Aldo Giannuli - SULLO SCONTRO CASELLI – GRASSO
L’acceso scontro fra Travaglio e Grasso, che poi ha coinvolto Caselli, che si è rivolto al Csm, fa venire allo scoperto molti nervi assai sensibili sul come si è fatta la lotta alla Mafia in questi venti anni. Forse Marco Travaglio è stato troppo tagliente, ma alcune cose non sono controvertibili, come l’apprezzamento (francamente increscioso) che Grasso fece al Governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. Imbarazzante. Fra gli inquirenti anti mafia si sono formati, già dalla metà anni settanta, due partiti sempre più acutamente contrapposti, che, convenzionalmente, potremmo definire come "antimafia radicale" e "antimafia moderata", divisi su tutto: sulla cultura della prova, sulla concezione del processo, sul giudizio stesso sulla Mafia e sul modo di rapportarsi all’opinione pubblica. L’ala radicale partiva di un giudizio della Mafia come fenomeno sociale e politico complessivo, appartenente a un filone di pensiero che partiva da Michele Pantaleone e si era poi sfaccettato nelle opere di Filippo Gaja, di Umberto Santino, Peppino Cassarrubea, Nando Dalla Chiesa ecc. (per citare solo i primi che mi vengono in mente). Questa analisi postulava la centralità della battaglia politico sociale includendo in essa lo strumento penale che, però non era né esclusivo né prioritario su tutti gli altri. Nel tempo, tuttavia, il processo diventava la punta di lancia del movimento, la “locomotiva” che doveva aprire la strada.
Di conseguenza, al magistrato (soprattutto inquirente) spettava il ruolo di figura trainante di una rivoluzione civile che avrebbe abbattuto la mafia e la polemica di Sciascia sui “professionisti” dell’antimafia va capita in questo quadro.
L’antimafia
“moderata” muoveva, al contrario dalla centralità e dalla separatezza del
processo penale: la Mafia sarebbe stata colpita con lo strumento giudiziario
che doveva restare indipendente dal movimento della società civile e dalle
eventuali misure di ordine politico e sociale che esso avesse eventualmente
prodotto. Ne derivavano due diverse prospettive della funzione del
processo e della formazione della prova.
Non
è qui il caso di entrare nel merito, cosa che chiederebbe ben più di un
articolo, ma capire cosa deriva da questi differenti approcci. Ne è
scaturita una guerra interna alimentata anche dalla gara per la conquista
delle posizioni apicali (Procuratore capo, Procuratore Generale e, più di
tutto, capo della Procura Nazionale Antimafia) dove si decidono gli indirizzi
dell’azione giudiziaria. Nel 2005 occorreva rinnovare la nomina a capo della
Pna ed i pronostici erano univocamente orientati a favore di Giancarlo Caselli
che era stato il Procuratore Capo di Palermo sino al 1999. Candidato
particolarmente inviso alla destra, che varò alcune leggi “contra personam” per
bloccarne la candidatura ed, alla fine la nomina andò a Grasso.
Sinceramente
non credo che la destra lo abbia fatto per favorire Grasso, quanto per
escludere Caselli, il che poi è riuscito. Il guaio è che questo scontro è
stato condotto in un clima sempre più avvelenato e torbido.
A
proposito di questo ho un piccolo ricordo personale che lascio al vostro
giudizio.
Nel
settembre del 2001 ricevetti un incarico peritale dal dott. Antonio Ingroia,
relativo al caso Rostagno, per il quale dovevo vedere gli archivi della Polizia
di Prevenzione, di alcune Questure e del Sisde. Iniziai il lavoro notificando a
tutti gli enti interessati l’incarico ed iniziai a vedere qualcosa presso la
Questura di Milano. Dopo qualche settimana, comparve su “Panorama” un articolo
basato su una interrogazione presentata da Cossiga, nella quale, senza mai
nominarmi, si diceva, papale papale, che l’Ag palermitana, con il pretesto di
indagare sul caso Rostagno, aveva mandato un suo perito a rovistare negli
archivi del Sisde per cercare, in realtà, documenti sulla questione della
trattativa Stato-Mafia che aveva portato alla morte di Borsellino ed attaccare
eminenti personalità. Di vero c’era solo che lo stesso magistrato che stava
indagando su Rostagno, stava anche avviando l’inchiesta su quella trattativa,
ma si trattava di due inchieste ben separate ed io non avevo alcun incarico
nella seconda. Devo aggiungere che né il dottor Ingroia mi chiese mai di
vedere altro materiale che quello attinente al caso Rostagno o fece cenno
all’altra inchiesta, né io, nel caso, mi sarei prestato ad una cosa così
scorretta. Tutta questa parte dell’interrogazione di Cossiga (che mi ha
ripetutamente onorato di vari attacchi, dedicati al “famoso perito della
Procura di Brescia”, come amabilmente soleva dire) semplicemente era campata in
aria. Restava però da capire come il senatore avesse saputo di un incarico che,
peraltro, era coperto da segreto istruttorio. Non poteva essersi trattato che
di una fuga di notizie dall’ufficio che aveva emesso il mandato o da uno di
quelli che lo avevano ricevuto (Sisde, Dcpp, Questure). E qualcuno, forse
notando che il magistrato era lo stesso nelle due inchieste, doveva aver
suggerito a Cossiga l’idea che il mandato su Rostagno fosse solo una copertura.
Dopo
qualche giorno l’incarico fu revocato. Mi fu spiegato oralmente che l’allora
direttore del Sisde, generale Mori si era molto lamentato della cosa con il
Procuratore della Repubblica, che, appunto, era il dott. Pietro Grasso, che si
era visto costretto a convocare il dott. Ingroia e decidere la revoca.
La
cosa devo dire che mi stupì, perché Mori lo conoscevo bene sin da quando
lavoravo all’inchiesta del dott. Salvini su Piazza Fontana e lui comandava il
Ros (1996). Per di più, lo avevo incontrato proprio in settembre (quando ero
andato a vedere l’archivio Sisde su incarico dei magistrati che indagavano
sulla strage di Brescia) e non mi aveva detto nulla, né si era mostrato diverso
dal solito.
Dopo
qualche tempo (nei primi di gennaio) incontrai casualmente Mori, nei pressi del
mio albergo a Piazza del Pantheon, perché era diretto a Montecitorio; fu come
al solito cordialissimo e il discorso cadde sulla questione di quell’incarico e
il generale mi disse che, quella telefonata con la procura palermitana c’era
stata, ma a chiamare non era stato lui; la aveva ricevuta e gli si anticipava
la revoca, invitandolo a non mostrare alcun documento se fossi tornato prima
dell’atto ufficiale.
Come
siano andate esattamente le cose non lo ho mai saputo e non ho mai cercato di
saperlo, anche perché sarebbe stato inutile e contrario a quel fair play
istituzionale cui ho sempre cercato di attenermi in caso di incarichi
giudiziari o parlamentari. Pertanto lasciai cadere la questione.
So
solo che la cosa si fermò e che nel mezzo c’era stata quella interrogazione di
Cossiga. Non che la cosa abbia un grande peso o valga ancora la pena di
parlarne; la ricordo solo per dire quanto fossero tesi i rapporti all’interno
del palazzo di giustizia di Palermo e quale fosse il clima di sospetti che
regnava.
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