Ritratto di L. Tolstoj da vecchio
L'articolo seguente ricostruisce la storia della fortuna che il capolavoro di Tolstoj, nelle sue diverse edizioni, ha avuto in Italia. L'autore del pezzo si limita a fare soltanto una analisi "anatomica" di "Guerra e pace"; ma l'anatomia - come ci ha ben spiegato Gramsci -
ci permette di conoscere solo la struttura formale, lo scheletro di
un'opera. Per coglierne l'anima occorrono altri strumenti...(fv)
Anatomia di un capolavoro
Cesare G. De Michelis
Nel 1862 Stepan Sevyrev e
Giuseppe Rubini presentavano al pubblico italiano Lev Tolstoj con
queste parole: "Per una certa grazia nello stile narrativo, per
vivacità e fecondità non prolissa si distingue il conte Leone
Tolstoj". L'anno dopo egli cominciò la stesura del romanzo che
conosciamo come Guerra e pace: annunciato molto
tempestivamente in Italia sulla “Rivista contemporanea nazionale
italiana” di Angelo De Gubernatis (1869) con l'articolo Il conte
Leone Tolstoj e il suo romanzo "La pace e la guerra",
apparve assai più tardi (dopo Anna Karenina, nel 1891) sulla
scia della moda europea inaugurata da Le roman russe di
Eugène-Melchior de Vogue (1886). Erano gli anni in cui la fama di
Tolstoj-romanziere veniva offuscata da quella di Tolstoj-predicatore
sociale e religioso, ottimamente ricostruita da Antonella Salomoni
(Il pensiero religioso e politico di Tolstoj in Italia. 1886-1910,
ed. Olschki), così sintetizzata da Giovanni Pascoli: "Ed e'
vestì la veste rossa e i crudi/ calzari mise, e la natal sua casa/
lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli,/ e per la steppa il
vecchio ossuto e grande/ sparì" (1911). Ma altre traduzioni si
susseguirono a breve distanza (di E.W. Foulques, Napoli 1904, di E.
Serao, Napoli 1906, di F. Verdinois, Milano 1915), sicché anche in
Italia il nome di Tolstoj rimase legato soprattutto a Guerra e
pace.
Alla fine della Grande
guerra il romanzo fu tra l' altro presentato in un compendio
antologico compilato da Giuseppe Prezzolini sulla base della versione
di Verdinois. La "prima versione integrale e fedele"
apparve solo dieci anni dopo, nel 1928, e fu condotta da Enrichetta
Carafa Capecelatro, duchessa d' Andria, per la "Slavia" di
Torino diretta da Alfredo Polledro: tale versione fu poi rivista nel
1941 (altro anno di guerra, e questa volta contro la Russia!) da
Leone Ginzburg che si trovava al confino per ragioni politiche, e
quando Einaudi la pubblicò fu bollata da “Il popolo d' Italia”
di "giudaica scrupolosità da forastiero". Adesso viene
riproposta in un tascabile (L. Tolstoj, Guerra e pace, 2
volumi, Einaudi, pagg. 1445) che affianca alla breve, densa
"Prefazione" di Ginzburg (1942) una "Introduzione"
di Pier Cesare Bori. È un' edizione pressoché esemplare (giusto la
traslitterazione non è stata uniformata ai criteri moderni); in
particolare, l'ampio saggio introduttivo (pagg. XI-LVIII) rappresenta
a mio avviso quanto di meglio sia stato scritto in Italia sul
romanzo.
Bori non è slavista di
professione (insegna filosofia morale), ma da anni lavora con
competenza professionale su Tolstoj facendosi interprete delle sue
dottrine etico-religiose, come testimonia il volume L'altro
Tolstoj (il Mulino, pagg.166) che si richiama in qualche modo
all'ultimo libro d'un altro "non addetto ai lavori", il
grande storico e filologo russo recentemente scomparso Jakov Lurje
(Dopo Leone Tolstoj -, S. Peterburg 1993), dedicato alla
concezione tolstojana della storia. L'idea avanzata da Bori in quella
sede, che "l'elemento letterario e quello teorico siano
profondamente intrecciati, in Tolstoj, prima e dopo il 1880",
trova nell'"Introduzione a Guerra e pace" il terreno ideale
di verifica e conferma. Egli articola il saggio in quattro punti:
storia della composizione del romanzo, analisi delle sue fonti,
storia dell'interpretazione, riflessione sulla guerra e sulla pace, e
lo conclude con una commossa ricostruzione dell'edizione di Ginzburg
basata sui materiali dell'Archivio Einaudi: "Colui che aveva
proposto una lettura antieroica di Guerra e pace morì come
sappiamo", lasciando parole intrecciate "tra sentire
domestico e qualcos'altro, che è difficile non chiamare eroismo".
