09 marzo 2013

L'AUTOBIOGRAFIA DI GIOVANNI LO DICO



Ripropongo di seguito un brano dell' Introduzione di Nicola Grato e Santo Lombino al bel libro di Giovanni Lo Dico: 



Quello è il giorno che nasce la creatura
destinata a regnare, e che Erode
cerca invano: la creatura
custodita d'amore tenerissimo
e nutrita di sangue di popolo
nella gestazione tenebrosa
che fa trasalire di brividi
indicibili la veglia amara
delle generazioni che attendono
pertinaci; e già sorgono
e si moltiplicano i segni
del grande Avvento. Chi primo
saluterà la rossa aurora
del giorno che la tua fiaccola
irradia, Rivoluzione?

Giorgio Piovano, Poema di noi (1950)


1.                 Elio Vittorini e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, furono scrittori molto diversi tra loro. Il primo, è storia nota, bocciò la proposta di dare alle stampe il capolavoro del secondo. “Il Gattopardo”, che, pubblicato poi da un altro editore, ebbe un successo senza precedenti. I due intellettuali siciliani, però, furono concordi nel sostenere l’utilità, l’opportunità e forse anche la necessità, da parte di ciascuno, di mettere per iscritto le vicende della propria esistenza. Se il primo scrisse: ”C'è bisogno di autobiografia in Italia”, il secondo andò oltre sostenendo addirittura che quello di tenere un diario o di scrivere le proprie memorie “dovrebbe essere un dovere imposto dallo Stato”. Forse senza conoscere questi autorevoli auspici e senza bisogno di tale imposizione dall’alto, tanti italiani non illustri si sono messi negli ultimi decenni a scrivere di sé, delle proprie esperienze private e pubbliche, calcando le orme di altri italiani di cui parlano le storie letterarie. Sul piano storico e sociale, la presa di parola da parte di semicolti, di persone altrimenti senza voce, ha portato molti osservatori, molti storici a ritenere che tali testimonianze potessero essere un modo per ribaltare le versioni ufficiali degli eventi, un modo per avere di fronte un punto di vista dal basso, una voce alternativa, quella dei tanti “Gianni” contrapposta a quella dei tanti “Pierini”, i potenti e i letterati componenti di quello che don Lorenzo Milani e i suoi allievi della scuola di Barbiana definirono “il partito unico dei laureati italiani”.
Partendo da queste considerazioni, circa trent’anni fa sono nate le prime raccolte ad ampio respiro di scritti personali della cosiddetta gente comune: l’Archivio di Rovereto, l’Archivio ligure, l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, voluto dal giornalista e scrittore Saverio Tutino. Quest’ultimo ha avuto l’intuizione di creare un concorso a premi per fare uscire dai cassetti familiari lettere, memoriali, diari. A Pieve, nel corso degli anni, sono state premiate molte autobiografie di autori siciliani. Nel 1990 vinse Tommaso Bordonaro, ultraottantenne di Bolognetta, metà vita in Sicilia e metà negli Stati Uniti raccontate ne “La spartenza”, mentre quattro anni dopo fu la volta di Antonina Azoti da Baucina, col racconto della sua tragica esperienza di bambina a cui i mafiosi uccisero il padre, Nicolò Azoti, bracciante impegnato nelle lotte per la liberazione dallo sfruttamento e dalla mafia.
Nel 2000 fu premiato Vincenzo Rabito di Chiaramonte Gulfi, in quel di Ragusa, che, “ragazzo del ‘99”, aveva preso parte alla prima guerra mondiale. Il suo “Terra matta” sarà trasformato nel 2012  in docufilm dalla regista Costanza Quatriglio. Sei anni dopo il riconoscimento andò ad Antonino Sbirziola, classe 1942, partito da Butera (Caltanissetta), per cercare lavoro prima a Genova e poi in Australia. Infine, nel 2012 Castrenze Chimento da Alia ha visto premiata la fatica di mettere su carta le sofferenze della sua vita di bambino pastore “nudo e crudo”, affamato, bastonato, disprezzato dagli uomini. 
