Tanto meno cultura si vede in giro nei nostri tristi giorni, tanto più si parla di cultura e culture. Ho
l’impressione che siamo davvero vicini alla Babele biblica! La confusione delle
lingue sta raggiungendo vette inimmaginabili. Un esempio mi pare che venga
anche dall’articolo seguente:
Claudio Giunta – La quarta cultura non farà prigionieri
È difficile pensare a un saggio meno attuale di Le
due culture di Charles Snow, che alla fine degli anni Cinquanta accese
una discussione infinita mettendo l’uno contro l’altro due tipi umani che sino
ad allora avevano abbastanza pacificamente convissuto, a volte addirittura
collaborato: quelli che leggono Amleto e quelli che sanno qual
è il secondo principio della termodinamica. Rileggendo il libretto si constata
che la distinzione non era granché più sottile: da un lato la genia degli
scienziati, che «ha il futuro nel sangue», dall’altro quella degli umanisti, i
quali «pretendono che la cultura tradizionale costituisca la totalità della
‘cultura’, come se l’ordine naturale non esistesse» e, «per natura luddisti»,
«nutrono un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli» (sic).
E si respira l’aria di certi vecchi film in bianco e nero: con la guerra
fredda, la paura che gli ingegneri sovietici facciano le cose più in fretta
degli ingegneri americani, le high tables dei college inglesi
in cui i letterati (teste Snow) trattano con una certa sufficienza i loro
colleghi scienziati. Oggi sono rimaste solo le high tables, ed è
molto probabile che qui il rapporto si sia invertito, e che siano gli
scienziati a guardare con sufficienza i loro sotto-finanziati, non-attrattivi,
obsoleti colleghi umanisti. Ma al di là di queste un po’ oziose questioni di
prestigio, è il tema in sé che mi pare abbia perso centralità. La mia copia del
libro di Snow ha una bella prefazione di Ludovico Geymonat che avverte:
«Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di
due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura
letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo
di crisi della nostra civiltà». Felice l’epoca – verrebbe da commentare – in
cui erano questi i problemi che potevano mettere in crisi «la nostra civiltà».
Le due culture di Snow apparteneva al genere difficilissimo
del pamphlet, un genere in cui per cento pagine si fanno considerazioni
ordinate tutte a un medesimo obiettivo. L’obiettivo di Snow era sintetizzabile
nella frase ‘Le scienze dure sono più importanti delle scienze umane’; o nella
frase ‘La cultura scientifica dovrebbe essere apprezzata più di quanto non si
faccia di solito’; o nella frase ‘Solo le scienze applicate ci possono
salvare’. Il rischio di ogni pamphlet, come di ogni ragionamento a
tesi, è duplice. Da un lato una visione caricaturale degli avversari (Snow non
aveva in mente degli umanisti, aveva in mente degli idioti); dall’altro la
cecità rispetto a tutto ciò che potrebbe mettere in discussione l’assunto che
s’intende provare, e quella fiducia smodata nelle proprie idee che porta ad
essere incautamente ottimisti («La disparità tra ricchi e poveri [...] non durerà
a lungo. Qualunque cosa, nel mondo che conosciamo, sia destinata a sopravvivere
fino all’anno 2000, certo non sarà questa disparità. Una volta che l’espediente
per diventare ricchi è conosciuto, come lo è ora, il mondo non può più
continuare a vivere mezzo ricco e mezzo povero. Non può proprio andare avanti
così». Dove l’espediente sarebbe il buon uso della tecnica: mai fare
previsioni, mai).
Le tre culture di Jerome Kagan
appartiene invece al genere ‘saggio di sintesi’, o ‘saggio-visione’, ed è
insomma uno di quei libri che vengono scritti verso la fine della vita da
studiosi che hanno dato contributi importanti all’interno della loro
disciplina, ma hanno letto molto anche al di fuori di quei confini, e ora
vogliono provare a comunicare a un pubblico più ampio la loro visione del
mondo. In passato era soprattutto un genere da filosofi. Oggi che la
spiegazione dell’Intero non sembra più stare in cima ai loro pensieri, il
testimone è passato ad altre categorie che sono o presumono di essere più in
sintonia con lo Zeitgeist: fisici, economisti, psicologi, biologi.
