Il film Gli
uccelli (1963) di Hitchcock, descrive l’angoscia che paralizza una
tranquilla cittadina sconvolta da una minaccia incombente dal cielo. Hitchcock prefigurava,
nel pieno del boom, un Occidente avvitato sulle sue inconscie paure.
Oggi il
film sembra più attuale che mai, per le
paure e le incertezze che caratterizzano il nostro tempo. Ecco perché, qualche
settimana fa, il giornale La
Repubblica vi ha dedicato due articoli che riproponiamo:
Mario
Serenellini - La Paura che venne dal cielo 1963/2013.
"Ma lei
mangia come un uccellino!». Già speculare in Psycho, dove «l' uccellino»
rivelerà la sua rapacità nella scena della doccia, il paragone di garbo davanti
ai sandwich anemici dell' impacciato Norman Bates (Anthony Perkins) trionfa in
tutto il suo humor macabro, se riascoltato alla luce del film successivo di
Alfred Hitchcock, Gli uccelli, che capovolge di colpo il menu: il volatile che
mangia come l' uomo. Anzi, mangia l' uomo. Passerotti, gabbiani, corvi,
tortore, cornacchie, lovebirds ("inseparabili" in italiano): ali,
becchi, artigli, un' altra metà del cielo improvvisamente minacciosa, scatenata
su un' umanità rimpicciolita, vista dall' alto, in fuga. Quasi un riscatto, la
resurrezione vendicativa degli uccelli, impagliati o riprodotti in stampe
ossessive in ogni angolo del motel di Psycho.
Contro ogni
previsione dello stesso Hitchcock, che nel 1960 ancora non pensava al film
successivo: Gli uccelli uscirà nel 1963, dopo sei mesi di riprese (di cui tre
per i dieci secondi finali) e un anno di postproduzione, e qui l' ornitologia
maniacale e la pulsione assassina dell' implume Bates sarebbero diventate
incubo seriale. Gli uccelli, moltiplicazione a catena d' un innocente, ma non
innocuo, automatismo omicida, ampliano su un' intera comunità la deviata
aggressività domestica di Psycho. Quante docce? Gli scolaretti in corsa sotto
la pioggia di becchi stizziti nell' incalzante "sequenza dei corvi",
la nube voracemente distruttiva che piomba sulla cittadina in relax e,
soprattutto, nel granaio, l' assalto sadicamente «maschio» dello stormo
accanito sul corpo di Tippi Hedren, algida bionda di turno: è la furia di cento
coltellate, metafora, ancor più chiara che in Psycho, dello stupro, reso
esplicito da Hitchcock nel film di dieci anni dopo, Frenzy, dove alla vittima
finita in un "contorno" di patate fa da piano alternato l' ispettore
che inforchetta una quaglia all' uvetta, eco sardonica dell' incrocio
uccidere-fagocitare, delitto-banchetto.
Per il bis
pennuto della doccia, trentadue inquadrature diverse (meno della metà di
Psycho: settantadue), ma altrettanti giorni di lavorazione (sette) per una
sequenza di poco meno d' un minuto che diventerà anch'essa un cult.E analogo
ricorsoa una controfigura, stavolta per collasso nervoso dell' attrice,
ricoverata in ospedale con un occhio pesto e contusioni varie. Perché gli
uccelli meccanici inizialmente previsti (costati duecentomila dollari sui due
milioni e mezzo del budget totale) furono scartati dal regista che preferì
ricorrere agli originali, pazientemente attaccati con fili (quasi) invisibili
dalla costumista Rita Riggs al tailleur della Hedren. Gli uccelli, insomma,
sono stati il vero problema de Gli uccelli.
Per tentare
di addomesticare almeno parte d' un esercito di migliaia di volatili d' ogni
specie, catturati con grandi difficoltà tra gli scarichi di Bodega Bay, fu
impiegata un' équipe al comando di Ray Berwick, addetta poi a nutrirli e
curarli fino all' ultimo ciak. Tra i trucchi più ingegnosi per trasformarli in
diligenti interpreti, le mini-calamite attaccate da Robert Boyle alle zampe
delle cornacchie perché si allineassero in buon ordine su una grondaia prima
dell' attacco mortale: con il risultato che, nel tentativo di volar via, i
pennuti ruotarono in avanti, restando appiccicati a testa in giù in bella fila,
spiedino pendulo.
Più
pragmatico, Hitchcock adotta soluzioni elementari, basate sulla semplice
illusione ottica, mescolando silhouette piatte ai corvi veri o posticci: «Lo
spettatore non può accorgersene, perché l' occhio capta prima di tutto il
movimento: vede uccelli vivi e inconsciamente gli pare che lo siano tutti». Per
gli effetti speciali più complessi, ricorre invece al falso più dichiarato: il
disegno animato con tutte le tecniche del momento (rotoscopio, vapore di sodio
e pittura di sfondi). Suo complice è il veterano Ub Iwerks, antico papà, con
Walt Disney, di Topolino, che nei numerosi piani d' attacco incorpora tra gli
uccelli le sagome animate, meritandosi per gli effetti visivi l' unica
nomination agli Oscar, soffiatogli da Emil Kosa jr. per Cleopatra.
