01 marzo 2013

BASTA GUARDARE...





Questo pezzo è uscito, qualche giorno fa,  su Repubblica:

GIORGIO VASTA - VIAGGIO SENTIMENTALE IN LUOGHI ABBANDONATI

«Basta guardare», suggeriva Goffredo Parise. Dello stesso principio-guida – lavorare di sguardo, connetterlo alla durata, confrontarsi con la stratificazione dei fenomeni, con l’architettura complessa delle forme in divenire – si è avvalsa Antonella Tarpino nel compiere un viaggio, o meglio un «muoversi ragionato», attraverso ciò che in questo momento, fungendo da segnatempo tanto irregolare quanto efficace, è in Italia il paesaggio delle macerie e delle rovine. Vale a dire tutti quegli spazi che esistono sul crinale tra presenza e abbandono, tra dissoluzione e un tentativo di recupero che non sia meramente turistico. Frantumi che non sono soltanto forme fisiche della distruzione bensì manifestazioni concrete di quegli «impianti di pensiero» sui quali si fondano le epoche, zone in cui si accumulano i resti dei paradigmi ai quali ci siamo affidati per comprendere ciò che accade.
Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro (Einaudi) è un diario dei luoghi, dello spazio italiano che cambia (o che, nonostante tutto, non cambia mai); una cronaca di come il tempo, accampandosi nello spazio – una cascina, la piazza di un paese, l’interno minutissimo di un bagno sospeso su un cumulo di detriti –, lo rosicchia, lo sbrana, lo divora. Per scoprire, a divoramento avvenuto, che lo spazio non è sparito ma è diventato un’altra cosa (emblematica, in questo senso, l’immagine di un flacone di detersivo che ricoperto da uno strato di polvere si confonde con le pietre antiche; siamo a Ferruzzano, in Calabria: le rovine sono un disegno involontario, un progetto senza progettista in cui, tra quiete e inquietudine, si realizzano sorprendenti saldature temporali che trasformano ogni qui in un altrove).
Non limitandosi a contemplare le spoglie dei luoghi prescindendo da chi li ha abitati, Tarpino racconta le storie delle persone che quei luoghi li hanno vissuti. E lo fa tramite una sensibilità di sguardo che si continua nella lingua con precisione di dettato e tenerezza costante per le forme: un vero e proprio prendersi cura, per via linguistica, di ciò che c’è. Rivelando così una inesausta fiducia nei confronti di quel museo dinamico – un museo delle cose, delle morfologie, dei processi umani – che è l’atto del descrivere.
Si parte dal «bagliore fragile» di Paraloup, il borgo che si affaccia sulla pianura che conduce fino alle Langhe, ricovero di una delle prime bande impegnate nella lotta partigiana. Nel racconto di Tarpino Paraloup è uno spazio di vetro, qualcosa che studio e ricostruzione hanno reso trasparente. La perlustrazione di questo alpeggio si fa occasione per un inabissamento verticale nelle storie accadute tra quelle montagne. Il dato sensoriale raccolto al momento (per esempio la descrizione delle pietre di un forno tagliate a raggiera) si connette alla memoria personale che a sua volta si nutre di quell’ulteriore memoria collettiva costruita attraverso i racconti e le testimonianze dei partigiani.
Dalle Alpi il viaggio sentimentale di Spaesati continua lungo il Po, «quiete e tempesta, magia e lacrime», un paesaggio di «rovine liquide» in cui, come a San Lorenzo di Guazzone (una frazione di Piadena, in provincia di Cremona), vive e lavora con la sua famiglia l’indiano Jagjit Mehta, mungitore presso una cascina. Davanti a questo bizzarro montaggio che tempo e geografia hanno generato, Tarpino osserva che «il paesaggio della tradizione ne esce scomposto e dilatato insieme». L’esperienza contemporanea dell’identità non può che essere questo: ibridarsi e, tramite il meticciato, riformarsi di continuo.
La ricognizione prosegue raggiungendo, sotto la guida di Franco Arminio e della sua prospettiva paesologica, l’Irpinia – Bisaccia, Conza, Teora – dove il terremoto del 1980 ha drammaticamente radicalizzato un processo di estinzione che era già in atto, una smaterializzazione tanto della pietra quanto della memoria. Pentedattilo, con la sua mano di arenaria sgretolata che incombendo protegge le rovine di questo antico borgo della Locride, è invece l’opportunità per riflettere su come proprio le rovine, nella loro incessante metamorfosi, possano dare luogo a un «composto etico».
Al centro del percorso di Tarpino – un centro fisico, logico, morale – sta quello che è oggi di fatto il cuore attonito dell’Italia contemporanea. A L’Aquila le macerie (quattro milioni e mezzo di tonnellate) sono diventate le paradossali fondamenta di una città disabitata. I puntelli metallici (un investimento di venticinque milioni di euro) sono l’esoscheletro di un luogo che trascende se stesso imponendosi come metafora feroce di ciò in cui viviamo immersi.
A L’Aquila il transitorio è diventato permanente, la fiducia è un gioco di pazienza, il futuro è un’ingenuità per pochi, pochissimi ostinati. La città è il Paese, il paese è spaesato, ogni cosa è in sospensione. Anche a partire da queste deduzioni Spaesati è un breviario laico – razionale senza temere lo struggimento, sobriamente appassionato – utile a distillare, solo guardando, la sostanza del tempo presente.

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