Kagan è appunto uno studioso di psicologia, il che spiega perché, nel suo
libro, la parte relativa alle scienze dure sia un po’ sacrificata, quella
relativa alle scienze umane sia ridotta al minimo, e quasi tutto lo spazio se
lo prenda la terza cultura, cioè quelle che si chiamano sinteticamente scienze
sociali. Questo squilibrio si avverte non solo se si guarda alla quantità, al
numero delle pagine, ma anche se si guarda alla qualità dell’argomentazione. Le
molte pagine che Kagan dedica alla psicologia e alle discipline confinanti sono
piene di osservazioni interessanti, la gran parte delle quali ruota attorno al
problema cruciale del rapporto tra natura e cultura (cos’è innato e cos’è
costruzione sociale? Cos’è ‘umano’ e cos’è frutto dell’educazione?), problema
che Kagan affronta con grande equilibrio e soprattutto – come non accade in
troppi petulanti contributi ‘umanistici’ sul medesimo tema – alla luce di
abbondanti dati sperimentali. Ma le cinquanta pagine dedicate alle scienze dure
e all’economia sono poco più che aneddotiche. E le cose vanno peggio con
le humanities perché, non diversamente da Snow, Kagan ne ha
una visione talmente riduttiva da rendere impossibile qualsiasi argomentazione
o contro-argomentazione sensata. Per Snow gli umanisti erano quelli che avevano
letto Amleto. Dal canto suo, Kagan ritiene (p. 259) che alla
domanda «Quali sono le funzioni dello studio umanistico?» gli umanisti
contemporanei risponderebbero «Fornire prospettive divergenti sulla condizione
umana e creare oggetti belli». Un’idea che non si saprebbe bene come prendere (Kagan
pensa ai romanzieri? Ai pittori? Certo non agli storici, filologi, paleografi,
archeologi, linguisti che nelle università svolgono un lavoro non meno esatto e
non meno scientifico dei loro colleghi fisici e biologi), ma che contribuisce a
spiegare il tono millenaristico di una sintesi come questa: «Il mondo moderno
ha disperatamente bisogno dei suoi Swift, Kant, Goya, Shaw, Beckett o Eliot per
provocare una popolazione passiva, alla deriva in una nave senza una direzione
chiara, che chiacchiera dell’ultimo episodio dei Soprano». Il senso
degli studi umanistici – si potrebbe dire se si accettasse questo gioco – sta
precisamente nel favorire l’attitudine contraria: quella che porta a diffidare
di ogni esigenza di «direzione chiara», e che per esempio accoglie come una
benedizione il fatto che un essere umano che vive oggi possa godere insieme di
Kant, di Goya e dei Soprano. Ma non bisogna
accettare questo gioco.
Il capitolo finale, Tensioni attuali,
parla dell’equilibrio fra le tre culture nell’università, e ne parla con
intelligenza, ma contiene considerazioni di un buon senso così cristallino da
rasentare il senso comune. Non è colpa di Kagan: qualsiasi discorso
sull’istruzione superiore che tratti di questioni generali corre il rischio di
ripetere cose già note, e su cui siamo tutti d’accordo. Solo i sovversivi
riescono ad essere veramente interessanti, ma di solito hanno anche torto.
Invece Kagan ha quasi sempre ovviamente ragione: quando sostiene che la
biologia può fornire dei buoni protocolli d’indagine alle scienze sociali (no
alle infatuazioni per le certezze delle scienze dure); quando osserva che una
storia del banjo non dovrebbe avere lo stesso credito di un corso sui
fondamenti della fisica (no alla completa destrutturazione dei curricula);
quando, coll’autorità dell’esperto, assicura che nessuna mappa genomica abolirà
mai il libero arbitrio, per cui se un adolescente si ubriaca e poi sfascia la
macchina in un incidente non ci sono scuse, è colpa sua: oggi invece «le
autorità scolastiche e gli amici condividono la colpa per avergli permesso di
bere fino a ubriacarsi e poi di guidare un’automobile». Insomma, il corredo
genetico non è predittivo quanto all’uso o al non uso dell’etica della
responsabilità: è un sollievo saperlo.
