Una famiglia ebrea di
antica tradizione. L’amore per la musica e per i romanzi. Il
viaggio in Brasile fra gli indigeni del Mato Grosso. New York e lo
strutturalismo. Le donne. Il dietro le quinte di una esistenza lunga
un secolo.
Pietro Citati
Lévi-Strauss
cent’anni vissuti sempre altrove
Claude Lévi-Strauss
nacque, a Bruxelles, il 28 novembre 1908. Era completamente ebreo. Il
trisnonno, Loeb Israel, nato a Strasburgo il 22 gennaio 1754, prese
il nome di Strauss. La trisnonna, Judith Hirschman, era figlia di un
famoso rabbino, Rabbi Rafael, celebre in tutta l’Alsazia del
diciottesimo secolo.
All’improvviso, lo
strano e lo stravagante si diffusero nella sua razza: il bisnonno,
Isaac, nato a Strasburgo nel 1801, diventò violinista nell’orchestra
del Teatro italiano a Parigi, diretta da Gioacchino Rossini. Inventò
(o quasi) il valzer, la mazurka, la polka, la quadriglia: compose
moltissimi brani tra cui la quadriglia di Orphée aux Enfers di
Offenbach. Sia lui che i figli erano integrati nella società del
tempo.
Claude si sentiva
esclusivamente francese; e non conobbe mai gli impulsi che spinsero
Gershom Scholem a risalire fino all’ebraismo della Cabala e del
Chassidismo. Non amava nemmeno la Bibbia o i testi di Qumran. Quando
visitò Israele nel 1985, si sentì un estraneo.
Con i familiari
La madre di Claude, Emma,
bella, piccola, abilissima cuoca, cantava tutto il giorno,
specialmente le arie di Orphée aux Enfers e di La
belle Héléne. Il padre Raymond era un pittore modesto: per tutta la
vita fece ritratti e piccole ceramiche in stile cinese. Il talento di
bricoleur apparteneva a tutta la famiglia.
Claude fu un figlio
unico, preciso, silenzioso, affettuoso, gentile, senza apparenti
tratti di genialità. Leggeva molti libri, in primo luogo il Don
Chisciotte: scriveva racconti, tra cui Il carbone e i
fiammiferi.Amava moltissimo Le Nozze di Stravinsky
e Pelléas et Mélisande di Debussy, che gli fecero
sembrare antiquata la musica occidentale.
Disegnò scene per il
Gabinetto del dottor Caligari di Wiene: scrisse un saggio su Marx e
il materialismo storico; e al liceo scoprì alcuni testi di Freud,
pochi anni dopo la pubblicazione. Era ateo. Amò il Voyage au bout de
la nuit di Céline. Una sensazione lo accompagnò per tutta la vita:
«Si ha bisogno di poco per esistere»; «La vita è corta. Ci vuole
solo un po’ di pazienza».
Nell’ottobre 1931, a
quasi ventitré anni, cominciò il suo servizio militare a
Strasburgo, da cui scriveva regolarmente ai genitori ( Lettere
ai genitori 1931- 1942, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione
di Massimo Fumagalli, il Saggiatore, pagg. 422, euro 37). Queste lettere non sono
dissimili dalla prima parte del Diario di guerra e di
prigionia di Carlo Emilio Gadda, iniziato qualche anno prima. Si
sentiva solo, sebbene - come Dostoevskij - «mai abbastanza».
Nell’ottobre 1932,
Lévi-Strauss venne nominato professore di filosofia al liceo di
Mont-de-Marsan, vicino a Poitiers. Mont-de-Marsan era come Yonville
in Madame Bovary: con il grande mercato e i negozi e i commercianti e
le fiere e la folla multicolore e pettegola. Nel settembre sposò
Dina Dreyfus, anch’essa ebrea, una donna allegra e divertente.