Tolstoj cominciò a
pensare a un vasto romanzo storico dopo la guerra di Crimea, nel
1856, quando i decabristi (promotori della rivolta del dicembre 1825)
tornarono dalla deportazione, e ne scrisse tre capitoli, I
decabristi, appunto. Il protagonista doveva essere uno di loro,
sicché "dal presente passò senza volerlo al 1825. Ma nel 1825
il suo eroe era un uomo già fatto (...), per capirlo doveva
trasportarsi all'epoca della sua giovinezza, e quest'epoca coincideva
con quella gloriosa per la Russia (nella campagna contro Napoleone)
del 1812". Per far questo bisognava risalire ancora indietro,
alla generazione che aveva "fatto" il 1812, sicché il
romanzo prese inizio dal 1805, e anziché un romanzo sul "decabrista
di ritorno" si ebbe dapprima Tutto è bene quel che finisce
bene (in questa redazione Andrej e Petja non morivano e lo
scioglimento contemplava un duplice matrimonio) e poi Guerra e
pace. Queste trasformazioni implicano un discorso di merito così
riassumibile: "Tolstoj voleva scrivere un romanzo nobiliare e
voleva compensare la coscienza dei suoi contemporanei per la
sconfitta di Crimea" (Sklovskij); solo che "il primitivo
antistoricismo" (della "cronaca familiare") fu
sostituito da "un nuovo genere che risultava dalla combinazione
di "azione romanzesca, materiale storico e discorso filosofico"
(Ejchenbaum). Guerra e pace risulta così come "una
lingua compenetrata in un' altra lingua, come se, per esempio, il
vocabolario fosse romanzo ma la grammatica slava o germanica"
(Sklovskij).
La discussione aperta dai
formalisti e proseguita dalla Zajdensnur (che rivendica l' unità
poetica del romanzo) implica quella sull'uso delle "fonti"
extraletterarie, introducendo nel vivo della "fattura" del
testo e sfociando nella questione "della pertinenza e
dell'attendibilità delle sezioni teoriche". Quanto ai realia
extraletterari, due episodi valgono meglio di lunghe disquisizioni a
intendere la complessità del "laboratorio" tolstojano.
Alessandro d' Ancona narra che, quando si convinse d'aver
identificato in Scipione Piattoli "l'italiano autore di un
disegno politico di pace universale" che s'incontra all'inizio
del romanzo col nome di abate Morio, si rivolse a Tolstoj per una
conferma: "Ma o la lettera andò perduta, o lo strano autore,
nella sua nuova metamorfosi, era allora tutto assorto a guidare bovi
o a cucirsi le scarpe. Il fatto è che non ebbe nessuna risposta".
Il romanziere russo s'era
forse infastidito che l'erudito italiano fosse entrato nella sua
"cucina"? Quando anni prima (1865) la principessa V. gli
aveva chiesto chi fosse nella realtà il principe Andrej, le aveva
risposto: "Andrej Bolkonskij non è nessuno, come ogni
personaggio d'un romanziere, e non ha niente a che vedere con le
conoscenze e i ricordi dello scrittore. Mi sarei vergognato di venir
pubblicato, se tutto il mio lavoro fosse consistito nel fare
ritratti".
E tuttavia, come ricorda
Bori, "alle origini del romanzo (...) v' è anzitutto una
tradizione famigliare", in base alla quale "le immagini del
padre e della madre confluirono in quelle di Nikolaj Rostov e della
principessa Marija Bolkonskaja" (la sorella di Andrej, nel
romanzo), come il padre di Andrej deriva dalla figura di uno zio di
Tolstoj per parte di madre, Sonja rispecchia il carattere d'una
lontana parente governante a Jasnaja Poljana, e Natasa Rostova, la
splendida Natasa che alla fine sposa Pierre Bezuchov, "proviene
in parte dalla moglie”.
“la Repubblica”, 28
marzo 1999
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