21 marzo 2013

LA STELLA POLARE DELL'EGUAGLIANZA




Emilio Carnevali – La stella polare dell’eguaglianza

Cade quest’anno il cinquecentesimo anniversario della pubblicazione del Principe. Per Isaiah Berlin Machiavelli rappresenta un vero e proprio spartiacque nella storia delle idee in Occidente.
Nel suo saggio Sulla ricerca dell’ideale (1988) il filosofo anglo-russo si sofferma sulla contraddizione fra le virtù cristiane («umiltà, accettazione delle sofferenze, rinuncia delle cose terrene, speranza nella salvazione in un’altra vita») e le virtù talvolta necessarie al buon Principe nell’esercizio delle sue funzioni. Machiavelli, scrive Berlin, «non condanna le virtù cristiane: si limita a osservare che le due morali sono incompatibili, e non riconosce un criterio preminente che ci aiuti a stabilire quale sia la via giusta per gli uomini».
Per la prima volta si «interrompeva» una linea di pensiero che da Platone in poi aveva attraversato l’intera storia del pensiero occidentale, caratterizzata dalla tentazione di sistematizzare tutte le verità, tutte le «cose buone», dentro un disegno capace di organizzarle e armonizzarle, rendendole partecipi di un unico «puzzle cosmico».
La lettura di Machiavelli, scrive ancora Berlin, «instillò in me un’idea che ebbe quasi l’effetto di uno shock: l’idea che non tutti i valori supremi perseguiti dall’umanità, ora e in passato, fossero necessariamente compatibili fra loro». Ecco quindi la necessità di una scelta. E il conseguente obbligo di accettare la perdita che ogni scelta porta inevitabilmente con sé. Per un liberale «classico» come Berlin era naturale che fra i due grandi princìpi della libertà e dell’eguaglianza la priorità dovesse essere accordata al primo. E più precisamente alla nozione «negativa» di libertà, ovvero alla libertà concepita come «area entro la quale un uomo può agire non impedito da altri» in contrapposizione alla libertà «positiva» che «deriva dall’aspirazione dell’individuo ad essere padrone della propria vita» (Due concetti di libertà, 1958).
Con il crollo del Muro di Berlino sembra che l’intero Occidente abbia fatto propria – con la stessa deformante disinvoltura che ha ridotto Machiavelli a una sorta di grande teorico dell’arte dei raggiri e dell’inganno – una versione «popolare» della lezione antitotalitaria di Isaiah Berlin: il sogno di realizzare l’eguaglianza fra gli uomini sarebbe incompatibile con il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il fallimento del cosiddetto «socialismo reale» ha decretato la vittoria della libertà veicolata dall’economia di mercato come unico orizzonte possibile e auspicabile per la convivenza umana. Qualcuno ha addirittura parlato di «fine della storia».
Ma è così venuto meno un principio che dovrebbe essere caro ad ogni liberale: quello della concorrenza, anche nell’ambito delle idee. Abbiamo appreso la lezione di Berlin, ma abbiamo dimenticato quella di John Stuart Mill, secondo il quale «in politica è ormai quasi un luogo comune che un partito dell’ordine o della stabilità e un partito del progresso o delle riforme siano entrambi necessari a una vita politica prospera». «Ognuno dei due modi di pensare», scrive Mill nel suo celebre saggio On liberty (1859), «trae la sua utilità dai difetti dell’altro: ma è sopratutto la loro opposizione reciproca, quel che mantiene entrambi entro i limiti misurati della ragione». Riguardo «alla democrazia e all’aristocrazia, alla proprietà e all’eguaglianza, alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla sobrietà, alla socialità e all’individualità, alla libertà e alla disciplina», ovvero riguardo «ai grandi problemi pratici della vita, la verità è sopratutto una questione di conciliazione e di combinazione degli opposti».
Il liberalismo non può cristallizzarsi in un dogma unilaterale perché, come ha scritto Benedetto Croce nel suo saggio Il presupposto filosofico della concezione liberale (1927), in esso «si rispecchia tutta la filosofia e la religione dell’età moderna, incentrata nell’idea della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità e l’opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato». Da qui deriva la polemica che Croce condusse contro Luigi Einaudi che voleva identificare liberalismo politico e liberismo economico.
Dopo l’89, e ancor prima con la grande rivoluzione conservatrice guidata sin dall’inizio degli anni Ottanta da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, è come se non ci fosse stato più posto nel dibattito pubblico delle liberaldemocrazie occidentali per il principio dell’eguaglianza. Si è colpevolmente trascurato il fatto che esso rimane alla base del patto di cittadinanza sul quale le nostre società sono fondate.
