Aperta alle Scuderie
del Quirinale una grande mostra dedicata a Tiziano.
Marco Vallora -Tiziano. Così un
genio stregonesco inventa la classicità
Avercelo lì, a sommità
della scalinata delle Scuderie, è quasi un’esplosione
incontenibile di tran-secolarità dell’intera storia dell’arte.
Deflagra dolcemente, in fragoroso, notturno «ralenti», come una
morbida, franante granata di sensuale e vellutata bellezza, e di
terribilità tutta veneta, ma di pur universale monumentalità (pare
la Fenice che s’infiamma. In un vortice di terrestre burrasca del
Sublime incendiato). Riavercelo, come tra le braccia dello sguardo,
questo estremo e potentissimo Martirio di San Lorenzo, che nella sua
chiesastica sede veneziana era pressoché invedibile: per lo scurore
del tempo e del tempio, ed i capricci del sagrestano. Ora restituito
ad un originario splendore di lapilli eruttivi, grazie anche al
sapiente restauro «piemontese», firmato Nicola, che ci offre in
adorazione questo telero, superbo e «accadente» (in senso
sartriano). Che continua a profondere la sua incandescente lava
materica imbronciata di paure, riverberando l’incanto sinistro di
questa notte, furiosa, della fede. Il braccio levato del santo
lessato, ma in panni aulicissimi, come a fermare il Tempo ed il
visitatore pellegrino, sulla soglia di questa sontuosa Via Crucis,
redentrice della magnificenza materica, translucida. E quasi va
illusivamente a fuoco, nell’incandescenza tremula delle braci
assassine, stipate sotto quella levitante graticola, che slitta verso
di noi, sfuggendo ai binari dello scenario palladiano, ed ufficia
insieme barlumi manieristi e tensioni già barocche. Con i monumenti
intorno che intanto si fanno stretti e trafelati, come sinistri
tifosi: uomini, torturatori, architetture tortili, che paiono
incendiarsi ed assottigliarsi, quasi fragili ceri, fusi stregati,
nutrendo nel grasso fumigante tutto uno stuolo di seguaci visionari,
da El Greco a Mastelletta, da Tintoretto, a Bassano, da Fuessli a
Daumier.
Certo, il rischio e la tentazione è di fermarsi qui, anche con il commento: come cavalli imbizzarriti e indomiti, sotto gli occhi fieri ed irrequieti di Tiziano stesso, che in questo suo Autoritratto di maturità, fa la spola di pupille, tra noi ed il suo orgoglioso capolavoro di nonagenario (altro che cecità, altro che lavorare di solo polpastrelli o colpi di straccio!). Con una sprezzatura quieta e saggiamente dolente, gli occhi rugosi d’esperienza, che si fissano poi nel vuoto luminoso della sua gloria temporale, incarnata e calamitata in quel silenzioso pennello: ago di raggiante energia. Noi, che sappiamo e sentiamo che è pressoché impossibile varcare questa maestria intemporale e tellurica: eppure di lì a poco, ecco che prendono ad inseguirsi, per le sale, e a decantarsi, un numero sparato di capolavori, senza eguali, che è difficile persino elencare, nella loro dovizia, e stupido scegliere, come qui facciamo, quasi a caso.
Dalla Madonna Magnani,
ancora pregna di rugiadosi umori giorgioneschi, a quella in dialogo
con san Biagio, e quell’assolo tenorile della foglia di fico, che
si erge come un paraffo delirante, nel paonazzo albeggiare di laguna
(ma dai colori danubiani all’Altdorfer, in attesa della reprimenda
furente del Cristo maturo). All’altro angiolone nella Sacra
Conversazione accanto, cerosamente sciolto nel suo santo grembiule
liliale, infetto d’un bianco, che ha assaggiato tutti i possibili
gusti del colore sfatto e già renoiriano. Per passare poi ai
ritratti «laici» del secondo piano, dal ritratto di Ranuccio,
adolescente ferito dall’infelicità più acerba e smarrita, al
grigio umorale del bel galantuomo, dal guanto gaté, color di
piccione, che congiunge Pontormo con Goya.
Maddalena penitente, 1533 |
Dalla Maddalena
prorompente sensualità, all’intensissimo Giulio Romano che
progetta: terribilità michelangiolesca e virtuosismo raffaellesco,
stemperati nella naturalezza più divina, come sosteneva il Dolce.
Schiocco e choc della sorpresa che dipinge. E poi il lottesco
cantore, dalla giugulare fremente, che doppia con i suoi melismi il
rimpallarsi Dies Irae delle tre crepuscolari Crocefissioni, a
squassare cieli pochissimo frequentati: quelli chiusi alla devozione
«verdiana» di Filippo II, negli avelli dell’Escurial; l’altro
ancora sottoposto alle ubbie delle battaglie attributive; ed infine
quello, irraggiungibile nella cattedrale di Ancona, divampante e
scuro, ravvicinato qui e crollante, come per una zoomata miracolosa.
Certo, ci sarà chi
discuterà acribicamente la data di nascita (qui assai avvicinata)
chi troverà opere mancanti, la recente e discussa «ritrovata» Fuga
in Egitto per esempio, o qualche «poesia» in più, da sottrarre al
monarca di Spagna, o un baccanale post-belliniano. Ma (a parte
problemi di prestiti ovvii e d’inevitabili indisponibilità) è
chiaro che pensare di poter riassumere Tiziano in tutti i suoi
variegati aspetti e render conto della sua ineguagliabile grandezza,
è pretesa illusoria e sciocca. Diverso domandarsi se in un luogo
così prestigioso ma difficile, questa sorta di «open space»
processionale delle Scuderie, sia davvero poi possibile preservare e
appoggiare la sua mutevole genialità proteiforme, quel suo nevrile
nitrire di purosangue indomato delle cromie scosse, degno d’un
Picasso rinascimentale. Che ogni volta reinventa i suoi cammini
imprevedibili, come se tela dopo tela dovesse ri-materializzare, per
scommessa, il fervente respiro della vita, che rilutta a lasciarsi
imbalsamare.
Arte stregonesca che
incantava l’amico Aretino, e che innervosiva il fiorentino Vasari,
che quando Tiziano giungerà, buon ultimo a Roma - il papa gli ha
preferito Sebastiano del Piombo, come pittore ufficiale - lo tratterà
con una certa sufficienza medicea, come un valligiano un po’ rozzo,
che viene dal Cadore e dipinge «alla prima», perché non ha uso di
disegno accademico. E se non ci fossero lui e un Michelangelo,
paradossalmente più bonario, ma che mai capirebbe della
Classicità?). Ed invece, come spiega il curatore Giovanni Villa, è
proprio questo suo classicismo, naturale, spontaneo, innervato di
carne e di sangue, rivitalizzato, che ci conquista e rapisce,
sterzata dopo invenzione, reinvenzione dopo nuovi rapinosi scatti di
reni. Useremo la formula di Longhi: «consonanza cromatica», per
affidarci a questo flusso. E fermarci di fronte all’ultimo
autoritratto, che è già Rembrandt ormai, che guarda a Manet, ed
intanto getta i suoi strali al vorticante Apollo spella Marsia, col
cagnino che lappa il sangue, come se fosse già la «firma» di
Caravaggio nella pozza della Decollazione di Malta.
(Da: La Stampa del 4 marzo 2013)
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