Franco Cardini – I giochi non sono fatti
Allora,
è fatta. Dopo quattro giorni di lavoro delle varie Congregazioni Generali dei
cardinali, durante i quali si sono esaminati i principali problemi della Chiesa
- il dialogo interreligioso, la bioetica, il ruolo della donna nella Chiesa e
altro - l'ottava ha stabilito che il conclave avrà inizio martedì prossimo, 12
marzo, con la messa Pro eligendo pontifice al mattino e l'ingresso nella
Cappella Sistina, tradizionale sede dei lavori, nel pomeriggio. Sono previste
due tornate giornaliere di elezioni, con schede di carta e con signa autografi
tracciati a penna, con buon inchiostro secondo la costituzione apostolica Universi
dominici gregis: niente voti elettronici, sia pure con risposte
in latino, come si è invece fatto durante le Congregazioni. A rigore, la
«fumata bianca» potrebbe innalzarsi verso il cielo di Roma già al tramonto del
12.
Il conclave è
un'occasione solenne e importante. Lo si immagina come un consesso pieno di
densa, ovattata tensione, di segni impercettibili e segreti, di febbrili
nascoste contrattazioni. Ci si dimentica che è anche un momento di
concentrazione e di preghiera. I problemi sono già stati posti, e gli
accordi già presi (nonché i disaccordi già delineati) durante i quattro giorni
di lavoro congregazionale.
Secondo la dottrina cattolica, le decisioni del conclave sono protette
dal dogma dell'infallibilità: è lo Spirito Santo a guidare la scelta
degli Eminentissimi Padri. Sono solo due gli altri casi d'infallibilità
dogmaticamente proclamata: quello del papa quando parla ex cathedra Petri
e quello della canonizzazione dei santi.
Peraltro, il conclave (termine che in latino indica un luogo
che si può chiudere a chiave, quindi isolato e protetto) è istituzione
relativamente recente. Secondo la primitiva organizzazione ecclesiale,
formalizzatasi nel IV secolo quando il cristianesimo divenne religio licita
nell'impero, gli epsicopi («vescovi»), cioè i capi delle singole diocesi
(circoscrizioni) nelle quali la Chiesa a somiglianza dell'impero si ripartiva,
venivano scelti dal clero e dal popolo diocesani. Si trattava di elezioni
che davano sovente luogo a tumulti, e che nel tempo divennero presto
appannaggio di gruppi ristretti rispettivamente rappresentativi dei chierici e
dei laici più importanti. Alla fine del primo millennio, le elezioni dei
vescovi - e quella stessa del vescovo di Roma, definito con il familiare
appellativo d'origine siriaca di papa («padre») - erano praticamente nelle mani
delle aristocrazie locali, il che non favoriva certo né il buon ordine delle
scelte espresse né la qualità morale degli eletti.
Ma nel corso dell'XI secolo si produsse all'interno della
Chiesa latina (che nel contempo uno scisma scoppiato nel 1054 allontanava da
quella greca) un vero e proprio movimento di riforma che ebbe come
principale risultato la progressiva esautorizzazione delle aristocrazie
laiche, e dello stesso imperatore romano-germanico, dal potere di scegliere
i vescovi.
E soprattutto quello del caput mundi, per cui si elaborò un
sistema di elezione aristocratico-chiericale, secondo il quale il collegio
degli elettori del papa era costituito dai cardinales: cioè dai
sacerdoti (preti e diaconi) titolari delle sette basiliche romane maggiori,
dette appunto cardines, e delle circoscrizioni dette «diaconìe», cui si
aggiungevano i vescovi delle diocesi prossime a Roma. Difatti, dal momento che
la diocesi romana era considerata «metropolitana», quelle che ne circondavano
il terriotorio, ne erano «suffraganee»: e i vescovi di esse erano a loro volta
cardinales.
