05 marzo 2013

La magia di Tiziano






Aperta alle Scuderie del Quirinale una grande mostra dedicata a Tiziano.
Marco Vallora -Tiziano. Così un genio stregonesco inventa la classicità
Avercelo lì, a sommità della scalinata delle Scuderie, è quasi un’esplosione incontenibile di tran-secolarità dell’intera storia dell’arte. Deflagra dolcemente, in fragoroso, notturno «ralenti», come una morbida, franante granata di sensuale e vellutata bellezza, e di terribilità tutta veneta, ma di pur universale monumentalità (pare la Fenice che s’infiamma. In un vortice di terrestre burrasca del Sublime incendiato). Riavercelo, come tra le braccia dello sguardo, questo estremo e potentissimo Martirio di San Lorenzo, che nella sua chiesastica sede veneziana era pressoché invedibile: per lo scurore del tempo e del tempio, ed i capricci del sagrestano. Ora restituito ad un originario splendore di lapilli eruttivi, grazie anche al sapiente restauro «piemontese», firmato Nicola, che ci offre in adorazione questo telero, superbo e «accadente» (in senso sartriano). Che continua a profondere la sua incandescente lava materica imbronciata di paure, riverberando l’incanto sinistro di questa notte, furiosa, della fede. Il braccio levato del santo lessato, ma in panni aulicissimi, come a fermare il Tempo ed il visitatore pellegrino, sulla soglia di questa sontuosa Via Crucis, redentrice della magnificenza materica, translucida. E quasi va illusivamente a fuoco, nell’incandescenza tremula delle braci assassine, stipate sotto quella levitante graticola, che slitta verso di noi, sfuggendo ai binari dello scenario palladiano, ed ufficia insieme barlumi manieristi e tensioni già barocche. Con i monumenti intorno che intanto si fanno stretti e trafelati, come sinistri tifosi: uomini, torturatori, architetture tortili, che paiono incendiarsi ed assottigliarsi, quasi fragili ceri, fusi stregati, nutrendo nel grasso fumigante tutto uno stuolo di seguaci visionari, da El Greco a Mastelletta, da Tintoretto, a Bassano, da Fuessli a Daumier.

Certo, il rischio e la tentazione è di fermarsi qui, anche con il commento: come cavalli imbizzarriti e indomiti, sotto gli occhi fieri ed irrequieti di Tiziano stesso, che in questo suo Autoritratto di maturità, fa la spola di pupille, tra noi ed il suo orgoglioso capolavoro di nonagenario (altro che cecità, altro che lavorare di solo polpastrelli o colpi di straccio!). Con una sprezzatura quieta e saggiamente dolente, gli occhi rugosi d’esperienza, che si fissano poi nel vuoto luminoso della sua gloria temporale, incarnata e calamitata in quel silenzioso pennello: ago di raggiante energia. Noi, che sappiamo e sentiamo che è pressoché impossibile varcare questa maestria intemporale e tellurica: eppure di lì a poco, ecco che prendono ad inseguirsi, per le sale, e a decantarsi, un numero sparato di capolavori, senza eguali, che è difficile persino elencare, nella loro dovizia, e stupido scegliere, come qui facciamo, quasi a caso.
Dalla Madonna Magnani, ancora pregna di rugiadosi umori giorgioneschi, a quella in dialogo con san Biagio, e quell’assolo tenorile della foglia di fico, che si erge come un paraffo delirante, nel paonazzo albeggiare di laguna (ma dai colori danubiani all’Altdorfer, in attesa della reprimenda furente del Cristo maturo). All’altro angiolone nella Sacra Conversazione accanto, cerosamente sciolto nel suo santo grembiule liliale, infetto d’un bianco, che ha assaggiato tutti i possibili gusti del colore sfatto e già renoiriano. Per passare poi ai ritratti «laici» del secondo piano, dal ritratto di Ranuccio, adolescente ferito dall’infelicità più acerba e smarrita, al grigio umorale del bel galantuomo, dal guanto gaté, color di piccione, che congiunge Pontormo con Goya.
Maddalena penitente, 1533
Dalla Maddalena prorompente sensualità, all’intensissimo Giulio Romano che progetta: terribilità michelangiolesca e virtuosismo raffaellesco, stemperati nella naturalezza più divina, come sosteneva il Dolce. Schiocco e choc della sorpresa che dipinge. E poi il lottesco cantore, dalla giugulare fremente, che doppia con i suoi melismi il rimpallarsi Dies Irae delle tre crepuscolari Crocefissioni, a squassare cieli pochissimo frequentati: quelli chiusi alla devozione «verdiana» di Filippo II, negli avelli dell’Escurial; l’altro ancora sottoposto alle ubbie delle battaglie attributive; ed infine quello, irraggiungibile nella cattedrale di Ancona, divampante e scuro, ravvicinato qui e crollante, come per una zoomata miracolosa.
Certo, ci sarà chi discuterà acribicamente la data di nascita (qui assai avvicinata) chi troverà opere mancanti, la recente e discussa «ritrovata» Fuga in Egitto per esempio, o qualche «poesia» in più, da sottrarre al monarca di Spagna, o un baccanale post-belliniano. Ma (a parte problemi di prestiti ovvii e d’inevitabili indisponibilità) è chiaro che pensare di poter riassumere Tiziano in tutti i suoi variegati aspetti e render conto della sua ineguagliabile grandezza, è pretesa illusoria e sciocca. Diverso domandarsi se in un luogo così prestigioso ma difficile, questa sorta di «open space» processionale delle Scuderie, sia davvero poi possibile preservare e appoggiare la sua mutevole genialità proteiforme, quel suo nevrile nitrire di purosangue indomato delle cromie scosse, degno d’un Picasso rinascimentale. Che ogni volta reinventa i suoi cammini imprevedibili, come se tela dopo tela dovesse ri-materializzare, per scommessa, il fervente respiro della vita, che rilutta a lasciarsi imbalsamare.
Arte stregonesca che incantava l’amico Aretino, e che innervosiva il fiorentino Vasari, che quando Tiziano giungerà, buon ultimo a Roma - il papa gli ha preferito Sebastiano del Piombo, come pittore ufficiale - lo tratterà con una certa sufficienza medicea, come un valligiano un po’ rozzo, che viene dal Cadore e dipinge «alla prima», perché non ha uso di disegno accademico. E se non ci fossero lui e un Michelangelo, paradossalmente più bonario, ma che mai capirebbe della Classicità?). Ed invece, come spiega il curatore Giovanni Villa, è proprio questo suo classicismo, naturale, spontaneo, innervato di carne e di sangue, rivitalizzato, che ci conquista e rapisce, sterzata dopo invenzione, reinvenzione dopo nuovi rapinosi scatti di reni. Useremo la formula di Longhi: «consonanza cromatica», per affidarci a questo flusso. E fermarci di fronte all’ultimo autoritratto, che è già Rembrandt ormai, che guarda a Manet, ed intanto getta i suoi strali al vorticante Apollo spella Marsia, col cagnino che lappa il sangue, come se fosse già la «firma» di Caravaggio nella pozza della Decollazione di Malta.
(Da: La Stampa del 4 marzo 2013)




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