Ripropongo di seguito un brano dell' Introduzione di Nicola Grato e Santo Lombino al bel libro di Giovanni Lo Dico:
Quello è il giorno che nasce la creatura
destinata a regnare, e che Erode
cerca invano: la creatura
custodita d'amore tenerissimo
e nutrita di sangue di popolo
nella gestazione tenebrosa
che fa trasalire di brividi
indicibili la veglia amara
delle generazioni che attendono
pertinaci; e già sorgono
e si moltiplicano i segni
del grande Avvento. Chi primo
saluterà la rossa aurora
del giorno che la
tua fiaccola
irradia, Rivoluzione?
Giorgio
Piovano, Poema di noi (1950)
1.
Elio Vittorini e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, furono
scrittori molto diversi tra loro. Il primo, è storia nota, bocciò la proposta
di dare alle stampe il capolavoro del secondo. “Il Gattopardo”,
che, pubblicato poi da un altro editore, ebbe un successo senza precedenti. I
due intellettuali siciliani, però, furono concordi nel sostenere l’utilità,
l’opportunità e forse anche la necessità, da parte di ciascuno, di mettere per
iscritto le vicende della propria esistenza. Se il primo scrisse: ”C'è bisogno
di autobiografia in Italia”, il secondo andò oltre sostenendo addirittura che
quello di tenere un diario o di scrivere le proprie memorie “dovrebbe essere un
dovere imposto dallo Stato”. Forse senza conoscere questi autorevoli auspici e
senza bisogno di tale imposizione dall’alto, tanti italiani non illustri si
sono messi negli ultimi decenni a scrivere di sé, delle proprie esperienze
private e pubbliche, calcando le orme di altri italiani di cui parlano le
storie letterarie. Sul piano storico e sociale, la presa di parola da parte di
semicolti, di persone altrimenti senza voce, ha portato molti osservatori,
molti storici a ritenere che tali testimonianze potessero essere un modo per
ribaltare le versioni ufficiali degli eventi, un modo per avere di fronte un
punto di vista dal basso, una voce alternativa, quella dei tanti “Gianni”
contrapposta a quella dei tanti “Pierini”, i potenti e i letterati componenti
di quello che don Lorenzo Milani e i suoi allievi della scuola di Barbiana
definirono “il partito unico dei laureati italiani”.
Partendo da queste
considerazioni, circa trent’anni fa sono nate le prime raccolte ad ampio
respiro di scritti personali della cosiddetta gente comune: l’Archivio di
Rovereto, l’Archivio ligure, l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo
Stefano, in provincia di Arezzo, voluto dal giornalista e scrittore Saverio
Tutino. Quest’ultimo ha avuto l’intuizione di creare un concorso a premi per
fare uscire dai cassetti familiari lettere, memoriali, diari. A Pieve, nel
corso degli anni, sono state premiate molte autobiografie di autori siciliani.
Nel 1990 vinse Tommaso Bordonaro, ultraottantenne di Bolognetta, metà vita in
Sicilia e metà negli Stati Uniti raccontate ne “La spartenza”, mentre quattro
anni dopo fu la volta di Antonina Azoti da Baucina, col racconto della sua
tragica esperienza di bambina a cui i mafiosi uccisero il padre, Nicolò Azoti,
bracciante impegnato nelle lotte per la liberazione dallo sfruttamento e dalla
mafia.
Nel 2000 fu premiato
Vincenzo Rabito di Chiaramonte Gulfi, in quel di Ragusa, che, “ragazzo del
‘99”, aveva preso parte alla prima guerra mondiale. Il
suo “Terra matta” sarà trasformato nel 2012 in docufilm dalla regista Costanza Quatriglio. Sei
anni dopo il riconoscimento andò ad Antonino Sbirziola, classe 1942, partito da
Butera (Caltanissetta), per cercare lavoro prima a Genova e poi in Australia.
Infine, nel 2012 Castrenze Chimento da Alia ha visto premiata la fatica di
mettere su carta le sofferenze della sua vita di bambino pastore “nudo e
crudo”, affamato, bastonato, disprezzato dagli uomini.
2.
Non meno interessante e nello stesso tempo diversa da tali
autobiografie è quella che qui viene pubblicata, scritta su quattro quaderni,
all’età di 83 anni, da Giovanni Lo Dico, nato nel 1928 a Misilmeri (Palermo),
che allora aveva circa dodicimila abitanti ed oggi quasi trentamila.
