Alla
Galleria Nazionale d'arte moderna di Roma una mostra ripercorre in
centosettanta opere la pittura giapponese dal 1868 al 1945. Un'occasione unica
per approfondire la conoscenza di una cultura così diversa dalla nostra.
Rossella Menegazzo - La tigre divoratrice di antiche tradizioni
Centosettanta
pregiate opere di pittura giapponese (nihonga) e raffinati esemplari d'arte
decorativa in ceramica, lacca, bronzo e tessuto, sono esposti sino al 5 maggio
alla Galleria nazionale d'arte moderna per celebrare i cinquant'anni di
fondazione dell'Istituto giapponese di cultura in Roma. Fu il primo istituto
estero che il governo creò per volontà di Shigeru Yoshida, ambasciatore in
Italia negli anni trenta, primo ministro del Giappone negli anni quaranta e
cinquanta e personaggio di ampie vedute e spessore. Attualmente, la sua volontà
di far conoscere e diffondere quella che allora era una cultura ancora lontana
dall'Occidente e oggi è invece un fenomeno che desta ammirazione e curiosità,
si rinnova attraverso la collaborazione di Japan Foundation, Museo nazionale
d'arte moderna di Kyoto e Galleria nazionale d'arte moderna a Roma in questa
grande mostra nella capitale curata da Masaaki Ozaki e Ryuichi Matsubara,
direttore dello stesso museo di Kyoto. Una selezione - con una rotazione delle
opere pittoriche tra il 2 e il 4 aprile, dovuta a motivi di conservazione - che
riprende un percorso espositivo tracciato nell'ultima esposizione di questo
genere che si tenne a Palazzo Esposizioni nel 1930, ristabilendo in qualche
modo un legame storico con un avvenimento che presentava la panoramica
dell'arte giapponese del tempo e che fece da spinta propulsiva per la
creazione, appunto, di un centro di cultura giapponese a Roma.
Tre cormorani per Mussolini
Tre cormorani per Mussolini
C'è un'opera in particolare che incuriosisce e fa da ponte tra le due mostre. Si tratta di una coppia di paraventi a sei ante intitolata Costa selvaggia che fu realizzata da Hirafuku Hyakusui (1877-1933) nel 1929 e venne donata a Benito Mussolini durante la mostra del trenta, per essere poi depositata alla Pinacoteca Martinengo di Brescia. Il soggetto è costituito da pochi elementi naturali di un paesaggio marino: alcuni spuntoni di scogliera emergono in primo piano e su di essi sono appollaiati tre cormorani. L'accenno all'elemento dell'acqua, unico tocco di colore della composizione, è presente solo in un angolo del paravento sinistro come schiuma bianca di piccole onde che si infrangono; il resto è tracciato con ampie pennellate nere d'inchiostro diluito a cui vengono sovrapposte, mentre sono ancora umide, altre pennellate d'inchiostro più denso. Una tecnica utilizzata nella tradizione pittorica della scuola decorativa Rinpa dal XVII secolo per rendere i volumi e la tridimensionalità dei soggetti, mentre lo spazio rimanente dei paraventi è vuoto. Non si tratta comunque di un dipinto nostalgico di quelle tecniche, piuttosto rappresenta uno degli esempi di pittura giapponese moderna in cui le tecniche di scuole tradizionali giapponesi si fondono con elementi descrittivi e naturalistici tipicamente occidentali.
