30 maggio 2018

C. LEVI-STRAUSS, uno dei più grandi antropologi del 900



Una famiglia ebrea di antica tradizione. L’amore per la musica e per i romanzi. Il viaggio in Brasile fra gli indigeni del Mato Grosso. New York e lo strutturalismo. Le donne. Il dietro le quinte di una esistenza lunga un secolo.


Pietro Citati

Lévi-Strauss cent’anni vissuti sempre altrove

Claude Lévi-Strauss nacque, a Bruxelles, il 28 novembre 1908. Era completamente ebreo. Il trisnonno, Loeb Israel, nato a Strasburgo il 22 gennaio 1754, prese il nome di Strauss. La trisnonna, Judith Hirschman, era figlia di un famoso rabbino, Rabbi Rafael, celebre in tutta l’Alsazia del diciottesimo secolo.

All’improvviso, lo strano e lo stravagante si diffusero nella sua razza: il bisnonno, Isaac, nato a Strasburgo nel 1801, diventò violinista nell’orchestra del Teatro italiano a Parigi, diretta da Gioacchino Rossini. Inventò (o quasi) il valzer, la mazurka, la polka, la quadriglia: compose moltissimi brani tra cui la quadriglia di Orphée aux Enfers di Offenbach. Sia lui che i figli erano integrati nella società del tempo.

Claude si sentiva esclusivamente francese; e non conobbe mai gli impulsi che spinsero Gershom Scholem a risalire fino all’ebraismo della Cabala e del Chassidismo. Non amava nemmeno la Bibbia o i testi di Qumran. Quando visitò Israele nel 1985, si sentì un estraneo.
    Con i familiari

La madre di Claude, Emma, bella, piccola, abilissima cuoca, cantava tutto il giorno, specialmente le arie di Orphée aux Enfers e di La belle Héléne. Il padre Raymond era un pittore modesto: per tutta la vita fece ritratti e piccole ceramiche in stile cinese. Il talento di bricoleur apparteneva a tutta la famiglia.

Claude fu un figlio unico, preciso, silenzioso, affettuoso, gentile, senza apparenti tratti di genialità. Leggeva molti libri, in primo luogo il Don Chisciotte: scriveva racconti, tra cui Il carbone e i fiammiferi.Amava moltissimo Le Nozze di Stravinsky e Pelléas et Mélisande di Debussy, che gli fecero sembrare antiquata la musica occidentale.

Disegnò scene per il Gabinetto del dottor Caligari di Wiene: scrisse un saggio su Marx e il materialismo storico; e al liceo scoprì alcuni testi di Freud, pochi anni dopo la pubblicazione. Era ateo. Amò il Voyage au bout de la nuit di Céline. Una sensazione lo accompagnò per tutta la vita: «Si ha bisogno di poco per esistere»; «La vita è corta. Ci vuole solo un po’ di pazienza».

Nell’ottobre 1931, a quasi ventitré anni, cominciò il suo servizio militare a Strasburgo, da cui scriveva regolarmente ai genitori ( Lettere ai genitori 1931- 1942, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione di Massimo Fumagalli, il Saggiatore, pagg. 422, euro 37). Queste lettere non sono dissimili dalla prima parte del Diario di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, iniziato qualche anno prima. Si sentiva solo, sebbene - come Dostoevskij - «mai abbastanza».

Nell’ottobre 1932, Lévi-Strauss venne nominato professore di filosofia al liceo di Mont-de-Marsan, vicino a Poitiers. Mont-de-Marsan era come Yonville in Madame Bovary: con il grande mercato e i negozi e i commercianti e le fiere e la folla multicolore e pettegola. Nel settembre sposò Dina Dreyfus, anch’essa ebrea, una donna allegra e divertente.

Si occupava di quattro cose: la moglie, il cibo, i romanzi polizieschi e il socialismo. Il cibo era, per lui, la cosa essenziale. Con quale estasi parlava di peperoncini e confit di maiale e zuppe di zucca e conigli al sugo e fegato d’oca all’agro e tartufi alla lorenese e calamari e tacchino farcito. Come per quasi tutti i francesi, il cibo era per lui, insieme una straordinaria ghiottoneria, un’attività sociale e una questione scientifica.

Con passione sempre crescente leggeva romanzi polizieschi e poi pensò di essere lo “Sherlock Holmes dell’etnologia”. Al cinema amava Ejzenštejn e René Clair e sopratutto Buster Keaton e Chaplin. Nel 1928, a vent’anni, diventò segretario della sezione socialista: Léon Blum gli scriveva lettere affettuose; teneva conferenze di argomento politico e soltanto dopo molti anni abbandonò la sua passione socialista.

Il 4 febbraio 1935, partì per il Brasile: gli era stato proposto di insegnare sociologia all’università di São Paulo; a marzo cominciò a tenere lezioni accanto a Fernand Braudel e Roger Bastide, e conobbe un grande etnologo, Alfred Métraux. Fu affascinato da São Paulo. Si avventurò nel Mato-Grosso, tra gli indigeni Kaingang, Caduveo, Nambikwara e Bororo. Alla ricerca di una specie di cultura originaria, esplorò ciò che era tenebroso e sconosciuto. Aveva nel cuore l’immagine di Conrad: gli sembrava di essere nella stessa condizione di lui, quando molti anni prima aveva scritto Cuore di tenebra; e pensò di essere una specie di sua reincarnazione.
Nel maggio 1941, dopo un breve soggiorno in Francia, raggiunse insieme a Victor Serge e a André Breton (che sembrava un signore del Grand Siécle) dapprima Porto Rico e poi New York, dove insegnò alla New School for Social Research. Conobbe Jacques Maritain, Henri Focillon, Alexandre Koyré e sopratutto lo spiritosissimo e scintillante e drammatico Roman Jakobson, di cui seguì i corsi di linguistica.