Non può esistere «democrazia», ad esempio, senza il riconoscimento della «pari libertà» dei cittadini di influire sul governo della comunità. Una «pari libertà» che si esprime in primo luogo nel principio sommamente egualitario «una testa un voto», ma che trova una conseguenziale attuazione in una visione più approfondita della cittadinanza, come quella dalla quale discende l’articolo 3 della Costituzione italiana: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
L’eguaglianza non può essere espunta dalle nostre società perché, appunto, è il fondamento ultimo – morale e razionale – delle nostre istituzioni. Può, però, essere cancellata la riflessione intorno agli obiettivi contingenti, e sempre storicamente rivedibili, che il principio dell’eguaglianza impone nella sua declinazione pratica.
L’eguaglianza come traguardo non ancora raggiunto, come valore e obiettivo da perseguire, è infatti sparita dalla discussione pubblica, dagli statuti e dai programmi dei partiti politici (anche della sinistra) e finanche dal marketing elettorale (diverse formazioni in gara nelle ultime elezioni riprendevano la «libertà» nel loro nome – Popolo della libertà, Futuro e libertà, Sinistra ecologia e libertà – mentre nessuna si richiamava alla parola «eguaglianza» o a quella di «giustizia»).
Nel lungo trentennio neoliberista l’unica eguaglianza «accettabile» è stata quella delle «opportunità». Qualsiasi altro tipo di tentativo di approccio all’eguaglianza era quasi sempre tacciato di rifarsi a fallimentari ideologie del passato, ideologie che enunciavano prospettive messianiche di trasformazione dell’ordine politico e di palingenesi sociale, ma che si sono trasformate in un incubo egualitarista.
Eppure la lotta per l’eguaglianza è sempre un percorso di progressiva «approssimazione», un continuo tentativo di avvicinamento verso un traguardo la cui conquista non sarà mai completamente possibile né, in ultima analisi, auspicabile. La dimensione dell’utopia è insita nell’ideale stesso di «emancipazione» che ispira tutta la modernità politica. Se si riflette bene non è soggetta a un minor tasso di «irrealismo» nemmeno la tanto pragmatica – e al passo coi tempi – «eguaglianza delle opportunità», dato che prenderla davvero sul serio significherebbe proporre l’abolizione tout court dell’istituto della famiglia (o almeno il divieto di lasciare in eredità le ricchezze: l’«esproprio di successione», altro che tassa!).
Ecco quindi che il rifiuto di andare oltre l’eguaglianza delle opportunità non significa proteggersi e tutelarsi dalle conseguenze di tragiche ideologie del passato: può implicare, al contrario, il pericolo di aggirare una riflessione profonda e improcrastinabile sulle sfide che il nostro tempo ci propone.
Perfino un autentico monumento del liberismo internazionale come il settimanale britannico The Economist ha dedicato, lo scorso ottobre, un approfondimento speciale alla diseguaglianza, partendo dall’attestazione che negli ultimi trent’anni la famosa «curva di Kuznets» (dal nome dell’economista di Harvard Simon Kuznets, che nel 1955 descrisse la relazione tra diseguaglianza e prosperità come una U rovesciata) «si è interrotta, almeno nelle economie avanzate. Oggi la U rovesciata è diventata una N inclinata, con l’ultima gamba minacciosamente puntata verso l’alto». Concludeva poi, abbastanza sorprendentemente, l’Economist: «Le persone hanno legittimamente idee diverse su cosa sia equo e su quale sia il giusto equilibrio tra equità ed efficienza. Ma tutti dovrebbero concordare sulla necessità di riforme che migliorino l’efficienza e riducano la diseguaglianza».
Riflettere, oggi, sull’eguaglianza significa dunque tornare a interrogarsi sui meccanismi che presiedono alla distribuzione dei frutti della cooperazione sociale e sui criteri che possono legittimare quei meccanismi, dal momento che le società democratiche sono tali proprio perché hanno a loro fondamento istituzioni «legittime» e non mera espressione di rapporti di forza e di dominio. Riflettere sull’eguaglianza significa, ancora, indagare se esistono metodi, regole, soluzioni, dispositivi alla luce dei quali contestare una data allocazione delle risorse (o delle «capacitazioni», per utilizzare un più sofisticato concetto introdotto da Amartya Sen) e suggerirne una più conforme a princìpi di giustizia, equità ed efficienza.