Un altro esponente della pittura nihonga di inizio Novecento e testimone diretto della mostra del trenta è Yokoyama Taikan (1868-1958). Come i paraventi di Hyakusui anche le sue opere, quattro, sono in evidenza nell'esposizione romana e non esprimono solo l'abilità e il percorso personale dell'artista, ma diventano lo specchio di un'epoca intera in cui modernizzazione era sinonimo di occidentalizzazione e la pittura giapponese si dibatteva alla ricerca di autonomia e originalità rispetto a quella occidentale. Taikan fu sperimentatore e promotore di un continuo rinnovamento in seno alla pittura tradizionale giapponese a partire dall'epoca Meiji. Raggiunse l'apice quando venne nominato Artista della Casa imperiale nel 1931e membro dell'Accademia d'arte imperiale nel 1935 dopo aver presenziato alla mostra del trenta come capo della delegazione giapponese. Un filmato visibile presso l'Istituto Luce e rivelato in occasione del Simposio d'apertura presso l'Istituto giapponese il 26 febbraio scorso, restituisce seppure in bianco e nero il sapore di quell'evento, con Yokoyama Taikan in kimono che guida Mussolini tra le opere dentro le sale espositive.
Fu, quella di allora, un'occasione per mostrare al mondo la peculiarità della pittura giapponese che Taikan con altri artisti quali Kano Hogai e Hashimoto Gaho, spronati dallo studioso americano Ernest F. Fenollosa e dal suo discepolo Okakura Kakuzo, andavano promuovendo attivamente col termine di nihonga in opposizione prima di tutto alla pittura occidentale (yoga), ma anche a quella cinese tramandata in Giappone dalla scuola nanga (ovvero pittura meridionale, che si rifaceva alla pittura cinese dei letterati). Fino a quest'epoca una tale distinzione non si era resa necessaria, mentre esisteva il termine yamatoe (pittura di yamato), sinonimo di nihonga, per distinguere la pittura giapponese classica con soggetti autoctoni e dai colori brillanti dalla karae (pittura cinese) con soggetti e tecniche legati alla tradizione cinese.
Il senso
dell'atmosfera
Guardando ai rotoli dipinti degli anni dieci di Taikan Cascata e Luna sulla riva del mare si percepisce chiaramente la ricerca di una modalità pittorica alternativa a quella occidentale, in cui la linea e la descrizione delle forme vengono abbandonate a favore di effetti coloristici e di luce che restituiscono piuttosto il senso dell'atmosfera, attraverso quello che viene chiamato lo stile indefinito, sfocato. Tuttavia, se si fa un passo avanti, guardando alle sue opere della fine degli anni venti, come il dittico di rotoli con lo stesso titolo Cascata, è evidente quanto la forza del colore e una certa nitidezza descrittiva prevalsero, riflettendo in qualche modo anche il cambiamento dei tempi: nel 1923 il grande terremoto del Kanto aveva distrutto Tokyo, l'economia mostrava segni di crisi e il nazionalismo contava sempre più su un potere militare forte che di lì a breve avrebbe condotto alla seconda guerra mondiale.
Le opere in mostra coprono l'arco di tempo di 77 anni tra la fine dello shogunato Tokugawa, che aveva governato ininterrottamente per oltre 250 anni fino al 1868, e la fine della seconda guerra mondiale nel 1945. È chiaro che queste opere sono testimoni di un panorama artistico complesso e poliedrico, in continuo mutamento, segnato dagli eventi sociali e politici. Dopo l'apertura forzata del Giappone all'Occidente a metà Ottocento, l'equilibrio ruoterà sempre più intorno all'asse dei rapporti Oriente-Occidente e le tante scuole, università, correnti, associazioni pittoriche che nacquero e si sciolsero in questi anni 77 anni mostrano le posizioni controverse e mutevoli verso il tema della modernizzazione / occidentalizzazione che caratterizzarono l'epoca.
