Qualche giorno fà è morto Stéphane Hessel, scrittore francese,
diventato famoso anche in Italia per un piccolissimo libro,
"Indignatevi!", scritto a 93 anni, in cui invitava a ribellarsi
contro "l'indifferenza, la peggiore
delle abitudini" e contro "i
mezzi di comunicazione di massa che non sanno proporre ai giovani altro che un
orizzonte fatto di consumismo, disprezzo dei più deboli e della cultura,
amnesia generalizzata e competizione a oltranza di tutti contro tutti".
A noi oggi piace ricordarlo così:
Luciana
Castellina - La rabbia come premessa
alle nuove ribellioni
È straordinario: il messaggio chiuso nella bottiglia di una piccolissima
casa editrice della provincia francese ha prodotto una reazione a catena che
nessun altro discorso politico aveva suscitato.
Oltralpe, delle trenta paginette di Indignez vous ne è stato venduto quasi un milione di copie mentre in altri paesi di quell'appello è giunta una grande eco che poi, forse senza un rapporto diretto, si è estesa al di là del Mediterraneo: perché è coincisa con la catena di ribellioni che ha scosso l'intero mondo arabo. Quasi che il vecchio partigiano Stéphane Hessel, coautore della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, avesse capito che il momento era maturo perché la gente tornasse finalmente a indignarsi per lo stato del mondo.
Così ha dato una scossa a tutte e tutti e ci ha costretto a tornare a riflettere. Perché non è vero che l'indignazione esclude la ragione, ma è vero il contrario: se non ci si indigna prevale il sonno della ragione (e si producono mostri). Qualcuno ha storto il naso: «Indignarsi è un'espressione solo morale». Scusate se è poco: se non ci fosse anche una rivolta etica non si sarebbero fatte le grandi rivoluzioni.
Leggendo Hessel ho ripensato anche io alle mie indignazioni per vedere cosa avevano prodotto nella corso della mia vita e cosa dovrebbero ancora produrre. La prima volta che mi sono indignata - ricordo - dovevo avere 5 o 6 anni: mi avevano detto che no, non avrei potuto fare il facchino, il mestiere che sceglievo quando, come a tutti i bambini, mi veniva chiesto cosa avrei voluto fare da grande. Portare i bagagli - allora le valigie con le rotelle non c'erano - mi avrebbe consentito di restare sempre nell'atmosfera che più mi emozionava: quella eccitante della stazione, con i treni in partenza, il miraggio dell'avventura, la prospettiva fantastica del viaggio. No, non avrei potuto realizzare il mio sogno - mi dissero - perché ero femmina. Debole.
Ho reagito nel modo peggiore perché all'indignazione suscitata dalla scoperta della discriminazione di genere non ho fatto seguire la ribellione. Per molti anni ho patito cercando di somigliare il più possibile a un uomo e relegando il mio essere femmina alla clandestinità. Solo tardi, grazie al femminismo, ho scoperto che, anche se non mi consentiva di fare il facchino, il mio genere non era una menomazione, un disvalore, bensì una differenza.
Così ho smesso di dissimulare e di rassegnarmi al misero obiettivo della cosiddetta parità fra maschi e femmine - fondato sulla mistificazione secondo cui esisterebbero esseri neutri (in realtà disegnati sul modello maschile) - e ho cominciato a battermi per dar valore all'essere donna. Ecco. L'indignazione è sempre la premessa, ma occorre un seguito: la ribellione.
(Da: Luciana
Castellina, «Indignazione e altri sentimenti civili», Aliberti editore, 2011)
Anna
Maria Merlo - Hessel, il resistente atipico all'assalto della realtà
Stéphane Hessel, diventato il simbolo dell'indignazione del XXI secolo, ha attraversato il Novecento, riassumendo nella sua biografia i soprassalti e le tragedie del secolo breve, ma sempre con uno sguardo sorridente: «Mia madre mi ha detto - ha affermato in un'intervista - che bisogna promettere di essere felici, è il più grande servizio che possiamo rendere agli altri, non so se mia madre fosse felice, ma era forte».
La sua vita era iniziata all'interno di un romanzo: la madre, il padre e un amico di famiglia, sono i protagonisti della storia vera (salvo la fine) raccontata da Henri-Pierre Roché in Jules et Jim nel 1953, racconto poi adattato al cinema nel capolavoro di Truffaut. Stéphane Hessel, al tempo dei fatti, aveva tre anni.
Era nato a Berlino nel 1917, in una famiglia dell'alta borghesia tedesca: il padre, Franz Hessel, era saggista e traduttore, di famiglia ebrea polacca, la madre, Helen Grund, era figlia di un banchiere. A otto anni, con la madre, si trasferisce a Parigi per poi prendere nel '37 la nazionalità francese. Nella capitale francese, dopo aver studiato filosofia, entra in una grande scuola, l'Ens (Ecole normale sup). Nel '39 si sposa per la prima volta, con Vitia Mirkine-Guetzevitch, giovane ebrea russa, con cui avrà tre figli. Nel '41 abbandona la Francia occupata e fascistizzata per recarsi a Londra. Qui si unisce alla Resistenza delle Forze francesi libere. Nel '44, durante un'operazione in Francia, dove era stato inviato, viene arrestato dalla Gestapo. Hessel sarà deportato a Buchenwald, torturato, poi spostato a Dora e infine a Bergen Belsen, dove verrà liberato grazie agli americani.
Nel '45 torna in Francia e inizia una carriera diplomatica atipica. Lavora alle Nazioni unite, dove collabora alla redazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che per lui resterà, assieme al programma del Consiglio nazionale della Resistenza, la base dei valori del genere umano. Nel '77 è nominato capo della delegazione francese all'Onu e nell'81, con Mitterrand, diventa ambasciatore. Nell'ultima parte del XX secolo, si dedica a varie lotte per la dignità umana: per lo sviluppo dell'Africa, contro la povertà dilagante e la disoccupazione, per i senza-tetto, a favore dei sans-papiers (sarà nominato mediatore per gli immigrati del Mali in sciopero della fame nella chiesa Saint-Bernard nel '96).
Si impegna nella nuova battaglia per l'ecologia, è accanto a José Bové nella lotta contro la diffusione degli ogm. Hessel era un europeista convinto. Il suo impegno a favore dei Palestinesi gli causerà molte critiche: i più estremisti arriveranno persino ad accusarlo di antisemitismo. Ma Hessel continua a lottare e a raccogliere fondi per il Tribunale Russell sulla Palestina e ad accusare la strategia delle colonie di Israele di «politicidio». L'anno scorso, lui che era stato vicino a Mendès France ma non era mai entrato direttamente in politica, aveva sostenuto François Hollande alle presidenziali.
Ultimamente, di fronte alla crisi che attanaglia la Francia e alla povertà crescente, spronava il presidente, suggerendogli di agire, di tradurre in pratica le promesse di lottare contro lo strapotere della finanza. Il ministro degli esteri, Laurent Fabius, lo ha definito «un combattente per la libertà e dignità umana», sempre fedele «ai valori della Resistenza». Il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, lo ha ricordato come «una figura di coscienza universale». La socialista Martine Aubry ha ricordato «la voce che ci sveglia, scuote, riscalda, il sorriso straordinario, luminoso» di Hessel, che ha lottato contro le discriminazioni senza mai scivolare nell'odio e nella rabbia.
(…)
(Da: Il
Manifesto del 28 febbraio 2013)
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