Jakobson diventò il modello del suo pensiero; e gli insegnò i rapporti tra i colori e i suoni. A quell’epoca - egli disse - era ancora uno “strutturalista ingenuo”. Incontrò André Weil e Simone, di cui credo non comprendesse il pensiero religioso e lo straziante spirito di sacrificio.
Tra il 1941 e il 1947 abitò a New York. Amava molto la città: la contemplava dall’alto, trovando che non era affatto, come si diceva, monotona e standardizzata, ma lasciava infinito spazio alla immaginazione. Frequentava insaziabilmente i musei, dove trovò le più belle collane precolombiane che avesse mai visto. Una meravigliosa gatta nera venne ad abitare con lui. Parlò dai microfoni della Voce dell’America: saliva spesso al Rockfeller Center, da cui contemplava l’immensità formicolante: New York stava, per lui, al di qua e al di là della civiltà occidentale, come «il paesaggio immenso di minerali ed acque» di cui aveva parlato Baudelaire; era giunta alla decrepitezza senza passare attraverso l’antichità e la civiltà.

Nella prima giovinezza non aveva mai rinunciato ad essere uno scrittore: ma lì, a New York, di fronte a quella vivente enormità, abbandonò un romanzo e un dramma, intitolato Apoteosi d’Augusto. Si ribellò contro ogni pensiero metafisico, con un furore quasi ossessivo. Detestava la parola filosofia e la parola religione: con uno slancio che meraviglia, visto che per tutta la vita si occupò sopratutto di metafisica e di religione. Trovò una specie di modello in Jean de Léry, che verso la metà del sedicesimo secolo scrisse il Voyage faict en la terre du Brésil.
Avrebbe desiderato essere come lui: un etnologo che, per la prima volta, scopre il nuovo mondo e ne parla con un’inesauribile freschezza e novità di sensazioni. Via via che passavano gli anni, ammirava sempre di più Michel de Montaigne, il quale finì per diventare l’esempio della sua vita e della sua opera. Come amava il suo stile, intenso e succoso: la sua immensa memoria: la sua biblioteca, le sue mistificazioni, la sua serena disperazione, il suo ironico dilettantismo, la sua ironica nonchalance. Come lui, pensava che «non c’è niente di più vano, diverso e ondeggiante dell’uomo».

In Brasile diventò etnologo senza sapere di esserlo; e poi, a New York e a Parigi, tenne regolarmente i suoi corsi. Sull’esempio di Roman Jakobson cercò un sistema: una struttura: un modello (sebbene, nella realtà, non esista nessun modello); un gioco mobile e ricco di relazioni, di varianti e differenze. Usava qualsiasi metodo, con la certezza che, se fosse stato necessario, lo avrebbe cambiato. Affrontò l’inconscio, e lo portava alla coscienza, sperando di giungere ad un punto di certezza come quello di Alfred Einstein. Voleva mettere ordine nel mondo, sebbene sapesse che era impossibile. Sempre, in ogni luogo, sopratutto in se stesso, esaltava ciò che è sovrapersonale.

Mentre scriveva le ultime Mitologiche, Claude Lévi-Strauss sentì che la sua opera era compiuta. Mancava soltanto qualche ritocco. Se si guardava intorno, con i suoi “occhi d’elefante”, non tornava mai sugli stessi argomenti: era sempre imprevedibile. Proprio per questo, si formò delle abitudini, dietro alle quali scivolava, libero come un pesce. Alternava il lavoro a casa, quello al Cnr, le passeggiate, la lettura dei libri contemporanei, la lettura (puntualissima) del giornale, le rare frequentazioni del teatro e del cinema. Era attentissimo alle nuove scoperte tecniche, sebbene non amasse l’idea moderna di progresso.

Sebbene come Madame de Staël non amasse viaggiare, viaggiò moltissimo: in Pakistan, in Canada, in Colombia britannica e cinque volte, tra il 1977 e il 1988, in Giappone. Qualche volta pensò a un Buddhismo cristianizzato o meglio a un Cristianesimo buddhizzato.
Aveva amato molte donne: in ognuna di esse trovava le altre. Forse l’ultima moglie, Monique Roman, fu la più cara: aveva diciotto anni meno di lui; discendeva da una madre ebreo-americana e da un padre belga. Abitava a rue des Marronniers nel cuore di Parigi: era bella e sapeva moltissime cose. Vicino a lei, scrisse Regarder écouter lire pubblicato nel 1993: un libro straordinario, libero da qualsiasi schema o ricordo etnologico, che parla di Poussin, Rameau, Diderot, suoni, oggetti e colori. Adorava Poussin come nessun altro pittore; e credo approvasse le sue parole sul fatto che Caravaggio era venuto al mondo per distruggere la pittura. Claude Lévi-Strauss diventò, quasi senza accorgersene, vecchissimo.

Era un’abitudine di famiglia. Le due nonne erano morte quasi centenarie; e lui superò agevolmente il secolo. Pensava, fantasticava, leggeva: anche gli ultimi libri usciti: e seguiva i film di Eric Rohmer. Morì un mese prima di compiere centouno anni, il 30 ottobre 2009, e venne sepolto a Lignerolles, un villaggio della Côte-d’Or. Sino alla fine uscì da se stesso e dal proprio paese. Nel 1989, Eugenio Scalfari lo invitò a collaborare a Repubblica: scrisse sedici articoli, raccolti col titolo Siamo tutti cannibali (Il Mulino, pagg. 176, euro 14, con una postfazione di Bernardo Valli), abbandonando, come forse non aveva mai fatto, gli argomenti trattati per tutta la vita. Così, sino alla fine, visse altrove.

la Repubblica – 17 aprile 2018

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