11 marzo 2013

L' ARTE TRA FOLLIA E GENIALITA'




Sostenevano i surrealisti che l'arte è la porta sull'altro lato della realtà. Una mostra appena inaugurata a Ravenna ci ricorda che questa porta può essere una via di uscita da un presente vissuto come insostenibile.. 

Fabrizio D'Amico - Borderline. L’arte estrema che nasce ai confini della follia

La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome”. Così ragionava Jean Dubuffet nel 1949, vergando un testo, come molti suoi altri, di capitale rilievo e fascino: “L’arte bruta preferita alle arti culturali”, con il quale presentò alla critica (perplessa) e al pubblico parigino (entusiasta), in un sottoscala d’una famosa galleria d’avanguardia, l’“arte dei folli” in una mostra che segna un passo decisivo verso la storia di quella che Dubuffet stesso battezzò l’“Art Brut”.

Giorgio Bedoni e Claudio Spadoni, che assieme a Gabriele Mazzotta hanno curato la mostra oggi aperta al Mar di Ravenna “Borderline. Artisti fra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat” (fino al 16 giugno, catalogo Mazzotta) – allargando molto, come si impara già dal sottotitolo della mostra, il territorio della loro analisi – ci ricordano che anche André Breton, padre e custode del surrealismo, affiancò per un tratto Dubuffet nell’attenzione posta alla produzione artistica non canonicamente espressa da chi non fosse individuato come “uomo di senno e di genio”. E, oggi esposte, le opere di Masson, Ernst, Dalí, Matta – tra gli altri – stanno a testimoniare le tangenze che lo stesso surrealismo registrò con l’art brut. Ma infine, solo di tangenze si tratta, indotte dall’impiego comune di alcuni meccanismi d’immagine, primo fra tutti l’automatismo, da parte dell’una e dell’altra poetica.

In realtà, mentre Breton continuò a considerare l’arte “dei naif, dei pazzi, dei bambini, dei medium” come una costola eventuale, se non deviante, della rivoluzione surrealista, fu solo Dubuffet a darle dignità piena e uno statuto perfettamente autonomo rispetto a quello dell’“art culturel”, che la sua devozione alle forme del passato rendeva a suo dire paragonabile a quella “del camaleonte e della scimmia”. E fu solo Dubuffet a gridarle contro, a difesa della produzione degli alienati: “chi è normale? Dov’è il vostro uomo normale? Mostratecelo! L’atto d’arte, con l’estrema tensione che implica, l’alta febbre che l’accompagna, può mai essere normale? ”



L’arte della follia ha molte volte, anche in Italia, suscitato attorno a sé interesse, ed è stata oggetto di seducenti indagini (ricordiamo solo la più recente, che fruttò una mostra ordinata da Vittorio Sgarbi a Siena): ma occorre dire che talmente ricca e diramata è la sua vicenda che, scavando nei territori di quella creazione clandestina e abusiva, non poche mostre diversissime l’una dall’altra si potrebbero su di essa immaginare. Sbilanciate indietro nella storia (fin dentro a quel medioevo mostruoso e fantastico evocato da Jurgis Baltrusaitis) ; o incentrate sul transito fra XIX e XX secolo, quando s’incrementano – fra tante resistenti superstizioni – le conoscenze scientifiche sulla malattia mentale; o infine distese sino ad un più recente passato, come sembra prediligere la mostra odierna quando propone le opere “folli” di Baj, di Arnulf Rainer, di Basquiat o del tardo Moreni; o, più ragionevolmente, taluni esempi recenti di arte nata ai margini della cultura ufficiale (come quello di Gaston Teuscher), e perciò entrati a far parte della più importante collezione mondiale d’art brut, nata a Losanna per volontà di Dubuffet.

Ma è comunque attorno alla gigantesca personalità del suo propugnatore, e in particolare negli anni d’immediato dopoguerra e nel successivo decennio, che si concentrano gli episodi di più autentica vicinanza fra l’arte ufficiale e quella della devianza, nata nell’isolamento di un ricovero coatto: con le opere stesse di Dubuffet (‘Arabe en prière’, ‘Arabe au palmier’, entrambe del 1948), di Wols, di Brauner. Negli stessi anni si ricoverano alcuni degli esempi più tipici di questa infanzia della pittura, nata per avventura o per miracolo nel recinto chiuso di un manicomio, di una prigione: da quelli più noti, come è il caso di Aloïse Corbaz e delle sue carte cucite l’una all’altra, ricolme di coloratissimi episodi, di curve aggraziate e di rosse labbra che paiono pronte al bacio; carte gioiose e sensuali, come quelle d’un Matisse d’anni Trenta, non fosse per quegli occhi sempre ciechi che imbambolano le loro figure. Di qui fino alle personalità meno note, come quella di Pietro Ghizzardi. E fino all’immancabile caso di Ligabue, cui è destinata una sala. Scriveva Gabriella Drudi che “i bruts lavorano nel buio, non nel festoso raffigurare dei naifs”: pure, appare non ridondante la presenza di Ligabue in questa mostra, intesa a cercare un bilico fra la luce della ragione e il turbamento dell’animo.

(Da: La Repubblica del 10 marzo 2013)




1 commento:

  1. La mente umana è un mistero meraviglioso, un capolavoro creativo in grado di trasportarci sia sulle vette della gioia che nei recessi della disperazione.
    Paolo Morale

    RispondiElimina