PIERLUIGI SULLO - Les italiens expliqués aux enfants
Nel 1988,
Jean-François Lyotard pubblicò un libro dal titolo fulminante: “Le postmoderne
expliqué aux enfants”, il postmoderno spiegato ai bambini. Che arrivava dopo
“La condizione postmoderna”, uscito all’inizio degli anni ottanta. In quei
libri, il filosofo francese analizzava la disgregazione delle “grandi
narrazioni”, l’illuminismo (e il liberalismo) e il marxismo, alle prese con la
trasformazione radicale della società, dell’economia, della geografia dei
poteri. Dopo un quarto di secolo, gli elettori italiani “hanno votato due
clown”, come ha detto il capo della Spd tedesca.
Qualcuno dovrebbe
azzardarsi a scrivere un libro intitolato “Les italiens expliqués aux enfants”.
C’è infatti chi pensa che gli italiani sono un popolo bizzarro, irresponsabile,
e chi dice che sono annegati nel provincialismo, hanno cioè staccato le
connessioni con il resto del mondo. Dappertutto gli elettori votano – sempre
meno – per i partiti tradizionali, e tradizionalmente divisi in “destra” e “sinistra”,
restando perfino in Grecia al di qua dell’abisso che si spalanca oltre l’orlo
dell’euro (dato che il mondo è tornato piatto, ed ha la forma di una moneta). E
dappertutto, quando protestano, i cittadini assumono lo stile degli Indignados,
del movimento Occupy, della gente di piazza Tahrir al Cairo. Ovvero: i sistemi
politici reggono, bene o male, mentre a ondate dalle società arrivano messaggi
di sfiducia, di estraneità, di rigetto.
In Italia, al
contrario, è accaduto che la marea del rifiuto della politica è entrata dentro
la politica indossando la maschera non di Anonymous ma di Beppe Grillo.
Perché si producesse
questo risultato dev’essere accaduto, nel profondo della società, un qualche
cataclisma. E siccome è l’unico caso al mondo, converebbe appunto cercare di
capire gli italiani, perché si potrebbe trattare non di una scelta di
retroguardia, o di amore per la commedia dell’arte (sublime invenzione
italiana), ma all’opposto di un annuncio, di una sperimentazione d’avanguardia.
Per capire meglio converrà
ricordare – in breve – una caratteristica singolare, nel panorama europeo,
dell’Italia: la debolezza e fragilità dello Stato nazionale. Il nostro è
piuttosto un paese dalla lunga tradizione municipale. Lo Stato è nato tardi e
male, la lingua italiana non si è diffusa davvero che dagli anni sessanta,
grazie alla televisione prima, e agli studenti del 68 poi. I “trenta gloriosi”,
i decenni del boom industriale e dei consumi, sono stati quelli della
unificazione nazionale, della “modernizzazione”, dei grandi partiti di massa.
La Resistenza al fascismo, la repubblica e la Costituzione erano le solide basi
di un consenso nazionale che ha resistito alle pressioni contrapposte della
guerra fredda. In quegli anni lo Stato ha svolto un ruolo importante. Secondo
l’ideologia dell’epoca, il “pubblico” doveva creare le condizioni – sociali,
finanziarie, del mercato interno, delle esportazioni – perché la produzione
avesse fondamenta solide, creando i settori “strategici” (l’energia, l’acciaio,
la chimica di base…), attenuando il divario tra nord e sud, e aiutando così la
creatività imprenditoriale. Il tentativo ha avuto successo per un paio di
decenni, tra il ’50 e il ’70. Poi la maionese è impazzita. Prima perché le
masse di studenti create dalla scolarizzazione e le masse di operai create
dall’industrializzazione si sono ribellati, in un 68 che in Italia è durato
quasi un decennio; poi perché il capitalismo globale ha smantellato il fordismo
e inventato la produzione globale “a rete”, insomma la globalizzazione, distruggendo
le basi stesse della insorgenza operaia e di quell’ordine sociale: le grandi
fabbriche.
