Il Don Chisciotte di Cervantes è uno dei libri che ho più amato. Un classico che si legge e rilegge sempre con piacere. In occasione di una nuova traduzione italiana del libro, Cesare Segre ha scritto un bellissimo pezzo, pubblicato ieri dal Corsera, che mi piace riproporre oggi:
Cesare Segre - Don Chisciotte ci aiuta a
capirci meglio
Don Chisciotte è uno dei non moltissimi personaggi delle letterature
moderne che s'è imposto universalmente. Non per la sua vicenda, che non è poi
straordinaria, ma perché ha qualcosa di archetipico, aiuta tutti noi a capirci
meglio. Il cavaliere della Mancia è pazzo, perché crede di vivere ancora nel
mondo dei romanzi, tra sfide e duelli, salvataggio di damigelle indifese e fama
gloriosa; ma per il resto è persona di alti sentimenti, quasi un maestro. È
dunque una delle molte vittime che fa la letteratura, quando non si è capaci di
distinguerla dalla realtà (tra i discendenti più famosi di don Chisciotte c'è
Madame Bovary). Il romanzo a lui intitolato è uscito in due parti, nel 1605 e
nel 1615, ma si può dire che il «tipo» di don Chisciotte è già disegnato
perfettamente nella prima. Anziano e scalcagnato, il protagonista si fa armare
cavaliere in una comica cerimonia, e cerca avventure degne dei leggendari
cavalieri erranti. Siccome non sa leggere la realtà, ogni volta viene sconfitto
e ridicolizzato. Ma intanto gira per la Mancia, e tutto si nobilita ai suoi
occhi: le locande diventano castelli, le prostitute sono principesse, i mulini
a vento giganti. E, eroe della libertà, scioglie le catene di un gruppo di
galeotti in marcia verso la prigione. Il bello è che moltissime delle persone
che incontra sono, anche se meno gravemente di lui, malate di letteratura, e
altre svolgono acuti ragionamenti sulla loro arte prediletta: così il viaggio
finisce per essere una rassegna delle idee letterarie dell'epoca. Don
Chisciotte si è poi preso come scudiero un contadino ignorante e sentenzioso,
Sancio, che in linea di principio smonta con il buon senso le fantasticherie
del padrone, ma lentamente è attratto nel gioco e diventa una caricatura dello
stesso don Chisciotte.
Il don Chisciotte della seconda parte è concepito da Cervantes in modo
molto diverso, anche per mortificare un mistificatore, Avellaneda, che lo aveva
anticipato con una seconda parte apocrifa. Il don Chisciotte autentico sa di
essere ormai un personaggio, data la diffusione straordinaria che ha avuto la
prima parte del romanzo. Si muove con passo sicuro, e sente in chi incontra
l'ammirazione nei suoi riguardi. Però, nello stesso tempo, la sua inventiva si
è esaurita, e sono gli altri che cercano di stimolarla. Così, mentre nella
prima parte è don Chisciotte che cerca di trasformare la realtà secondo i suoi
sogni, nella seconda si sente obbligato ad accettare e motivare a posteriori le
trasformazioni apportate dai suoi interlocutori. I quali, onorandolo e
coccolandolo, in realtà fanno di lui uno zimbello, quasi un buffone di corte.
Un'occasione per rileggere questo secondo, meno noto, don Chisciotte ce la
dà l'uscita di una nuova traduzione del capolavoro, fondata sulla più
attendibile ricostruzione critica del testo (Miguel de Cervantes, Don
Chisciotte della Mancia, a cura di Francisco Rico, traduzioni di Angelo
Valastro Canale, testo spagnolo a fronte a cura di F. Rico, Bompiani, pp.
CXXIV-2162, € 30).
Per cogliere il diverso clima della seconda parte del romanzo, basta una
lettura dei capp. XXXIV-XXXV. Vi si narra una macchinazione dei duchi di cui
don Chisciotte è ospite. Essa ha come punto focale quella Dulcinea del Toboso
che don Chisciotte ha trasformato nella propria dama, anche se è una rozza
contadina appena incontrata, e forse nemmeno incontrata. Poiché don Chisciotte è
convinto che Dulcinea sia vittima di un incantesimo, i duchi, instancabili nel
progettare nuove avventure a don Chisciotte, fanno apparire nella foresta, dove
la corte è impegnata in una caccia, nientemeno che il diavolo, accompagnato da
musiche d'effetto. E poi, su un grande carro, il mago Merlino, il quale
annuncia che per la libertà di Dulcinea è necessario che Sancio si frusti
tremilatrecento volte «ambedue le chiappe».
E qui si possono notare almeno due cose. Anzitutto che sono stati messi in
moto una grossa macchina teatrale, un gruppo di musicanti e complessi effetti
speciali, per ottenere la fine, sempre fittizia, dell'incantesimo di una
contadinella. E poi che il gusto dei nobili duchi scopre la sua volgarità di
fondo nel prendere come bersaglio quel poveraccio di Sancio e le sue natiche.
Questa volgarità ha già trovato un primo appagamento quando Sancio, fuggendo da
un cinghiale, si arrampica su una quercia e rimane appeso a testa in giù ad un
ramo, suscitando la grassa ilarità dei presenti.
Se nella prima parte don Chisciotte si ingannava, nella seconda viene
ingannato, e la parabola da pazzia trasfiguratrice a pazzia organizzata,
eteronoma, segue l'arco narrativo costituito dallo sviluppo fra prima e seconda
parte. Ciò rende più complesso il rapporto fra realtà e follia e invenzione, in
un gioco di specchi esasperatamente letterario. Il mondo che ora don Chisciotte
attraversa è molto più ricco e variegato di quanto lo stesso don Chisciotte
immaginasse, ma è anche tale da produrre una serie crescente di scacchi, come
la sconfitta in duello da parte di un cavaliere più finto di lui, o la rovinosa
caduta nel fango dopo che un'orda di porci lo ha travolto con Sancio. Don
Chisciotte è diventato un personaggio tragico, e, prima di dichiararsi risanato
e pentito, e dunque vinto, sul letto di morte, esclama, come un mistico: «io
sono nato per vivere morendo».
Dal "Corriere della Sera", 1 marzo
2013
Ti sono grata per avermi offerto (e così ad altri) la possibilità di leggere questo articolo di Cesare Segre. Sì, don Chisciotte aiuta a capirci meglio, a considerare certo andare delle cose e degli uomini nel mondo.
RispondiEliminaELSA GUGGINO