Dove Kagan ha forse torto, dove forse il suo buon
senso non funziona, è su una delle questioni fondamentali del libro, e cioè sul
modo in cui i rappresentanti delle tre culture dovrebbero provare a colmare
il gap che li separa. Scrive Kagan: «L’ovvio bisogno di una
maggiore comprensione reciproca fra i membri delle tre culture potrebbe essere
soddisfatto almeno in parte dalle collaborazioni, sia all’interno che
all’esterno dell’accademia, da insegnamenti condivisi e da libri scritti a più
mani da rappresentanti di tutti e tre i gruppi». A stringerla in una parola,
questa è la famosa interdisciplinarità (in italiano popolare interdisciplinarietà,
con una e in più piovuta da chissà dove), cioè la saggia
raccomandazione di studiare un oggetto, un’epoca, un problema, facendovi convergere
tecniche diverse, elaborate in campi del sapere diversi. Ora, almeno in campo
umanistico, il richiamo all’interdisciplinarità assomiglia un po’ a un truismo,
perché è una cosa che, al livello più alto degli studi, si è sempre fatta.
Interdisciplinarità significa qui, in sostanza, ‘ricerca di qualità’. Si tratta
allora di creare degli studiosi capaci di farla, questa ricerca di qualità, e
non è affatto detto che l’interdisciplinarità programmata, la contaminazione
decisa a tavolino, sia la strada da percorrere se si vuole raggiungere
quest’obiettivo. Le occasioni d’incontro tra specialisti di discipline diverse
sono ovviamente una ricchezza. Ma queste occasioni si creano all’interno di
ottime università, popolate da ottimi docenti e da ottimi studenti: la ricerca
di alto livello (aka interdisciplinarità) nasce su questo terreno,
non altrove. Pensare – come si fa sempre più spesso – di saltare direttamente
all’ultimo passaggio e fare ‘ricerca interdisciplinare’ è un buon modo per
incoraggiare il velleitarismo e la chiacchiera. Sul fronte della formazione,
questo significa che, prima di promuovere collaborazioni tra esperti di
discipline diverse e la scrittura di libri in équipe, l’università
dovrebbe continuare a curarsi della buona salute delle singole discipline e
della buona qualità degli studiosi che la professano. Formare dei bravi
linguisti, o dei bravi storici, o dei bravi paleografi: questo è un obiettivo
sensato; ‘formare dei nuovi Max Weber’ è un’idea seducente, ma non funziona (ma
è, ripeto, un’idea diffusa: una sua variante spericolata si ritrova per esempio
nel libretto di Toby Miller Blow Up the Humanities, Philadelphia,
Temple University Press 2012, che propone di somministrare agli studenti «a
blend of political economy, textual analysis, ethnography, and environmental
studies», in modo da farli diventare degli agguerriti media critics:
ma certo).
In definitiva, l’impressione è che la debolezza di
libri così diversi come quello di Snow e quello di Kagan stia nel tema ancor
prima che nello svolgimento del tema. Da un lato, le ‘culture’ così intese sono
organismi troppo mobili e complicati perché se ne possa dare una descrizione
sintetica. Dall’altro, predicare le contaminazioni è inutile perché – là dove
si danno le condizioni opportune, e non altrove – queste si sviluppano per
conto loro. Infine, colmare il divario fra le due o tre culture, oltre che
irrealistico, è assurdo, perché dobbiamo precisamente a questo divario, a
questa differenziazione di ruoli, buona parte del progresso tecnico-scientifico
che rende meno spiacevole, meno insicura e meno breve la vita moderna; così
come gli dobbiamo tante splendide opere d’arte, e tanti bei libri sulle opere
d’arte. Anziché adoperarsi per colmare il divario che le separa, le tre culture
dovrebbero continuare a crescere e raffinarsi nella massima libertà, e
talvolta, altrettanto liberamente, conversare tra loro. Almeno fino a quando
gli specialisti della quarta, l’informatica, non decideranno che è ora di
piantarla.
[Questo articolo è uscito sul Domenicale del «Sole
24 Ore», 10 marzo 2013].
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