli emmeelle (marxisti-leninisti) delle facoltà scientifiche, che arrivò il Sessantotto, come a liberarci da un peso. Evaporata l’Ugi, Puglisi ce lo ritrovammo in assemblea a votare persino uno dei primi documenti dell’epoca della contestazione.
I documenti dell’Ugi - l’ultimo congresso s’era svolto a Rimini - letteralmente incomprensibili, furono sostituiti dai materiali egualmente logorroici, ma abbastanza più chiari delle altre Università occupate. Testi essenziali, spesso citati, ma poco letti, bisognava andare a prenderli. Non c’era Whatsapp, anzi nella rete telefonica nazionale ancora neanche funzionava integralmente la teleselezione e per raggiungere alcune città si passava dal centralino. Uno dei primi atti dell’assemblea di Lettere occupata a febbraio fu quello di incaricare un drappello di noi di andarsene in treno fino a Torino anche per “ritirare” — così qualcuno scrisse nella mozione finale approvata per acclamazione — gli elaborati dei “compagni di palazzo Campana”, oltre che per partecipare al primo convegno nazionale del Movimento Studentesco: le parole Movimento e Studentesco le scrivemmo da subito, naturalmente, con le iniziali maiuscole nei nostri manifestini. Ricordo che i “compagni — corrieri” partirono per Torino, non so quando tornarono. Prim’ancora che la delegazione fosse di nuovo a Palermo, uscì un numero speciale della rivista “Quindici” con il manifesto integrale “contro l’autoritarismo accademico” di palazzo Campana, che potemmo tranquillamente saccheggiare per i nostri documenti senza attendere il ritorno dei nostri messaggeri.
“Tutto il potere alle assemblee studentesche”, lo slogan spazzatutto nato a settembre 1967 proprio a Torino, campeggiava in testa alla mozione di Lettere occupata, illustrata da Attilio Mangano, un coltissimo e brillante ex-socialista, neolaureato con una tesi sull’eresia politica e culturale del Politecnico di Elio Vittorini. E l’assemblea era il luogo dove le vecchie strutture studentesche e accademiche evaporavano, spesso rovinosamente e talvolta gioiosamente (per gli astanti): in quell’Aula magna molti di noi impararono i rudimenti della nuova politica; anzitutto apprendemmo qualche cosa sul parlare in pubblico, provavamo a discutere senza paura di sconfinare nell'eterodossia politica, votare, decidere, facendo precipitare comete più o meno splendenti e carriere politico-accademiche che sembravano in precedenza già tracciate dalle organizzazioni tradizionali della sinistra e dalla vita universitaria.
In centinaia eravamo alle assemblee e nelle “commissioni”, contai a Lettere una presenza fissa di quattrocento posti a sedere più altrettanti all’in piedi, ma la sera i più si squagliavano. Una di quelle notti, quando a me toccava di definire faticosamente i turni per il presidio della Facoltà, mi capitò l’incontro imprevisto con “un compagno della provincia”, che mi era sembrato sempre misteriosamente taciturno: un “emmeelle” di Cinisi, Peppino, il cognome non riuscivo a ricordarlo. “Posso venire anch’io stasera”... non capii che c’era il punto interrogativo a fine frase, cioè che si trattava della goffa richiesta di un permesso a partecipare alla lotta: “Posso dormire anch’io in Facoltà stanotte?”. “Peppino, che ti prende? un cinese chiede a un revisionista come me il permesso di occupare? Ti metto in cima all’elenco delle prossime serate di fine settimana; dunque, aspetta che scrivo il tuo cognome, Peppino.” “.Giuseppe Impastato”, era lui il timido fuorisede.
Il settarismo e lo scontro ideologico, il culto della violenza sono fenomeni degli anni successivi, il Sessantotto fu gioiosamente anarchico, assai poco violento; quelli furono semmai i frutti avvelenati di ciò che si chiamò “riflusso”, ed è curioso ricordare come questo termine fosse evocato “in diretta” già allora in alcuni nostri documenti; se non sbaglio, un “controcorso” sul “pericolo del riflusso” fu realizzato a fine anno in uno dei box al piano terra della Facoltà.
