21 marzo 2013

LA CULTURA NELLA SOCIETA' CONTEMPORANEA






 Fabrizio Federici - La nostra distopia culturale

La presenza della cultura nel discorso pubblico non è mai stata così ricorrente e, direi, ossessiva come negli ultimi anni, e nel contempo così povera di contenuti: si fa un gran parlare di cultura – generalmente intesa, in maniera del tutto inaudita e fuorviante, come ancilla della crescita economica – senza sviluppare una seria riflessione su cosa sia in realtà e senza interrogarsi su quanto di quel che viene spacciato per culturale sia effettivamente tale; e sposando di solito una concezione che la vede più come ornamento che come coscienza critica dell’epoca in cui viviamo.
L’attenzione si è focalizzata soprattutto sul patrimonio culturale, e in particolare storico-artistico, che della cultura costituisce una parte importante, pur – ovviamente – non esaurendola (anche se spesso si ha l’impressione che patrimonio e cultura coincidano). Questo sguardo retrospettivo non sorprende: la storia offre numerosi esempi di comunità che, in momenti difficili, riflettono sul loro passato, abbandonandosi al rimpianto o ricercandovi stimoli al riscatto. Sorprende piuttosto la piega che tale riflessione ha preso nell’Italia dell’inizio del XXI secolo.
Le varie posizioni emerse possono essere ricondotte, semplificando molto, a due diverse concezioni, o meglio retoriche, del patrimonio culturale, che al di là di evidenti differenze rivelano significativi punti di contatto. Vi è innanzitutto la linea di pensiero economicista: i beni archeologici e storico-artistici costituiscono la vera e sola ricchezza (economica) del Belpaese e il loro sfruttamento (come target da fornire al turismo di massa) rappresenta l’unica strada per far uscire la Penisola dalla stagnazione e per assicurare a tutti prosperità e benessere. Questa prospettiva ha riscosso e continua a riscuotere un successo spettacolare, al punto da potersi configurare come una delle epifanie più riuscite del “pensiero unico”; le sue parole d’ordine – a cominciare dalla metafora di dubbio gusto del petrolio – sono ripetute come mantra a vari livelli, dalle redazioni dei giornali ai bar e alle strade, in cui donne e uomini sempre più immiseriti sperano che questo ennesimo miraggio possa assicurare la salvezza a loro o ai loro figli.
Benché non ci sia certo da dolersi della creazione di nuovi posti di lavoro nel campo della tutela e della promozione del patrimonio, i rischi che presenta la vulgata neoliberista sono evidenti: si propina una visione distorta della cultura, non più strumento, e al tempo stesso conseguenza, della crescita spirituale e della coscienza di sé, ma mera risorsa al servizio dello sviluppo economico; si condanna l’Italia a smentire la propria storia, negandole quel ruolo di propulsione e innovazione che ha spesso ricoperto e costringendola a campare di rendita, nella veste ben poco attraente di immenso parco giochi per turisti.
La retorica che si contrappone a questa è per molti versi assai più nobile, non proponendosi come fine l’estrazione di valore (monetizzabile) dal patrimonio storico-artistico; e tuttavia presenta diversi aspetti problematici. Si tratta della retorica identitaria: dobbiamo rispettare, ammirare ed amare le venerande basiliche, gli imponenti palazzi ed i cicli di affreschi perché noi discendiamo da lì, perché quella è la nostra identità, siamo quelle basiliche e quegli affreschi. A parte il fatto che parlare di identità collettive è sempre rischioso (si veda ora M. Bettini, Contro le radici, Bologna, il Mulino 2012) e che sempre meno è possibile parlarne in una società multietnica e multiculturale come la nostra, viene spontaneo chiedersi se tale assunto corrisponda interamente al vero. Siamo sicuri che le vicende più remote e le tracce materiali che hanno lasciato diano forma al nostro modo di essere e di pensare più di quanto non facciano avvenimenti tanto più recenti, quali possono essere la sconfitta in una guerra mondiale e la conseguente americanizzazione, il trionfo della società consumistica, l’affermarsi della televisione?
E soprattutto: è corretto sottolineare, come avviene in una prospettiva identitaria, la nostra continuità rispetto al passato e al patrimonio che ne è espressione, e mettere tra parentesi l’irriducibile alterità che è invece propria di tali testimonianze? Alterità che è indubitabile: non solo perché, man mano che passano i decenni e poi i secoli, tutto diventa necessariamente altro da ciò che lo segue; ma soprattutto perché la nostra età prende le mosse da una frattura epocale, equiparabile a poche altre che hanno segnato punti di svolta nella storia umana degli ultimi due millenni (la fine dell’età antica, il Rinascimento). Grandi avvenimenti e correnti di pensiero hanno prodotto, tra la fine del XVIII ed il XX secolo, una serie di fenomeni (la secolarizzazione, l’affermazione della democrazia, le radicali trasformazioni nel mondo del lavoro) che hanno conferito alla realtà un aspetto completamente diverso da quello che esso aveva in precedenza. Di conseguenza anche il rapporto che quest’epoca nuova intrattiene con l’eredità di quelle anteriori è, o dovrebbe essere, diverso, non più giocato unicamente su un’idea di continuità, ma più articolato.