Da una parte
si sosteneva il realismo, l'analiticità dello sguardo e la rappresentazione
secondo canoni occidentali, come si evince da opere quali I fiori del tè e
Bosco nel gelo di Omoda Seiju, o Frutta e Crisantemi di Hayami Gyoshu,
dall'altra si guardava alle proprie tradizioni. Ovvero alla pittura yamatoe di
epoca classica, riprendendone i soggetti legati alla vita e alla letteratura di
corte e i colori brillanti, come nei rotoli Racconti di un tempo che fu e Lo
stagno di Ikaho di Matsuoka Eikyu; alla scuola decorativa Rinpa del XVII
secolo, con l'utilizzo di campiture piatte di colore e oro per la resa di
soggetti dalle forme semplificate, o ancora alla tradizione del Mondo
fluttuante (ukiyoe) e in particolare ai soggetti di beltà, come nei dipinti di
Kaburaki Kiyokata e Uemura Shoen.
Ciò che è evidente, tuttavia, è l'assoluta posizione di vantaggio che ebbero le scuole tradizionali di Kyoto Maruyama-Shijo che già dal Settecento promuovevano il naturalismo e la copia dal vero, così come la tradizione di pittura dei letterati (bunjinga e nanga) che guardava alla Cina e si tramandava all'interno di circoli ristretti. I ritratti di animali di Takeuchi Seiho (1864-1942), in particolare la Tigre, sono esempi affascinanti di fusione di questi elementi. Da una parte testimoniano come il realismo occidentale potesse essere acquisito e applicato nella resa delle forme esteriori del soggetto donando potenza espressiva, pur senza intaccarne l'essenza profonda, il senso interiore che l'artista giapponese ha sempre come punto di arrivo nella pittura dei propri soggetti; dall'altra mostrano come Takeuchi sia stato un rivoluzionario, poiché promosse l'originalità individuale, in senso moderno e occidentale, all'interno di una scuola pittorica tradizionale che tramandava l'insegnamento tramite la copiatura dell'opera del maestro da parte degli allievi.
Contaminazioni estetiche
Un concetto che segnò inevitabilmente un punto di rottura col passato e la modalità asiatica di trasmissione e apprendimento dell'arte. Basti pensare al senso di scetticismo che ci pervade di fronte ad alcune opere in mostra, in cui la ricerca di un realismo analitico in senso occidentale appare al nostro sguardo pura forma, mera citazione di opere occidentali priva di personalità. Si tratta di un aspetto che non sussiste nella concezione artistica asiatica appena citata, dove imitare l'opera del maestro significa apprendere, far propria, trasmettere l'essenza del soggetto e lo spirito del maestro stesso oltre le forme.
È altresì interessante notare come un equilibrio e una fusione di tali e svariate tradizioni, tecniche, supporti, soggetti che potrebbero apparire opposti e incompatibili a uno sguardo occidentale, in Giappone abbiano dato invece vita a una gradazione infinita di contaminazioni artistiche e di conseguenza a una molteplicità di stili, seppur all'interno di uno stesso genere. Di nuovo l'osservatore occidentale rimane spiazzato, educato a un binomio più generalista in cui il Giappone è minimalista, in inchiostro monocromo, o decorativo, secondo la coloristica brillante delle silografie policrome dell'ukiyoe. Forse la differenza sostanziale di approccio all'arte occidentale e orientale si può riassumere con le affermazioni di due grandi del Novecento.
Yokoyama
Taikan nel 1938, rivolto ad alcuni giovani hitleriani, definì la pittura
occidentale come «espressione del mondo sensibile, che si basa sulla
rappresentazione realistica fondata sulla vista, mentre quella giapponese, pur
considerando la realtà materiale, esprime l'immaterialità del mondo
spirituale». Fosco Maraini, il nostro più grande orientalista che visse in
Giappone gli anni difficili della guerra, scrisse invece in Segreto Tibet
(1998): «Gloria dell'Occidente è la scienza, non solo quella della natura, come
generalmente s'intende, ma la conoscenza, in un senso più vasto, del mondo che
ci circonda (...) L'Occidente è centrifugo, vive in un equilibrio dinamico,
instabile, l'Oriente è centripeto, consiste». E quanto avesse ragione è davanti
agli occhi di tutti, oggi...
(Da: Il
Manifesto del 13 marzo 2013)
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