Il Sessantotto nei miei ricordi è un lago vulcanico termale in ebollizione. Da Lettere mettemmo su una specie di squadriglia rossa che andava in aiuto dei comitati studenteschi che faticavano sul piano organizzativo a tenere su la baracca dei presidi studenteschi nelle facoltà occupate, e soprattutto noi “giovani comunisti”, cercammo di diffondere il movimento nelle scuole. Era da poco uscita una relazione della Commissione antimafia sugli imbrogli e gli affari mafiosi sull’edilizia scolastica: nelle scuole c’erano doppi e tripli turni perché la programmazione di nuovi edifici era pilotata dagli interessi dei costruttori protagonisti del sacco di Palermo, ristampammo in foto copia il testo satirico La banda di Palm city, pubblicato dal Pci per una campagna elettorale degli anni precedenti, nel quale il gruppo dirigente della Dc palermitana - Lima, i Ciancimino — veniva trasformato in una gang mafiosa, capeggiata dal senatore MacLime e dal gestore cinese di una lavanderia, Chan Chai Minh, protagonisti di un “giallo vero” dalla copertina con il cerchio rosso di Mondadori. In un corteo, noi di Lettere, lanciammo un coretto che scandiva: “Ciancimino/ al confino”, profezia del soggiorno obbligato che gli sarebbe stato comminato da Falcone solo tanti anni dopo.
Il record di assenze lo raggiunse, invece, una commissione voluta da un collega “indipendentista” nonché “marxista leninista” che riproponeva una versione insurrezionale separatista e di sinistra del movimento capeggiato nel dopoguerra da Finocchiaro Aprile.
E a Lettere si tennero le affollatissime assemblee dell’Interstudentesco che coinvolsero poi tutte le facoltà nel Movimento. A Palermo la dialettica era tra noi della Fgci e il gruppo più cospicuo che di lì a poco aderirà al Manifesto, capeggiato da Corradino Mineo, anche lui di Filosofia, tribuno efficace e bella testa, con la politica nel sangue, suo zio Mario nel dopoguerra era stato tra i rifondatori della sinistra siciliana. In quei mesi gli universitari comunisti si riunirono nella scuola Cgil di Ariccia, relatore Giulietto Chiesa, conclusioni di Giovanni Berlinguer. Scoprimmo che con Pisa e Roma, Palermo era una delle rare sedi universitarie nelle quali i comunisti stessero ben radicati dentro al movimento, gli altri teorizzavano e praticavano in genere una specie di malmostoso Aventino. A Pisa c’erano due brillanti giovani molto di sinistra, Massimo D’Alema e Fabio Mussi. A Roma un corpulento e focoso Giuliano Ferrara, figlio del direttore dell’Unità e della ex segretaria di Togliatti, pronunciò l’intervento più movimentista, rivendicando la partecipazione alla battaglia di Valle Giulia.
I professori a Palermo ci delusero, quasi tutti. Eppure quelli erano stati, anche per merito loro, anni di disordinate e onnivore letture. Armando Plebe in particolare ci aveva introdotto alla “teoria critica” della scuola di Francoforte, spingendoci a leggere - appena uscita, nel 1966 - la Dialettica dell'illuminismo, e soprattutto indicandoci la strada di un impasto tra Marx, Freud e lo strutturalismo per mettere in discussione, tra l’altro, i dogmi dell’industria culturale. Andavamo a cinema voracemente, e i miei ricordi, mezzo secolo dopo, sono frammentari e spiazzanti come un film dell’allora idolotrato Jean-Luc Godard; all’opposto della barzelletta di Paolo Villaggio sulla Corazzata Potemkin ci appassionavano i film sovietici letti attraverso la Critica del Gusto di Galvano Della Volpe, testo di riferimento del corso monografico di Estetica di Plebe, e il saggio sul “verosimile filmico” pubblicato da Edoardo Bruno, incaricato di storia del teatro e dello spettacolo. Per dire della concreta base di verità che aveva la nostra contestazione dei “piani di studio” e dell’organizzazione didattica, il Consiglio di Facoltà mi costringerà a buttare via una tesi di laurea già mezzo scritta su Ejzenstein e i formalisti russi, perché noi di Filosofia non potevamo laurearci in materie ritenute semmai attinenti al corso di Lettere moderne.