Così è stato nel caso delle altre grandi svolte, e si è trattato di rapporti conflittuali, ma fruttuosi: il Medioevo cristiano aveva ben chiara la sua totale contrapposizione all’età che l’aveva preceduto, e la marcò a colpi di idoli distrutti; eppure non si fece scrupoli ad incastonare gemme di dei e imperatori nei suoi reliquiari, e non esitò a trascrivere pazientemente quelle opere classiche che si potevano recuperare all’interno di una visione cristiana del mondo. Il Rinascimento prese le distanze da buona parte della cultura che era stata prodotta nei ‘secoli bui’, rivendicando piuttosto un forte legame di continuità con l’antichità classica: le pareti dei palazzi nobiliari furono ricoperte di affreschi in cui riprendevano vita le statue antiche; i più fanatici tra gli ammiratori della classicità non esitarono a vestirsi e a comportasi come i loro idoli greci e romani.
Il rapporto con l’antico fu tuttavia ben più complesso, la sua alterità non passò mai in secondo piano ed anzi, con lo sviluppo degli studi antiquari nel corso del XVI-XVII secolo, essa emerse con sempre maggiore evidenza e complessità: e avere, per così dire, l’altro in casa fu un fenomeno della massima importanza, che ha educato l’Europeo a quella curiosità per il diverso che ebbe modo di dispiegarsi appieno nei contatti con le popolazioni degli altri continenti, come ha puntualizzato Claude Lévi-Strauss in un suo breve scritto (Les trois humanismes (1956), in Anthropologie structurale deux, Paris 1973; cfr. S. Settis, Futuro del ‘classico’, Torino, Einaudi 2004).
Il rapporto che noi intratteniamo con le testimonianze del passato, invece, sembra mancare, il più delle volte, di questa complessità ed essere appiattito, in nome della continuità, su una visione banalizzante ed edulcorata, nonché rassicurante, dell’eredità dei secoli che ci hanno preceduto. Tralasciamo volentieri un aspetto di una certe importanza: i beni culturali sono solitamente portatori non solo di valori che hanno una valenza universale, ma anche di valori storicamente ben radicati nella loro epoca, che sono altri dai nostri, anzi in molti casi opposti a quelli propri della modernità (intesa come aspirazione, più che come realtà compiuta). La grande basilica è una parte di noi e del nostro immaginario, almeno quanto è espressione del culto di un Dio unico e di una religione oppressiva, che non trovano più spazio in una società in cui di Dio non ce n’è più nemmeno uno, oppure – a causa delle migrazioni – ce ne sono molti. La sontuosa dimora nobiliare è sì la manifestazione di un gusto raffinato e di una sopraffina joie de vivre, ma anche il prodotto di una strutturazione della società che non potrebbe essere più lontana dalla nostra, che promuove (almeno in teoria…) l’uguaglianza e la mobilità sociale. Occorre tenere presenti questi aspetti, se si vuole avere una maggiore consapevolezza del passato e non abbandonarsi alla nostalgia per bei tempi andati, che forse tanto belli non erano.
Come si vede, le due retoriche partono da presupposti molto diversi; e diversi e ben individuabili sono gli schieramenti che le sostengono, visto che, in genere, la posizione economicista è appannaggio dei privati (singoli, associazioni, imprese) e di chi sostiene, se non la privatizzazione dei beni culturali, almeno la massiccia immissione di capitali privati nella gestione del patrimonio, dal momento che lo Stato non sa o non vuole far fruttare le bellezze patrie; mentre la posizione identitaria è sostenuta soprattutto da chi opera all’interno di istituzioni pubbliche e si batte perché la gestione della cultura resti del tutto o in buona misura in mani pubbliche. Negli esiti, tuttavia, tali inconciliabili punti di vista finiscono per assomigliarsi: simile è, infatti, la visione del passato cui conducono, una visione poco o per nulla critica, nostalgica, da cartolina, e quindi non sempre rispondente al vero. Da un lato, nell’ottica valorizzatrice, il passato e le sue tracce diventano un prodotto da piazzare, e come ogni prodotto devono apparire scintillanti e non problematici, e soddisfare i bisogni (indotti) dei clienti.
