Dall’8 marzo
al 23 giugno 2013, il Complesso del Vittoriano a Roma ospita le opere dei più
importanti esponenti del Cubismo. Sono circa duecento i lavori esposti tra
olii, disegni, sculture, oggetti di design, libri e filmati. Ripropongo di
seguito il bel pezzo di Lea Mattarella pubblicato ieri su La Repubblica:
Lea
Mattarella - Cubismi. La rivoluzione di Picasso che contagiò ogni linguaggio
«Il Cubismo ha scomposto forme esistite per secoli e ne ha utilizzato i frammenti per creare nuovi oggetti, nuovi modelli e, in definitiva, mondi nuovi». Chi parla è Diego Rivera, muralista messicano, che non è rimasto immune al fascino del movimento nato a Parigi dalle intuizioni di Pablo Picasso e Georges Braque. La mostra Cubisti Cubismo aperta da oggi fino al 23 giugno al Complesso del Vittoriano, curata da Charlotte N. Eyerman in collaborazione con Simonetta Lux, realizzata da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia (catalogo Skira), vuole proprio rintracciare tutti i possibili cubismi che si diffondono nel mondo come un virus che trasmette modernità, innovazione, rovesciamenti di forme e spazi. Per questa ragione è costruita con un doppio passo: da una parte ci sono i cubisti, cioè gli artisti che hanno sperimentato il nuovo linguaggio sulle tele, sfaccettando oggetti, figure e paesaggi, mettendo insieme dinamismo, simultaneità e un imperioso desiderio di capire la realtà attraversandola, scomponendola e riassemblandola secondo un nuovo principio della visione.
Dall’altra
la rassegna va a caccia, con esiti sorprendenti, di diverse tracce di cubismo
nelle varie discipline: dalla poesia al cinema, dall’architettura al design,
dal teatro alla moda. Per dirne una: l’esposizione rivela una Praga inedita con
fotografie, modellini, progetti (in particolare di Pavel Janák) che nascono
proprio dalla rottura della forma iniziata a Parigi tra il 1908 e il 1909. È il
critico Vauxcelles che utilizza per primo la parola “cubi” parlando di Brauqe.
Non vuole certamente elogiarlo, ma gli artisti sono più avanti di chi li
critica e si appropriano del termine facendolo diventare sinonimo di
avanguardia. E qui il senso della loro gioiosa sfida si vede nei tessuti (Sonia
Delaunay), nella musica, nelle parole (Apollinaire), sul palcoscenico (Léger e
Picasso), oltre che, naturalmente, nei quadri. Ad accogliere il visitatore è la
voce di Gertrude Stein che legge If I told him. A portrait of Picasso, una
poesia dedicata all’artista spagnolo e pubblicata nel 1924 su Vanity Fair.
Diciotto anni prima Picasso l’aveva ritratta in un quadro- icona. Se lì il cubismo era ancora in fase di divenire, gli scoppiettanti versi della scrittrice americana ne sono l’esplosione sonora e il suo approdo in letteratura. Qualche anno dopo la Stein scriverà il suo celebre saggio sul pittore spagnolo e nell’Autobiografia di Alice Toklas farà dire all’amica di aver conosciuto solo tre “geni di prima classe”: Pablo Picasso, Alfred Whitehead e – perché no? – la stessa Gertrude.
Di Picasso in mostra ci sono diverse opere che raccontano le svolte, i passaggi, il suo cammino tra differenti momenti del movimento di cui questo spagnolo, arrivato a Parigi per conquistarla, è sicuramente il più grande esponente. C’è una figura che sembra una maschera e nasce dalla scoperta dell’arte africana che, come lui stesso ha dichiarato, lo trasforma in uno “sciamano”. E poi un nudo femminile tutto spigoli e contorsioni e un capolavoro dipinto tra il 1912 e il 1913, Chitarra e violino che fa venire in mente Jean Cocteau e il suo sogno di sentire la musica delle chitarre di Picasso.
Accanto ecco il Violinista di Braque che dimostra come ci sia stata una stagione del cubismo severa, ponderata, addirittura matematica. Non a caso Braque, che qui è rappresentato, tra le altre cose, anche con un paesaggio di ispirazione cézanniana che trasforma la natura in un mondo di cubi, sosteneva di amare «la regola che corregge l’emozione». E per tornare a Picasso la mostra si chiude con la sua Donna accovacciata del 1958 che dimostra come, molti anni dopo, l’artista torni a rileggere se stesso, con la libertà che lo contraddistingue nel corso di tutta la sua lunghissima carriera. Da questi due incorreggibili innovatori parte una vera e propria rivoluzione. In Francia Albert Gleizes e Jean Metzinger scrivono Du Cubisme.
E i due
teorici mostrano visivamente il loro sodalizio tra le sale del Vittoriano con il
bellissimo ritratto che il secondo fa del primo: costruito per piani paralleli,
si rivela geniale nel bianco e nero interrotto da una sottile striscia in cui
compare il colore in cui lo sguardo del fruitore e quello dell’effigiato si
incontrano. Un effetto che ha qualcosa di cinematografico. E infatti eccolo, il
cinema: in primo luogo quello di Fernand Léger che firma le scenografie de
L’inhumaine di Marcel L’Herbier oltre a realizzare il suo celebre Ballet
mécanique che mostra oggetti, forme geometriche, silhouettes, figure che si
scompongono, si aprono, si chiudono, si rovesciano in un gigantesco
caleidoscopio. È lo stesso Léger a dichiarare che «il film è nato dalla mia
pittura». Dalla sua parete in mostra emerge un mondo di figure e di paesaggi
costruiti come bizzarri ingranaggi. Magnifico.Accanto a lui c’è la sintesi di
Juan Gris, l’altro spagnolo del gruppo.
Da Parigi il Cubismo prende il volo. Atterra sulle tele dei pittori di ogni parte del mondo: ci sono il messicano Rivera e il ceco František Foltyn con il suo Ritratto di Dostoevskij a tocchi sfaccettati. Ci sono gli inglesi: Vanessa Bell, Wyndham Lewis, gli Omega Workshop, Roger Fry, sul quale è appena uscito una nuova edizione del libro di Virginia Woolf che della Bell è la sorella (Roger Fry, a cura di Nadia Fusini, Mondadori). Al gruppo di Bloomsbury è lasciato il compito di rappresentare il design. E appare evidente come le diverse culture assimilino il cubismo facendolo dialogare con la propria storia, anche se, spesso, per contrasto. Ecco gli americani: Mardsen Hartley, Stanton Mc-Donald Wright. E anche Gino Severini e Ardengo Soffici: l’avanguardia francese incontra quella italiana, cubismo e futurismo si spiano, si intrecciano. E poi ci sono i russi: El Lissitsky, Liubov Popova, Alexandra Exter con le sue brillanti scenografie teatrale.
A questo
proposito ecco i costumi di scena di Parade progettati da Picasso per il
balletto dei Balletti Russi di Diaghilev su libretto di Cocteau, coreografia di
Léonide Massine e musica di Eric Satie, andato in scena nel 1917. Apollinaire
definisce lo spettacolo “il primo balletto cubista”. I ballerini indossavano
pezzi di città (il manager americano i grattacieli e quello francese i
boulevards) danzando, per la prima volta sul palcoscenico del Théatre du
Chatelet i passi di una modernità fino allora sconosciuta.
(Da: La
Repubblica 8 marzo 2012)
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