19 marzo 2013

S. ZWEIG E IL CANDELABRO ERRANTE












Che fine ha fatto la grande Menorah del Tempio di Gerusalemme, il simbolo stesso del popolo ebraico? Esiste ancora e, se esiste, chi la custodisce? Domande frequenti fra i cultori dei misteri e dell'esoterismo. Poco prima della seconda guerra mondiale lo scrittore viennese Stefan Zweig dedicò a questo tema un romanzo che viene ora riproposto in Italia. Solo pochi anni dopo il nazismo avrebbe cancellato quel mondo ebraico mitteleuropeo di cui lo scrittore era stato parte così significativa. Un libro affascinante, ma anche inquietante, quasi una premonizione della nuova catastrofe che stava per abbattersi sul popolo di Israele.




Susanna Nirenstein - Stefan Zweig e il mistero del candelabro errante


Amava dipingersi, e lo era davvero, un campione del cosmopolitismo e del Mondo di ieri, come recitava il titolo della sua autobiografia che rimpiangeva gli splendori e l'intelligenza della Mitteleuropa asburgica animata dai geni di Freud, Werfel, Joseph Roth, Rilke, Benjamin, Schnitzler..., da quelli che insomma erano stati i suoi compagni di strada prima che il nazismo annientasse tutto e tutti, e lui, Stefan Zweig, iniziasse il suo esilio, prima a Londra, poi negli Stati Uniti, infine in Brasile dove si suicidò nel 1942, a 61 anni. Nonostante i suoi aneliti universalisti comunque Zweig non aveva mai messo da parte il suo ebraismo, di ebrei aveva cosparso molti dei suoi romanzi, anche se non era per niente osservante e neppure sionista, perché era nemico di ogni nazionalismo.

Deve esserci stata almeno una parentesi però - quando ormai l'antisemitismo l'aveva ancorato sempre più alle sue origini e la vita nella amata Europa si mostrava come un esodo senza fine - in cui anche a Zweig l'urgenza di una patria degli ebrei in Palestina sembrò ineludibile, almeno questo è quel che appare evidente alla lettura del Il candelabro sepolto scritto nel 1936 mandato ora in libreria da Skira (fu pubblicato nel 1937 e mai più riedito).

La storia è questa, ed è raccontata con passione totale, anche se certo spiace che l'editore non l'abbia fatta ritradurre riproponendo così la versione obsoleta del 37. Dunque, come si sa, Tito nel 70 d.C. distrusse il Tempio di Gerusalemme e saccheggiò la città: il corteo che portava a Roma i prigionieri e il bottino furono raffigurati nell'arco di Trionfo accanto al Colosseo dove ancora oggi si può vedere ben chiara, portata su un carro, la grande Menorah, il candelabro a sette braccia, il simbolo per eccellenza del popolo ebraico che un tempo illuminava il Bet Hamikdash, il Sancta Sanctorum a Gerusalemme. Ecco, le spoglie della guerra giudaica furono conservate a Roma finché, nel 455, i Vandali di Genserico non razziarono la città portandole a Cartagine. E di lì, forse, a Costantinopoli nel 534, per poi, ma chissà, siamo nella leggenda ormai, essere trasferite dai bizantini a Gerusalemme, in una chiesa cristiana. Però sulle vicissitudini vere e presunte della Menorah va letta la postfazione di Fabio Isman: gli israeliani per esempio sono convinti che la reliquia sia ancora in Vaticano e persino l'ex presidente Katsav ne chiese notizie durante una visita ufficiale.

Sull'infinito errare della Menorah d'oro (metafora del destino ebraico) Zweig intesse il suo libro, ricamandolo di racconti fantastici, come quello che vuole il Candelabro forgiato dalle mani dello stesso Mosè. Ma soprattutto Zweig immagina come gli ebrei romani del 455 cerchino con tutto il cuore di non far portar via la Menorah dai Vandali, e ancora come si industrino per richiederla decenni dopo a Giustiniano imperatore bizantino e ricondurla in quello che era stato (e presto sarà) Israele: fino a escogitare un trucco da favola per farcela arrivare comunque e attendere il suo popolo.

«Non è possibile andare sempre così fra le tenebre eterne, senza conoscere la via. Nessun popolo può vivere senza dimora, errabondo e cinto da pericoli. Bisogna accendere loro una luce, insegnare loro la strada. Qualcuno dovrebbe guidarli e ricondurli in patria», si dice il protagonista nel sonno e subito vede «una terra pacifica e feconda, adagiata lungo il mare [...], una contrada meridionale, palme e cedri si cullavano [...] gli uomini lavoravano in pace la terra nativa [...] possibile che questo popolo sia lo stesso che camminava testé fra le tenebre? Ha dunque fatto ritorno alla sua patria?». E se Zweig non sta avendo lo stesso sogno del suo antico amico Theodor Herzl (ormai divenuto in parte realtà, siamo nel '36, e i sionisti in Palestina sono già 360mila), qualcun altro dica cos'è.

(Da: La Repubblica del 26 febbraio 2013)


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