Tuttavia, nonostante questa rigorosa regolamentazione, tensioni e
fazioni all'interno del collegio cardinalizio turbarono sovente la scelta dei
pontefici successivi: finché nel 1274 papa Gregorio X, ch'era
stato eletto dopo un conclave durato un anno e mezzo, formulò nella bolla Ubi periculum
una rigorosa normativa di segregazione. Nacque così il conclave, che ancor oggi
segue con alcune modifiche la normativa allora stabilita.
Non sappiamo se questo sarà un conclave breve o lungo: nessuno può
saperlo. Sarà probabilmente un conclave difficile, ma non è escluso che
gli Eminentissimi Padri entrino nei locali della Sistina, che verranno
sigillati dopo il loro ingresso, con una soluzione già grosso modo presa.
Se il conclave dovesse essere breve, il significato di tale brevità
potrebbe essere opposto: i cardinali potrebbero aver già individuato fra loro
il più adatto, cioè colui sul quale far convergere una scelta almeno a
maggioranza robustamente concorde, e che sarebbe quindi in grado di governare
con energia forte del loro sostegno; o, al contrario, potrebbero aver già
constatato l'impossibilità di trovare un accordo e scegliere allora in discorde
concordia un pontefice-ponte, il ruolo del quale sarebbe la convocazione
a breve di un concilio al quale si demanderebbe la soluzione dei
problemi e l'appianamento, o l'evidenziazione, delle discordie.
In entrambi i casi, un conclave breve sarebbe il segno di una netta
svolta nella vita della Chiesa; uno più lungo potrebbe indicare una sia pur
laboriosa e sofferta soluzione nel senso della continuità. E forse
dell'ambiguità, delle tensioni, delle lotte.
Non tutto il collegio cardinalizio è abilitato a votare. I cardinali che
all'atto dell'inizio della sede vacante, il 28 febbraio, avevano già compiuto
gli ottant'anni, non saranno ammessi al voto. Resterebbero votanti, cioè non
ultraottantenni (il più giovane, l'indiano Thottunkal, ne ha 54: l'età media è
71-72), 117, ma 2 sono esentati: l'indonesiamo Darmaatmadia per motivi di
salute, lo scozzese O'Brien per ragioni personali. Su un corpo elettorale di
115 effettivi votanti, il quorum previsto dei 2/3 più 1 è di 77 voti: tanti
dovrà totalizzarne il cardinale che ascenderà al soglio di Pietro.
Una «maggioranza qualificata» difficile da raggiungersi? Il toto-papa
allinea con cura le ragioni della sua ingegneria matematico-statistica. Dei 117
prelati, fu Giovanni Paolo II a consegnare la porpora a 48 di essi, Benedetto
XVI a 67. Non c'è nessuno che sia stato scelto dai papi precedenti.
Potrebb'essere questo un elemento di presumibile concordia? In realtà, non
sembra. Nemmeno il còmputo «nazionale» sembra aver peso effettivo: che le
nazionalità più rappresentata sia l'italiana, e poi la statunitense, non
significa nulla: sono proprio loro i più divisi tra loro. Le vere divisioni
sono fra i «curiali» da una parte (guidato da Bertone), gli «anticuriali»
dall'altra (guidati dall'arcivescovo di Vienna Schönborn); oppure tra i «conservatori»,
con Scola come esponente più autorevole, e i «progressisti», con
il Panzerkardinal Kasper e il nostro Tettamanzi. Ma in buona
posizione appare il canadese-québecquois Marc Ouellet, arcivescovo di
Montreal, conservatore e piuttosto àlgido però ottimo conoscitore dei
meccanismi curiali e, in quanto «americano» ma al tempo stesso francofono
guardato con simpatìa da statunitensi ed europei.
I probabili outsider, però, sono molti. Tra gli altri, un possibile
prelato latinoamericano o africano, esponenti dei due continenti «di punta» e
al tempo stesso «a rischio» nella Chiesa attuale. Il resto, lo sa lo Spirito
Santo.
Fonte: il manifesto, 9 marzo 2013.
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