*
* *
E’ allora che Lyotard
scrive “La condizione postmoderna”. La modernità si era gravemente ammalata. Il
consumo come religione civile, l’atomizzazione e la dispersione delle classi,
l’ideologia del “deciderà il mercato” ha, in questi decenni, fatto un’altra
vittima eccellente: lo Stato nazionale. Nel nostro paese, lo Stato era debole
già alla nascita, nello spirito civico della gente, però aveva svolto almeno
quel ruolo di promotore economico. Una presenza tanto massiccia, quella dello
Stato, che tutte le grandi industrie italiane o appartenevano allo Stato o
contavano su finanziamenti pubblici. E’ la storia della Fiat, che è
sopravvissuta soprattutto grazie al denaro pubblico, in ogni forma. E questa
regia statale sulle grandi imprese ha nel tempo prodotto un fenomeno endemico,
quello delle decisioni “poltiiche” più che economiche, degli aiuti “a pioggia”,
infine della corruzione pura e semplice, perché se lo Stato aiutava l’economia,
i potenti dell’economia aiutavano, cioè finanziavano, i partiti di governo, e
così via. (Senza tener conto della mafia, la cui penetrazione nella finanza e
nell’economia è incalcolabile, come incalcolabile è il suo apporto alla
corruzione).
Questo equilibrio, pur
malsano, è stato distrutto dall’ideologia liberista. Vietare gli “aiuti di
Stato” e privatizzare tutte le grandi imprese italiane, o privatizzarne la
gestione, ha voluto dire sottrarre un pilastro all’economia del paese, che oggi
non ha più strategie nazionali di alcun tipo, e far esplodere la corruzione. La
privatizzazione, cioè l’accaparramento di ciò che era pubblico, è stata
condotta, dagli anni novanta in poi, con una frenesia paragonabile a quel che
accadde in Unione sovietica dopo il crollo del regime. Allo stesso tempo, però,
la creatività imprenditoriale che pure negli anni cinquanta e sessanta aveva
creato una media industria efficiente, era a sua volta esplosa in una forma del
tutto nuova: quella della piccola e media industria del nord, che, sfruttando
vocazioni e saperi locali, aveva creato un intero settore della produzione in
grado di sostenere la competizione globale. E’ qui la culla della Lega nord, la
cui ragione principale era – ed è tuttora, sebbene fuori tempo – la separazione
delle regioni del nord dai “parassiti” del sud: la frattura, all’epoca, correva
tra regioni in grado di “competere” e regioni gettate ai margini. Alcuni di
quegli imprenditori hanno avuto un successo globale: Del Vecchio con gli
occhiali, Benetton con la maglieria, Della Valle con le scarpe, ecc.
Ora ci troviamo nella
terza vita dell’Italia del dopoguerra. Il banco è saltato definitivamente
quando Mario Monti ha formato il “governo tecnico”. Il suo mandato era
costringere il paese nella camicia di forza del pareggio di bilancio e del
“fiscal compact”, l’astratto e impossibile obiettivo da contabili di uniformare
il bilancio pubblico italiano a quello tedesco. E così, per mantenere vivo il
sistema di finanziamento pubblico a quel che resta delle grandi imprese
italiane, in particolare per mezzo di “grandi opere”, il governo “tecnico” ha
depredato la spesa statale in sanità, istruzione, ricerca, trasporti di
prossimità, le casse dei comuni, e soprattutto ha colpito il bene principale
degli italiani, la casa. Da un lato, la corruzione e i miliardi gettati per
autostrade o treni ad alta velocità inutili e insopportabili, considerato il
tipo di territorio italiano, e uno “sviluppo” affidato, come in Spagna,
all’edilizia selvaggia; dall’altro lato, una riduzione mai vista prima della
spesa sociale e dei redditi. Per di più, la crisi ha colpito la sola parte
vitale dell’economia, le piccole e medie imprese, i cui mercati si sono
ristretti sia perché i consumi calano, sia perché l’euro forte ostacola le
esportazioni, infine perché le banche, pur finanziate dal governo e dalla Bce
per evitarne il fallimento, hanno cessato di dare credito alle piccole
industrie. La mortalità di imprese è impressionante, e va di pari passo con
l’aumento straosferico di aiuti ai disoccupati. Ormai un terzo degli italiani
ha un reddito insufficiente a vivere e un terzo dei giovani non trova lavoro
(la metà nel sud).