Il nostro patrimonio culturale, ridotto a branca del made in Italy, è il migliore del mondo, il più bello, il più vasto, il più competitivo; poco importa che fare classifiche in questo ambito sia un’operazione palesemente illogica. Il carattere promozionale emerge particolarmente bene nelle mostre d’arte antica, ormai principale e quasi unico strumento attraverso il quale la cultura visiva del passato viene veicolata dall’alto verso il basso, dai gran sacerdoti alle masse adoranti: salvo rarissime eccezioni la mostra, prodotto summa di altri prodotti che sono le opere e gli artisti, rivendica la sua natura di panoramica completa (quel che non si può esporre non esiste, o è di poco conto) su epoche invariabilmente “auree”, su artisti che sono sempre “protagonisti” del loro tempo, con opere cui facilmente si affibbia l’etichetta di capolavori. Il visitatore deve uscire appagato e sicuro di avere speso bene i soldi del biglietto.
Sull’altro fronte, la sottolineatura della continuità e la depurazione da ciò che può urtare conducono ad un risultato non dissimile. Prendiamo ad esempio certi interventi pubblici in cui Roberto Benigni ha recentemente ripercorso la storia d’Italia, esaltandone i momenti più gloriosi. Il grande attore lo ha fatto da par suo, e con le migliori intenzioni: è tuttavia corretto presentare la nostra storia come un’ininterrotta catena di fulgidi episodi, tralasciando i molti fenomeni negativi che hanno visto la luce al di qua delle Alpi (il fascismo, tanto per citarne uno)? Non è un modo per lavarsi la coscienza, quando invece mai come oggi avremmo bisogno di un serio esame interiore? E anche come sprone alla riscossa, non rischia di sortire l’effetto contrario, avvilendoci ancor di più quando dalle glorie di un passato gremito di Michelangeli e Galilei ci volgiamo a contemplare un paesaggio contemporaneo popolato dai Briatore e dai Dell’Utri?
Una visione semplicistica e nostalgica del passato, dunque, non è sufficiente. Ma che fare, una volta rivalutata la forte componente di alterità che caratterizza il patrimonio? Occorre prendere a martellate Madonne e stemmi nobiliari? No. Occorre, innanzitutto, rapportarsi in maniera più articolata e cosciente all’eredità del passato (assunta e discussa nella sua interezza, senza operare selezioni di comodo), con un atteggiamento non dissimile da quello che gli uomini del Rinascimento e dell’Età Moderna ebbero nei confronti dell’Antichità, sentita come idealmente vicina, ma comunque altra. Il godimento estetico non deve andare disgiunto da una profonda consapevolezza storica; all’apprezzamento per quei valori umanistici e universali di cui il patrimonio è portatore (l’aspirazione alla bellezza; l’armonia con la natura; la fatica; la perfezione esecutiva; la personalità creatrice, quando sia presente e riconoscibile) si deve abbinare la riflessione su quegli aspetti storici e sociali lontani dalla sensibilità attuale, che hanno condizionato la creazione artistica.
Bisogna inoltre rendere contemporaneo ciò che contemporaneo non è, risignificandolo o meglio aggiungendo ai significati che già ha altri significati, in dialogo con quelli più antichi. Ma la contemporaneità non si innesta sulle preesistenze a colpi di stravolgimenti: anziché pensare a sfregiare la skyline veneziana con il faraonico Palais Lumière, in altre parole, bisognerebbe preoccuparsi di far diventare (ovvero far tornare) Venezia una città viva, carica di memorie ma ‘al passo con i tempi’, che non muore – come fa ora – a ogni calar del sole per risorgere, nel ruolo di mera scenografia, il mattino seguente. Occorre insomma popolare il patrimonio di ‘contemporanei’; e per far questo un suo reale uso, che vada ben al di là di funzioni istituzionali, museali o espositive, si rivela un passaggio obbligato. La sfida è quella di demonumentalizzare i monumenti, reinserendoli nel tessuto vivo della società; una sfida che guarda al futuro, ma con un occhio al passato (il plurisecolare riuso delle rovine antiche); e senza naturalmente dimenticare le ragioni e le esigenze della tutela. L’obiettivo è quello di ribaltare la percezione ormai generalizzata di un’Italia giunta al termine della sua storia, incapace di pensarsi se non come passiva depositaria di un passato di inarrivabile perfezione, da sfruttare economicamente o da venerare con sguardo trasognato: al contrario il nostro Paese, sorretto da un rapporto dialettico e maturo con il proprio passato, può dimostrare di far ancora parte di quell’infinita storia, ed anzi di essere in grado di aggiungervi un nuovo, inedito capitolo.



Questo articolo è stato pubblicato sul numero 26, febbraio 2013, di “alfabeta2”, all’interno del nodo La nostra distopia culturale.

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