Significa cercare di risponde ad alcune domande pratiche ineludibili per le scelte alle quali sono chiamate le istituzioni pubbliche nell’esercizio delle proprie funzioni: esiste un rapporto fra la mobilità sociale (il risultato dell’eguaglianza delle opportunità) e la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza? Esiste una correlazione fra crescita economica, ricchezza sociale e livello di diseguaglianza? Quale tipo di diseguaglianza caratterizza il nostro paese, quali sono i fattori alla base delle differenze di condizioni fra gli individui? Sono fattori legati al merito, al contributo che un individuo dà al benessere della collettività oppure no? L’attuale assetto incentiva lo sforzo e la responsabilità individuali, oppure li indebolisce? In base a quale dottrina o teorema possiamo giustificare una concentrazione della ricchezza che stride sempre di più con la «sensibilità morale» di una massa crescente di persone, e così facendo mina alle fondamenta la coesione sociale e la stabilità delle nostre istituzioni?
Nel nostro paese per un lungo periodo di tempo queste domande abbiamo smesso di porcele (almeno al di fuori di una ristretta, e meritoria, cerchia accademica e di qualche marginale formazione politica). E non è un caso se in Italia lo scarto tra l’indice di diseguaglianza dei redditi al lordo (redditi di mercato) e quello al netto di tasse e sussidi (redditi disponibili) è uno dei più bassi fra le economie più avanzate (fanno meglio di noi perfino gli Usa, dove la tassazione è notoriamente limitata). Vuol dire che, semplicemente, lo Stato non corregge quasi in alcun modo le diseguaglianze generate dal mercato, che viene così ad assurgere a legge naturale e inviolabile, una sorta di decreto divino al quale gli uomini non possono o non debbono opporsi.
Dicevamo che è da tempo che tali domande in Italia non vengono più sollevate. Questo «Almanacco di economia» di MicroMega vorrebbe appunto contribuire a risvegliare un dibattito che la grande crisi economica scoppiata nel 2008 ha riproposto in tutta la sua gravità e urgenza.
La crisi, infatti, ha ancor più accentuato le tendenze già in atto da tempo. L’Europa ha reagito al crollo economico e finanziario con dosi da cavallo di austerità che hanno aumentato la diseguaglianza, depresso l’economia e di conseguenza peggiorato sensibilmente l’assetto delle finanze pubbliche. «Il modello sociale europeo» è stato dichiarato superato dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Ovunque si sono sentite campane a morto per un welfare non più sostenibile di fronte al mutamento demografico, alle sfide della competizione globale e ai debiti accumulati da decenni.
Si è confidato nella cosiddetta dottrina dell’«austerità espansionistica», secondo la quale i tagli al deficit statale avrebbero un effetto fiducia così potente da poter favorire l’espansione dell’economia nonostante la riduzione della spesa governativa.
In realtà «la fata della fiducia non si è fatta vedere», per dirla con le parole del premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha fatto autocritica in merito agli abbagli presi durante la grande crisi (si veda lo studio pubblicato dal capo economista dell’Fmi Olivier Blanchard – insieme a Daniel Leigh – significatamente intitolato Errori previsionali di crescita e moltiplicatori fiscali).
Fortunatamente, e paradossalmente, è diverso il vento che sembra spirare dall’altra parte dell’Atlantico. Il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti d’America ha incarnato con la sua stessa persona, con il colore della sua pelle, la realizzazione di un grande sogno di eguaglianza, impensabile fino a pochi anni prima. Ma ha anche messo in campo – pur fra molte contraddizioni – politiche fondate su una ritrovata responsabilità dell’autorità pubblica nella promozione del benessere collettivo e nella correzione degli squilibri più stridenti nei quali si dibatteva il cosiddetto American dream (come la presenza di milioni di cittadini sprovvisti di qualsiasi copertura assicurativa sanitaria).
Nel discorso pronunciato in occasione del giuramento per il secondo mandato presidenziale Obama ha individuato nell’orizzonte dell’eguaglianza la missione che lui e l’intera nazione sono chiamati a onorare negli anni a venire, in continuità con la vocazione che animò i Padri fondatori più di duecento anni fa: «Noi, il popolo, oggi dichiariamo che la più palese fra le verità – che tutti noi siamo stati creati uguali – è l’astro che ancora ci guida».
Speriamo davvero che anche i leader e i popoli europei sappiano ritrovare il proprio «astro dell’eguaglianza» capace di condurli fuori dal deserto di una crisi che è politica, morale e civile prima ancora che economica.

(21 marzo 2013)
Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-stella-polare-delleguaglianza/


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