*
* *
Il comportamento
elettorale di una persona non si sovrappone affatto – in un’epoca volatile,
“liquida”, come questa – con i suoi comportamenti sociali. In Italia si è
sempre votato molto (anche se il rifiuto del voto è cresciuto ancora, in queste
elezioni), perché il lato convincente dello Stato, la Costituzione nata dalla
Resistenza, gode tuttora di grande prestigio. Così come molto ampio è ancora
l’insediamento culturale della sinistra storica, per la quale le elezioni sono il mezzo per “cambiare le cose”. Ma allo stesso
tempo, negli ultimi dieci-quindici anni, il paese è stato l’incubatore di una
grande quantità di movimenti sociali: forse il paese europeo più vivo, da
questo punto di vista. L’evento fondativo è stata Genova, nel 2001; subito dopo
i tre milioni in strada contro la guerra in Iraq (e i tre milioni di bandiere
della pace alle finestre); la grande diffusione di iniziative altro-economiche
e i record di agricoltura biologica, di aumento delle fonti pulite di energia e
del numero di gruppi che praticano un commercio solidale e di prossimità; le
ondate di proteste in scuole e università; le centinaia di movimenti e comitati
locali contro le “grandi opere” e per il paesaggio; le reti di protezioen die
migranti; la campagna per l’acqua pubblica.
Proprio quest’ultima
vicenda fa da spartiacque: caso unico al mondo, si è votato per un referendum
popolare che chiedeva che l’acqua fosse sottratta al mercato. Ventisette
milioni di elettori hanno detto sì, l’acqua deve restare pubblica (e hanno
detto no al nucleare). Quello è stato il punto più alto nel rapporto tra nuovi
movimenti sociali e apparato istituzionale. Era un segnale potente che diceva:
le politiche neoliberiste che la politica persegue sono sbagliate: un voto di
sfiducia. Ma il referendum è stato aggirato, ignorato e contraddetto da ogni
livello istituzionale e amministrativo. Politici e aziende delle “commodities”
hanno finto non fosse accaduto nulla. Ne sarebbe pouta seguire una diserzione
massiccia, alle elezioni. Quel che è capitato nell’ultimo voto in Sicilia,
quando i non votanti sono stati più dei votanti. Ma gran parte delle proposte
elaborate dai movimenti sono precipitate nel programma dei 5 Stelle, a
cominciare dalla ricerca della democrazia diretta (lo stesso tema che ha
animato gli Indignados o Occupy). E lì si sono trovate in compagnia di spinte
diverse e in parte complementari: quella contro la corruzione e per la
legalità, quella della delusione del nord nei confronti della Lega, anch’essa
coinvolta nella corruzione, quella degli elettori di destra che Berlusconi –
che ha perso la metà dei voti in numeri assoluti – non ammaliava più con
l’”arricchitevi”, parola d’ordine fondamentale dell’ultimo ventennio.
L’accumulo di questa
potenza sociale composta da molte tendenze, però convergenti nel rifiuto della
“politica”, e che, come ha scritto Marco Revelli, non trovava più, come il
magma di un vulcano otturato, una via di sfogo nei partti tradizionali, né era
del tutto propensa a rifiutare il voto, ha usato come canale di espressione il
movimento di Beppe Grillo.
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La nascita e
l’evoluzione dei 5 Stelle finirà nei manuali di marketing, oltre che in quelli
di storia della politica. All’indomani delle elezioni, Grillo, in una delle
rare dichiarazioni ai giornalisti televisivi, ha avuto un lapsus significativo.
Parlando della sua campagna elettorale, ha detto che “eh sì, ho fatto
settantasette spettacoli“. Spettacoli, non comizi o raduni di piazza. Lui e il suo
consigliere e socio, Gianroberto Casaleggio, titolare di un’impresa di
comunicazione, hanno creato una macchina perfettamenta funzionante, il cui il
“logo” è di loro proprietà, il cui uso della Rete annichilisce le televisioni,
costrette a rincorrere ciò che il web diffonde come un virus e, allo stesso
tempo, rassicura i militanti del movimento sul fatto che “uno vale uno”, perché
la Rete appare egualitaria. Lo stesso Grillo non è percepito come “capo” o
“leader”, benché la sua parola alla fine valga come decisione finale, ma come
un “garante” o un “portavoce”, colui che dà forza alle proposte del movimento
con la sua efficacia retorica e con le iniziative spettacolari, come
attraversare lo Stretto a nuoto prima delle elezioni siciliane. E’ una figura
di tipo nuovo, che non ha più nulla a che fare con i “vertici” dei partiti
novecenteschi e nemmeno con il signore delle televizioni, Berlusconi, che si
trasformò subito in un “leader” politico, nel “capo del governo”. Grillo non si
è nemmeno candidato al parlamento: resta a galleggiare in una sorta di “cloud”,
di nuvola informatica, e per certi versi ricorda il ruolo di un profeta
para-religioso. Ma, in ogni modo, non contraddice, nello stile della
comunicazione, la convenzione della democrazia diretta. dentro il movimento e
come soluzione per tutta la società.
