10 marzo 2013

CONCLAVE: I GIOCHI NON SONO FATTI




Franco Cardini I giochi non sono fatti
Allora, è fatta. Dopo quattro giorni di lavoro delle varie Congregazioni Generali dei cardinali, durante i quali si sono esaminati i principali problemi della Chiesa - il dialogo interreligioso, la bioetica, il ruolo della donna nella Chiesa e altro - l'ottava ha stabilito che il conclave avrà inizio martedì prossimo, 12 marzo, con la messa Pro eligendo pontifice al mattino e l'ingresso nella Cappella Sistina, tradizionale sede dei lavori, nel pomeriggio. Sono previste due tornate giornaliere di elezioni, con schede di carta e con signa autografi tracciati a penna, con buon inchiostro secondo la costituzione apostolica Universi dominici gregis: niente voti elettronici, sia pure con risposte in latino, come si è invece fatto durante le Congregazioni. A rigore, la «fumata bianca» potrebbe innalzarsi verso il cielo di Roma già al tramonto del 12. Il conclave è un'occasione solenne e importante. Lo si immagina come un consesso pieno di densa, ovattata tensione, di segni impercettibili e segreti, di febbrili nascoste contrattazioni. Ci si dimentica che è anche un momento di concentrazione e di preghiera. I problemi sono già stati posti, e gli accordi già presi (nonché i disaccordi già delineati) durante i quattro giorni di lavoro congregazionale.
Secondo la dottrina cattolica, le decisioni del conclave sono protette dal dogma dell'infallibilità: è lo Spirito Santo a guidare la scelta degli Eminentissimi Padri. Sono solo due gli altri casi d'infallibilità dogmaticamente proclamata: quello del papa quando parla ex cathedra Petri e quello della canonizzazione dei santi.
Peraltro, il conclave (termine che in latino indica un luogo che si può chiudere a chiave, quindi isolato e protetto) è istituzione relativamente recente. Secondo la primitiva organizzazione ecclesiale, formalizzatasi nel IV secolo quando il cristianesimo divenne religio licita nell'impero, gli epsicopi («vescovi»), cioè i capi delle singole diocesi (circoscrizioni) nelle quali la Chiesa a somiglianza dell'impero si ripartiva, venivano scelti dal clero e dal popolo diocesani. Si trattava di elezioni che davano sovente luogo a tumulti, e che nel tempo divennero presto appannaggio di gruppi ristretti rispettivamente rappresentativi dei chierici e dei laici più importanti. Alla fine del primo millennio, le elezioni dei vescovi - e quella stessa del vescovo di Roma, definito con il familiare appellativo d'origine siriaca di papa («padre») - erano praticamente nelle mani delle aristocrazie locali, il che non favoriva certo né il buon ordine delle scelte espresse né la qualità morale degli eletti.
Ma nel corso dell'XI secolo si produsse all'interno della Chiesa latina (che nel contempo uno scisma scoppiato nel 1054 allontanava da quella greca) un vero e proprio movimento di riforma che ebbe come principale risultato la progressiva esautorizzazione delle aristocrazie laiche, e dello stesso imperatore romano-germanico, dal potere di scegliere i vescovi.
E soprattutto quello del caput mundi, per cui si elaborò un sistema di elezione aristocratico-chiericale, secondo il quale il collegio degli elettori del papa era costituito dai cardinales: cioè dai sacerdoti (preti e diaconi) titolari delle sette basiliche romane maggiori, dette appunto cardines, e delle circoscrizioni dette «diaconìe», cui si aggiungevano i vescovi delle diocesi prossime a Roma. Difatti, dal momento che la diocesi romana era considerata «metropolitana», quelle che ne circondavano il terriotorio, ne erano «suffraganee»: e i vescovi di esse erano a loro volta cardinales.
Tuttavia, nonostante questa rigorosa regolamentazione, tensioni e fazioni all'interno del collegio cardinalizio turbarono sovente la scelta dei pontefici successivi: finché nel 1274 papa Gregorio X, ch'era stato eletto dopo un conclave durato un anno e mezzo, formulò nella bolla Ubi periculum una rigorosa normativa di segregazione. Nacque così il conclave, che ancor oggi segue con alcune modifiche la normativa allora stabilita.
Non sappiamo se questo sarà un conclave breve o lungo: nessuno può saperlo. Sarà probabilmente un conclave difficile, ma non è escluso che gli Eminentissimi Padri entrino nei locali della Sistina, che verranno sigillati dopo il loro ingresso, con una soluzione già grosso modo presa.
Se il conclave dovesse essere breve, il significato di tale brevità potrebbe essere opposto: i cardinali potrebbero aver già individuato fra loro il più adatto, cioè colui sul quale far convergere una scelta almeno a maggioranza robustamente concorde, e che sarebbe quindi in grado di governare con energia forte del loro sostegno; o, al contrario, potrebbero aver già constatato l'impossibilità di trovare un accordo e scegliere allora in discorde concordia un pontefice-ponte, il ruolo del quale sarebbe la convocazione a breve di un concilio al quale si demanderebbe la soluzione dei problemi e l'appianamento, o l'evidenziazione, delle discordie.
In entrambi i casi, un conclave breve sarebbe il segno di una netta svolta nella vita della Chiesa; uno più lungo potrebbe indicare una sia pur laboriosa e sofferta soluzione nel senso della continuità. E forse dell'ambiguità, delle tensioni, delle lotte.
Non tutto il collegio cardinalizio è abilitato a votare. I cardinali che all'atto dell'inizio della sede vacante, il 28 febbraio, avevano già compiuto gli ottant'anni, non saranno ammessi al voto. Resterebbero votanti, cioè non ultraottantenni (il più giovane, l'indiano Thottunkal, ne ha 54: l'età media è 71-72), 117, ma 2 sono esentati: l'indonesiamo Darmaatmadia per motivi di salute, lo scozzese O'Brien per ragioni personali. Su un corpo elettorale di 115 effettivi votanti, il quorum previsto dei 2/3 più 1 è di 77 voti: tanti dovrà totalizzarne il cardinale che ascenderà al soglio di Pietro.
Una «maggioranza qualificata» difficile da raggiungersi? Il toto-papa allinea con cura le ragioni della sua ingegneria matematico-statistica. Dei 117 prelati, fu Giovanni Paolo II a consegnare la porpora a 48 di essi, Benedetto XVI a 67. Non c'è nessuno che sia stato scelto dai papi precedenti. Potrebb'essere questo un elemento di presumibile concordia? In realtà, non sembra. Nemmeno il còmputo «nazionale» sembra aver peso effettivo: che le nazionalità più rappresentata sia l'italiana, e poi la statunitense, non significa nulla: sono proprio loro i più divisi tra loro. Le vere divisioni sono fra i «curiali» da una parte (guidato da Bertone), gli «anticuriali» dall'altra (guidati dall'arcivescovo di Vienna Schönborn); oppure tra i «conservatori», con Scola come esponente più autorevole, e i «progressisti», con il Panzerkardinal Kasper e il nostro Tettamanzi. Ma in buona posizione appare il canadese-québecquois Marc Ouellet, arcivescovo di Montreal, conservatore e piuttosto àlgido però ottimo conoscitore dei meccanismi curiali e, in quanto «americano» ma al tempo stesso francofono guardato con simpatìa da statunitensi ed europei.
I probabili outsider, però, sono molti. Tra gli altri, un possibile prelato latinoamericano o africano, esponenti dei due continenti «di punta» e al tempo stesso «a rischio» nella Chiesa attuale. Il resto, lo sa lo Spirito Santo.

Fonte: il manifesto, 9 marzo 2013.

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