2.                 Non meno interessante e nello stesso tempo diversa da tali autobiografie è quella che qui viene pubblicata, scritta su quattro quaderni, all’età di 83 anni, da Giovanni Lo Dico, nato nel 1928 a Misilmeri (Palermo), che allora aveva circa dodicimila abitanti ed oggi quasi trentamila.
In questa cittadina arrivò attorno al 1980 il giornalista-scrittore Giorgio Manzini seguendo Giusto, Pippo e Antonio Cusimano, un gruppo di fratelli emigrati da pochi anni in Lombardia, che tornavano per le vacanze nel paese di origine. La sua inchiesta è diventata poi il volume “Una famiglia italiana” della collana Struzzi/Società diretta da Corrado Stajano per Giulio Einaudi editore. Parlando della storia di quel comune, Manzini ebbe a scrivere: “A Misilmeri è soprattutto la toponomastica che parla del Risorgimento, metà paese ha nomi risorgimentali. Ci sono tutti, o quasi, compreso Pietro Micca”. E in via Pietro Micca, appunto, Giovanni Lo Dico nasce e trascorre i primi anni di vita: per lui e per tanti concittadini, quella era la strada degli alberi di fico, data la presenza di molte di queste piante, che già il Vecchio Testamento aveva indicato come segno di prosperità e di abbondanza. In quella strada,  dove i suoi genitori avevano preso in affitto il piano terra di una casetta di pochi metri quadri, il genere umano si presenta a Giovanni con la faccia e il carattere di tanti personaggi. Femminili, come Antonia, che a tarda età sopravviveva lavando per altri la biancheria, Anna, organizzatrice di rosari collettivi, la signora Felicia che toglieva ai bambini lo spavento il malocchio l’insolazione, Minica devota custode del lumicino della cappella della Santa Croce, Tina ‘a Vozza , Nina ‘a Riggi e Rosalia,  venditrici a domicilio di uova olio e pane. Ma anche personaggi maschili: Nicola, proprietario della mulo del frantoio, Gelardo, generoso donatore di frutti, Vito, raccoglitore di concime naturale, Peppino, commerciante di sommacco, manna, mandorle e noci. È la casa il centro del mondo di Giovanni bambino: da lì guarda la strada, il modo di vivere solidale tra poveri.   Dal lì, egli segue tutto e tutti con occhi attenti: d’altro canto, come egli stesso scrive, “la vita è bella fino a che c’è qualcosa da scoprire”. Chi conquista la sua fantasia è l’arriffaturi, l’uomo che organizza per le strade del paese la lotteria dei bambini poveri, promettendo al vincitore un cavallino di legno. Giovanni, come se seguisse un aquilone,  corre dietro quell’uomo cercando di afferrare l’itinerante dea bendata, che però non gli si mostra amica, lasciandolo deluso e sconfortato. Il nostro autore ha qualche anno per praticare, con i coetanei, i giochi senza giocattoli trasmessi dai più grandi, che si fanno nei cortili e nelle piazze. Poi entra nel mondo della scuola in contemporanea all’ingresso nel mondo del lavoro ed a sei anni è già ad aiutare il padre in campagna, nella semina delle fave.
“Ero in  quinta elementare. Entrai per caso nella mia esistenza” canta Franco Battiato nell’album “Apriti Sesamo”. Molto tempo prima, grazie a tutte le esperienze lavorative ed umane attraversate, Lo Dico aveva acquisito la consapevolezza della sua condizione e dei suoi compiti. A otto anni era già lavoratore salariato e andava a raccogliere da terra, una ad una, le olive dei proprietari terrieri ricevendo una lira e mezza per una giornata di fatica. Il lavoro minorile è la regola e non l’eccezione: viene inserito in una squadra di coetanei ingaggiati per la raccolta delle olive, che disertano spesso le aule scolastiche per vivere più giorni in campagna. Così anche Antonino Uccello nella poesia pubblicata postuma dal nipote Paolo, “Assenti ingiustificati”:

Roccaro - assente
Mangiafico - assente
Cìcero - assente
sono andati a raccogliere
ulive otto giorni
a novembre
gli alunni di prima
elementare
[1]


[1]  P. Morale Uccello, “Le rotte di Icaro.Con quattordici poesie inedite  di Antonino Uccello”, Palermo 2012.

1 commento:

  1. Soltanto un uomo straordinario come Giovanni poteva scrivere questo libro!

    RispondiElimina