Sostenevano
i surrealisti che l'arte è la porta sull'altro lato della realtà. Una mostra
appena inaugurata a Ravenna ci ricorda che questa porta può essere una via di
uscita da un presente vissuto come insostenibile..
Fabrizio
D'Amico - Borderline. L’arte estrema che nasce ai confini della follia
La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome”. Così ragionava Jean Dubuffet nel 1949, vergando un testo, come molti suoi altri, di capitale rilievo e fascino: “L’arte bruta preferita alle arti culturali”, con il quale presentò alla critica (perplessa) e al pubblico parigino (entusiasta), in un sottoscala d’una famosa galleria d’avanguardia, l’“arte dei folli” in una mostra che segna un passo decisivo verso la storia di quella che Dubuffet stesso battezzò l’“Art Brut”.
Giorgio
Bedoni e Claudio Spadoni, che assieme a Gabriele Mazzotta hanno curato la
mostra oggi aperta al Mar di Ravenna “Borderline. Artisti fra normalità e
follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat” (fino al 16 giugno, catalogo
Mazzotta) – allargando molto, come si impara già dal sottotitolo della mostra,
il territorio della loro analisi – ci ricordano che anche André Breton, padre e
custode del surrealismo, affiancò per un tratto Dubuffet nell’attenzione posta
alla produzione artistica non canonicamente espressa da chi non fosse
individuato come “uomo di senno e di genio”. E, oggi esposte, le opere di
Masson, Ernst, Dalí, Matta – tra gli altri – stanno a testimoniare le tangenze
che lo stesso surrealismo registrò con l’art brut. Ma infine, solo di tangenze
si tratta, indotte dall’impiego comune di alcuni meccanismi d’immagine, primo
fra tutti l’automatismo, da parte dell’una e dell’altra poetica.
In realtà,
mentre Breton continuò a considerare l’arte “dei naif, dei pazzi, dei bambini,
dei medium” come una costola eventuale, se non deviante, della rivoluzione
surrealista, fu solo Dubuffet a darle dignità piena e uno statuto perfettamente
autonomo rispetto a quello dell’“art culturel”, che la sua devozione alle forme
del passato rendeva a suo dire paragonabile a quella “del camaleonte e della
scimmia”. E fu solo Dubuffet a gridarle contro, a difesa della produzione degli
alienati: “chi è normale? Dov’è il vostro uomo normale? Mostratecelo! L’atto
d’arte, con l’estrema tensione che implica, l’alta febbre che l’accompagna, può
mai essere normale? ”
L’arte della
follia ha molte volte, anche in Italia, suscitato attorno a sé interesse, ed è
stata oggetto di seducenti indagini (ricordiamo solo la più recente, che fruttò
una mostra ordinata da Vittorio Sgarbi a Siena): ma occorre dire che talmente
ricca e diramata è la sua vicenda che, scavando nei territori di quella
creazione clandestina e abusiva, non poche mostre diversissime l’una dall’altra
si potrebbero su di essa immaginare. Sbilanciate indietro nella storia (fin
dentro a quel medioevo mostruoso e fantastico evocato da Jurgis Baltrusaitis) ;
o incentrate sul transito fra XIX e XX secolo, quando s’incrementano – fra
tante resistenti superstizioni – le conoscenze scientifiche sulla malattia
mentale; o infine distese sino ad un più recente passato, come sembra
prediligere la mostra odierna quando propone le opere “folli” di Baj, di Arnulf
Rainer, di Basquiat o del tardo Moreni; o, più ragionevolmente, taluni esempi
recenti di arte nata ai margini della cultura ufficiale (come quello di Gaston
Teuscher), e perciò entrati a far parte della più importante collezione
mondiale d’art brut, nata a Losanna per volontà di Dubuffet.
Ma è
comunque attorno alla gigantesca personalità del suo propugnatore, e in
particolare negli anni d’immediato dopoguerra e nel successivo decennio, che si
concentrano gli episodi di più autentica vicinanza fra l’arte ufficiale e
quella della devianza, nata nell’isolamento di un ricovero coatto: con le opere
stesse di Dubuffet (‘Arabe en prière’, ‘Arabe au palmier’, entrambe del 1948),
di Wols, di Brauner. Negli stessi anni si ricoverano alcuni degli esempi più
tipici di questa infanzia della pittura, nata per avventura o per miracolo nel
recinto chiuso di un manicomio, di una prigione: da quelli più noti, come è il
caso di Aloïse Corbaz e delle sue carte cucite l’una all’altra, ricolme di
coloratissimi episodi, di curve aggraziate e di rosse labbra che paiono pronte
al bacio; carte gioiose e sensuali, come quelle d’un Matisse d’anni Trenta, non
fosse per quegli occhi sempre ciechi che imbambolano le loro figure. Di qui
fino alle personalità meno note, come quella di Pietro Ghizzardi. E fino
all’immancabile caso di Ligabue, cui è destinata una sala. Scriveva Gabriella
Drudi che “i bruts lavorano nel buio, non nel festoso raffigurare dei naifs”:
pure, appare non ridondante la presenza di Ligabue in questa mostra, intesa a
cercare un bilico fra la luce della ragione e il turbamento dell’animo.
(Da: La
Repubblica del 10 marzo 2013)
La mente umana è un mistero meraviglioso, un capolavoro creativo in grado di trasportarci sia sulle vette della gioia che nei recessi della disperazione.
RispondiEliminaPaolo Morale