In una
recensione mingherlina dopo l' anteprima mondiale a Cannes 1963 - evocata ora
dalla Cinémathèque Française che celebra i cent' anni degli Universal Studios -
François Truffaut definisce Gli uccelli un «film d' effetti speciali ma
realistici» (371 piani sui 1400 del film, un record allora, anche per il budget
a disposizione) e promuove il regista, d' affermata maestria, «atleta completo
del cinema». Atletismo non solo ottico ma anche sonoro. L' autore ottiene
finalmente quel che non gli era riuscito in Psycho: evitare l' obbligo della
musica e sfruttare le valenze emotive del suono, per accrescere nello
spettatore un senso di malessere. Con i compositori Remi Gassmann, Bernard
Herrmann (qui solo supervisore) e Oskar Sala, che aveva perfezionato il
Trautonium, sintetizzatore dei suoni naturali, il regista innesta strida d'
uccelli alterate elettronicamente proprio quando ci si attenderebbe la musica.
Risultato:
picchi di suspense e d' angoscia. Perché, spiega Hitchcock, «per rendere al
meglio un suono, occorre immaginarne il dialogo equivalente. E nel granaio, che
cosa direbbero gli uccelli alla donna? "Ora lei è nostra. E noi le stiamo
addosso. Non abbiamo bisogno di lanciar grida di trionfo né di cedere all' ira:
commetteremo un assassinio silenzioso"». Come dire: «Me la mangio come un
uccellino».
Umberto
Galimberti - L’angoscia primordiale
dell’imprevedibile
A differenza di quanto comunemente si crede, Gli uccelli di Hitchcock non è un film che vuole impressionare il pubblico gettandolo in uno stato di panico. Piuttosto vuol raccontare l’angoscia più primitiva, più primordiale, da cui l’umanità non ha ancora cessato di difendersi: l’angoscia dell’imprevedibile.
Per difendersi dall’imprevedibile l’umanità ha sempre cercato una causa che consentisse di prevedere l’effetto, e quando questa causa non era reperibile in natura, la cercava in una colpa individuale o collettiva, a cui ricondurre la punizione che si abbatteva sul singolo o sulla comunità. Non a caso gli antichi Greci chiamavano la “causa” e la “colpa” con la stessa parola: aitía.
Nel film di Hitchcock non c’è una ragione per cui stormi di uccelli impazziti si abbattano sugli abitanti di un piccolo borgo a sud di San Francisco, non c’è una colpa che giustifichi questa punizione, non c’è un rimedio che consenta di mettersi in salvo dalla comparsa improvvisa degli uccelli che, nel loro volo precipitoso e disorientato, non consentono ad alcuno di difendersi. Ecco l’angoscia primordiale, l’angoscia dell’imprevedibile, a cui gli uomini hanno cercato di porre rimedio abitando progressivamente il paesaggio della ragione, che ha tra i suoi cardini portanti il principio di causalità. Quando si conosce la causa, l’effetto è prevedibile e la sua comparsa non inquieta. Ma soprattutto, quando si conosce la causa è anche possibile trovare il rimedio e salvarsi dal pericolo.
Oggi l’umanità ha raggiunto un livello di razionalità che non ha confronto con le epoche precedenti e, grazie a questa razionalità, ha trovato rimedi a molti mali. Ma l’imprevedibile è sempre minacciosamente alle porte. E qui non penso alla Terra che improvvisamente trema causando sciagure a uomini e case, o agli tsunami che senza preavviso inondano cancellando ogni traccia del paesaggio e di chi lo abitava. Penso piuttosto a quell’imprevedibile che non dipende da un deficit di conoscenza come agli albori dell’umanità, ma da un eccesso di conoscenza che crea, con l’insieme dei suoi macchinari, un mondo a tal punto artificiale da compromettere irrimediabilmente il mondo naturale o, come oggi si dice l’ecosistema, per cui a perdere l’orientamento non sono solo gli uccelli, ma tutte le specie, compresa quella degli umani.
Forse questo è il motivo che percorre l’intero film di Hitchcock, se è vero che uno dei personaggi a un certo punto dice: «È la razza umana che rende difficile la vita sulla Terra». E questo non solo agli uomini, ma anche agli altri abitanti della Terra, di cui la cultura antropocentrica, ormai diffusa in tutto il mondo, ha smesso di prendersi cura, fino a perderne quasi la memoria. Se questo è il pericolo, si capisce perché Hitchcock, al termine del suo film, a differenza degli altri da lui diretti, non metta la parola “Fine”.
(Da: La
Repubblica del 27 gennaio 2013)
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