Nel Partito c’erano resistenze, ma il segretario della Federazione era il più amabile e il più aperto dei “destri”, si chiamava Pio La Torre, e ci chiamava paternamente :“i nostri picciotti”. Vincemmo l’ostacolo di una specie di veto dei gruppi alla diffusione in Facoltà dei giornali di partito, quando vendemmo un botto di copie dell’”Unità” con la notizia che il Movimento studentesco romano per le elezioni politiche aveva scelto di indicare la “scheda rossa”, cioè il voto all’opposizione di sinistra, Pci e Psiup. Era il coronamento di una serie di contatti, tra i quali il più importante un incontro del segretario Luigi Longo con una delegazione di studenti della Sapienza, tra cui Oreste Scalzone. Uno dei figgiccini — sessantottini di Lettere a Palermo, fu Totò Lo Leggio, con il suo vocione intonatissimo ci regalò quell’anno un repertorio infinito di canti popolari siciliani. Ora sul suo blog ha ricordato l’importanza dell’episodio, spesso sottaciuto: “Dell’incontro non fu pubblicato un resoconto, ma qualche giorno dopo, il 3 maggio, uscì su “Rinascita” l’articolo di Luigi Longo, di grande apertura, che correggeva le diffidenze di Giorgio Amendola, a sua volta bersaglio di tante critiche da parte di noi giovani comunisti, in prevalenza di simpatie ingraiane. Amendola, fino ad allora, si era limitato a qualche frecciata all’interno di articoli e discorsi; solo il 3 giugno, ad elezioni archiviate, Amendola avrebbe condensato le sue posizioni in un articolo “antiestremista” sulla "lotta su due fronti", di taglio stalinista, che di fatto scomunicava il grosso del “movimento” e avrebbe suscitato forti reazioni critiche anche all’interno del Partito (tra gli altri Lucio Lombardo Radice, Davide Lajolo, Rossana Rossanda, Ottavio Cecchi). Le elezioni peraltro si conclusero con un grosso successo delle sinistre di opposizione”.
Dimenticavo, il ’68 fu anche l’anno del mio primo voto, confesso: emozionante. E si chiuse con una strage. Da Avola a Palermo ci volevano sei ore di macchina, ma l’eccidio dei braccianti da parte della polizia fu come una scossa. In Facoltà ci dividemmo, forse la prima volta seriamente: a Milano Mario Capanna aveva circondato e contestato la Prima della Scala, che non s’era fermata. Noi della Fgci volevamo fare altrettanto al Teatro Massimo che inaugurava con La Straniera di Bellini. Fu una serata di tensione che il “Giornale di Sicilia” definì un’orgia di violenza e vandalismo. Quando Pio scoprì che i suoi “picciotti” di Lettere e Filosofia avevano scavalcato a sinistra i gruppi “extraparlamentari” e organizzato la protesta non la prese bene, diciamo. Un raffinato melomane in Facoltà filosofeggiò l’indomani che avevamo sbagliato opera, che forse La Fanciulla del West di Puccini sarebbe stata più appropriata - con i banditi, i minatori, le risse sanguinose, le sparatorie, le bufere di vento, la nostra durissima manifestazione -, per chiudere un anno tra i più tempestosi.
PS. Nel novembre 1968 era caduto il mio ventesimo compleanno, e — forse lo avete intuito -per come andò quell’anno, sull’argomento la penso in maniera assolutamente opposta a quella del citatissimo scrittore francese Paul Nizan: “Non permetterò a nessuno di negare che questa è la più bella età della vita”.


Da “InTRASFORMAZIONE”, Rivista di Storia delle Idee, Palermo, Vol. VII° N.1 - 2018

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