Si occupava di quattro
cose: la moglie, il cibo, i romanzi polizieschi e il socialismo. Il
cibo era, per lui, la cosa essenziale. Con quale estasi parlava di
peperoncini e confit di maiale e zuppe di zucca e conigli al sugo e
fegato d’oca all’agro e tartufi alla lorenese e calamari e
tacchino farcito. Come per quasi tutti i francesi, il cibo era per
lui, insieme una straordinaria ghiottoneria, un’attività sociale e
una questione scientifica.
Con passione sempre
crescente leggeva romanzi polizieschi e poi pensò di essere lo
“Sherlock Holmes dell’etnologia”. Al cinema amava Ejzenštejn e
René Clair e sopratutto Buster Keaton e Chaplin. Nel 1928, a
vent’anni, diventò segretario della sezione socialista: Léon Blum
gli scriveva lettere affettuose; teneva conferenze di argomento
politico e soltanto dopo molti anni abbandonò la sua passione
socialista.
Il 4 febbraio 1935, partì
per il Brasile: gli era stato proposto di insegnare sociologia
all’università di São Paulo; a marzo cominciò a tenere lezioni
accanto a Fernand Braudel e Roger Bastide, e conobbe un grande
etnologo, Alfred Métraux. Fu affascinato da São Paulo. Si avventurò
nel Mato-Grosso, tra gli indigeni Kaingang, Caduveo, Nambikwara e
Bororo. Alla ricerca di una specie di cultura originaria, esplorò
ciò che era tenebroso e sconosciuto. Aveva nel cuore
l’immagine di Conrad: gli sembrava di essere nella stessa
condizione di lui, quando molti anni prima aveva scritto Cuore
di tenebra; e pensò di essere una specie di sua reincarnazione.
Nel maggio 1941, dopo un
breve soggiorno in Francia, raggiunse insieme a Victor Serge e a
André Breton (che sembrava un signore del Grand Siécle) dapprima
Porto Rico e poi New York, dove insegnò alla New School for Social
Research. Conobbe Jacques Maritain, Henri Focillon, Alexandre Koyré
e sopratutto lo spiritosissimo e scintillante e drammatico Roman
Jakobson, di cui seguì i corsi di linguistica.
Jakobson diventò il
modello del suo pensiero; e gli insegnò i rapporti tra i colori e i
suoni. A quell’epoca - egli disse - era ancora uno “strutturalista
ingenuo”. Incontrò André Weil e Simone, di cui credo non
comprendesse il pensiero religioso e lo straziante spirito di
sacrificio.
Tra il 1941 e il 1947
abitò a New York. Amava molto la città: la contemplava dall’alto,
trovando che non era affatto, come si diceva, monotona e
standardizzata, ma lasciava infinito spazio alla immaginazione.
Frequentava insaziabilmente i musei, dove trovò le più belle
collane precolombiane che avesse mai visto. Una meravigliosa gatta
nera venne ad abitare con lui. Parlò dai microfoni della Voce
dell’America: saliva spesso al Rockfeller Center, da cui
contemplava l’immensità formicolante: New York stava, per lui, al
di qua e al di là della civiltà occidentale, come «il paesaggio
immenso di minerali ed acque» di cui aveva parlato Baudelaire; era
giunta alla decrepitezza senza passare attraverso l’antichità e la
civiltà.
Nella prima giovinezza
non aveva mai rinunciato ad essere uno scrittore: ma lì, a New York,
di fronte a quella vivente enormità, abbandonò un romanzo e un
dramma, intitolato Apoteosi d’Augusto. Si ribellò contro ogni
pensiero metafisico, con un furore quasi ossessivo. Detestava la
parola filosofia e la parola religione: con uno slancio che
meraviglia, visto che per tutta la vita si occupò sopratutto di
metafisica e di religione. Trovò una specie di modello in Jean de
Léry, che verso la metà del sedicesimo secolo scrisse il Voyage
faict en la terre du Brésil.
Avrebbe desiderato essere
come lui: un etnologo che, per la prima volta, scopre il nuovo mondo
e ne parla con un’inesauribile freschezza e novità di sensazioni.