In questa cittadina arrivò attorno al 1980 il
giornalista-scrittore Giorgio Manzini seguendo Giusto, Pippo e Antonio
Cusimano, un gruppo di fratelli emigrati da pochi anni in Lombardia, che
tornavano per le vacanze nel paese di origine. La sua inchiesta è diventata poi
il volume “Una famiglia italiana” della collana Struzzi/Società diretta da
Corrado Stajano per Giulio Einaudi editore. Parlando della storia di quel
comune, Manzini ebbe a scrivere: “A Misilmeri è soprattutto la toponomastica
che parla del Risorgimento, metà paese ha nomi risorgimentali. Ci sono tutti, o
quasi, compreso Pietro Micca”. E in via Pietro Micca, appunto, Giovanni Lo Dico
nasce e trascorre i primi anni di vita: per lui e per tanti concittadini,
quella era la strada degli alberi di fico, data la presenza
di molte di queste piante, che già il Vecchio
Testamento aveva indicato come segno di prosperità e di abbondanza. In
quella strada, dove i suoi
genitori avevano preso in affitto il piano terra di una casetta di pochi metri
quadri, il genere umano si presenta a Giovanni con la faccia e il carattere di
tanti personaggi. Femminili, come Antonia, che a tarda età sopravviveva lavando
per altri la biancheria, Anna, organizzatrice di rosari collettivi, la signora
Felicia che toglieva ai bambini lo spavento il malocchio l’insolazione, Minica
devota custode del lumicino della cappella della Santa Croce, Tina ‘a Vozza
, Nina ‘a Riggi e Rosalia,
venditrici a domicilio di uova olio e pane. Ma anche personaggi
maschili: Nicola, proprietario della mulo del frantoio, Gelardo, generoso
donatore di frutti, Vito, raccoglitore di concime naturale, Peppino,
commerciante di sommacco, manna, mandorle e noci. È la casa il centro del mondo
di Giovanni bambino: da lì guarda la strada, il modo di vivere solidale tra
poveri. Dal lì, egli segue tutto e tutti con
occhi attenti: d’altro canto, come egli stesso scrive, “la vita è bella fino a
che c’è qualcosa da scoprire”. Chi conquista la sua fantasia è l’arriffaturi,
l’uomo che organizza per le strade del paese la lotteria dei bambini poveri,
promettendo al vincitore un cavallino di legno. Giovanni, come se seguisse un
aquilone, corre dietro quell’uomo
cercando di afferrare l’itinerante dea bendata, che però non gli si mostra
amica, lasciandolo deluso e sconfortato. Il nostro autore ha qualche anno per
praticare, con i coetanei, i giochi senza giocattoli trasmessi dai più grandi,
che si fanno nei cortili e nelle piazze. Poi entra nel mondo della scuola in
contemporanea all’ingresso nel mondo del lavoro ed a sei anni è già ad aiutare
il padre in campagna, nella semina delle fave.
“Ero
in quinta elementare. Entrai per
caso nella mia esistenza” canta Franco Battiato nell’album “Apriti Sesamo”.
Molto tempo prima, grazie a tutte le esperienze lavorative ed umane
attraversate, Lo Dico aveva acquisito la consapevolezza della sua condizione e
dei suoi compiti. A otto anni era già lavoratore salariato e andava a
raccogliere da terra, una ad una, le olive dei proprietari terrieri ricevendo
una lira e mezza per una giornata di fatica. Il lavoro minorile è la regola e
non l’eccezione: viene inserito in una squadra di coetanei ingaggiati per la
raccolta delle olive, che disertano spesso le aule scolastiche per vivere più
giorni in campagna. Così anche
Antonino Uccello nella poesia pubblicata postuma dal nipote Paolo, “Assenti
ingiustificati”:
Roccaro - assente
Mangiafico - assente
Cìcero - assente
sono andati a raccogliere
ulive otto giorni
a novembre
gli alunni di prima
elementare[1]
Roccaro - assente
Mangiafico - assente
Cìcero - assente
sono andati a raccogliere
ulive otto giorni
a novembre
gli alunni di prima
elementare[1]
[1] P.
Morale Uccello, “Le rotte di Icaro.Con quattordici poesie inedite di
Antonino Uccello”, Palermo 2012.
Soltanto un uomo straordinario come Giovanni poteva scrivere questo libro!
RispondiElimina