Un accurato dosaggio
dei contenuti da proporre – odio per i partiti e azzeramento dei loro privilegi
sì, diritti dei migranti e diritti civili per i gay no – ha infine aggregato
elettori di molte tendenze: secondo l’analisi dei flussi elettorali, un terzo
degli elettori dei 5 Stelle proviene dalla destra, un terzo dal centrosinistra,
un terzo dal non voto, il resto dalla Lega e da varie e più piccole fonti.
Il successo funziona
da collante molto efficace: pur essendo evidenti le contraddizioni, per un
lungo periodo tutte queste cose riusciranno probabilmente a convivere senza
problemi. Ma, appunto, il comportamento elettorale non esaurisce l’esistenza
delle persone. Chi fa parte di un movimento come quello dei No Tav valsusini,
ed ha votato per Grillo, non è perciò un “grillino” e, salvo eccezioni, resta
principalmente un No Tav. Capitò lo stesso quando nel 2006 la “sinistra
radicale” ottenne, nella bassa Valle di Susa, il 40 per cento dei voti (i 5
Stelle hanno avuto il 38), e non per questo tutti i No Tav erano diventati
comunisti o verdi. E resta naturalmente il problema principale: lo Stato. Ossia
la possibilità effettiva di “cambiare le cose” entrando nelle istituzioni,
specie quelle nazionali.
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Con tutta probabilità
il movimento di Grillo, i suoi parlamentari, faranno fallire ogni tentativo di
formare un governo, sulla base della premessa “noi non facciamo alleanze,
votiamo solo le leggi coerenti con il nostro programma”. Ma è evidente che se
non esiste un governo non si può votare alcuna legge. Avendo il coltello dalla
parte del manico i 5 Stelle avrebbero gioco facile – e ragionevole –
nell’imporre al centrosinistra una serie di provvedimenti. Potrebbero insomma
replicare, alla proposta degli “otto punti” di Bersani, con i loro punti, ad
esempio la riduzione dei costi e la moralità della politica, l’energia pulita e
l’acqua pubblica (la cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia no,
perché questo farebbe insorgere una parte del loro elettorato). Invece
punteranno su nuove elezioni e su un ulteriore aumento dei loro voti, cioè
sulla distruzione del sistema politico attuale.
Ma questo non fornisce
una risposta alla domanda: a che serve entrare in parlamento? Si possono
davvero cambiare el cose, da lì? In altre parole, la straordinaria faglia
orizzontale, che in Italia non si è mai davvero saldata, tra la società e lo
Stato, e che oggi è diventata una voragine, tale resta nonostante l’irruzione
elettorale della potenza sociale accumulata in anni di movimenti. Lo Stato
nazionale, già debole storicamente, già screditato dalla corruzione dilagante
degli ultimi decenni, è oggi svuotato dalla globalizzazione, dal potere dei
mercati finanziari e da quella forma “locale” di obbedienza ai mercati che è
l’integrazione europea modellata dalla Germania. Così che accade – allo stesso
tempo e da parte spesso delle stesse persone – che si cerchi di far saltare il
banco del sistema politico votando per i 5 Stelle e si ricerchino forme di
democrazia diretta, allo scopo di salvaguardare e autogovernare i beni comuni,
ritrovando la storia municipale locale che in Italia, sebbene umiliata dalla
“modernità”, è sempre rimasta viva, e insieme guardando a movimenti globali
come quello per l’acqua, quello dei contadini a difesa della terra, quello
contro le grandi opere (e i No Tav hanno tessuto alleanze in diversi paesi
europei) e in generale contro la “crescita”, e così via.
Il fatto interessante
è che al contrario i 5 Stelle sono sostanzialmente un movimento nazionale, benché spesso abbiano basi locali nei
movimenti nati per altri scopi: il loro programma ignora l’autonomia municipale
nonché l’orizzonte globale, anche se si citano l’”austerità” e il “fiscal
compact”.
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Per spiegarlo aux enfants che vedono solo le facce della commedia
dell’arte, nella vicenda italiana, il nostro è il paese che, nel bene e nel
male, si è avventurato più lontano sul terreno sconosciuto e pericoloso, e
chissà promettente, che si trova dopo quel pilastro della modernità occidentale che
è lo Stato nazionale.
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