Via via che passavano gli anni, ammirava sempre di più Michel de
Montaigne, il quale finì per diventare l’esempio della sua vita e
della sua opera. Come amava il suo stile, intenso e succoso: la sua
immensa memoria: la sua biblioteca, le sue mistificazioni, la sua
serena disperazione, il suo ironico dilettantismo, la sua ironica
nonchalance. Come lui, pensava che «non c’è niente di più vano,
diverso e ondeggiante dell’uomo».
In Brasile diventò
etnologo senza sapere di esserlo; e poi, a New York e a Parigi, tenne
regolarmente i suoi corsi. Sull’esempio di Roman Jakobson cercò un
sistema: una struttura: un modello (sebbene, nella realtà, non
esista nessun modello); un gioco mobile e ricco di relazioni, di
varianti e differenze. Usava qualsiasi metodo, con la certezza che,
se fosse stato necessario, lo avrebbe cambiato. Affrontò
l’inconscio, e lo portava alla coscienza, sperando di giungere ad
un punto di certezza come quello di Alfred Einstein. Voleva mettere
ordine nel mondo, sebbene sapesse che era impossibile. Sempre, in
ogni luogo, sopratutto in se stesso, esaltava ciò che è
sovrapersonale.
Mentre scriveva le
ultime Mitologiche, Claude Lévi-Strauss sentì che la sua opera
era compiuta. Mancava soltanto qualche ritocco. Se si guardava
intorno, con i suoi “occhi d’elefante”, non tornava mai sugli
stessi argomenti: era sempre imprevedibile. Proprio per questo, si
formò delle abitudini, dietro alle quali scivolava, libero come un
pesce. Alternava il lavoro a casa, quello al Cnr, le passeggiate, la
lettura dei libri contemporanei, la lettura (puntualissima) del
giornale, le rare frequentazioni del teatro e del cinema. Era
attentissimo alle nuove scoperte tecniche, sebbene non amasse l’idea
moderna di progresso.
Sebbene come Madame de
Staël non amasse viaggiare, viaggiò moltissimo: in Pakistan, in
Canada, in Colombia britannica e cinque volte, tra il 1977 e il 1988,
in Giappone. Qualche volta pensò a un Buddhismo cristianizzato o
meglio a un Cristianesimo buddhizzato.
Aveva amato molte donne:
in ognuna di esse trovava le altre. Forse l’ultima moglie, Monique
Roman, fu la più cara: aveva diciotto anni meno di lui; discendeva
da una madre ebreo-americana e da un padre belga. Abitava a rue des
Marronniers nel cuore di Parigi: era bella e sapeva moltissime cose.
Vicino a lei, scrisse Regarder écouter lire pubblicato nel 1993: un
libro straordinario, libero da qualsiasi schema o ricordo etnologico,
che parla di Poussin, Rameau, Diderot, suoni, oggetti e colori.
Adorava Poussin come nessun altro pittore; e credo approvasse le sue
parole sul fatto che Caravaggio era venuto al mondo per distruggere
la pittura. Claude Lévi-Strauss diventò, quasi senza accorgersene,
vecchissimo.
Era un’abitudine di
famiglia. Le due nonne erano morte quasi centenarie; e lui superò
agevolmente il secolo. Pensava, fantasticava, leggeva: anche gli
ultimi libri usciti: e seguiva i film di Eric Rohmer. Morì un mese
prima di compiere centouno anni, il 30 ottobre 2009, e venne sepolto
a Lignerolles, un villaggio della Côte-d’Or. Sino alla fine uscì
da se stesso e dal proprio paese. Nel 1989, Eugenio Scalfari lo
invitò a collaborare a Repubblica: scrisse sedici articoli, raccolti
col titolo Siamo tutti cannibali (Il Mulino, pagg. 176,
euro 14, con una postfazione di Bernardo Valli), abbandonando, come
forse non aveva mai fatto, gli argomenti trattati per tutta la vita.
Così, sino alla fine, visse altrove.
la Repubblica – 17
aprile 2018
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