Oggi prendo dal sito http://rebstein.wordpress.com/2013/04/30/a-m-o/ una splendida pagina di Paolo Rou che
ricorda in modo struggente una delle più grandi scrittrici italiane del 900.
PAOLO ROU - A.M.O.
“tutto ciò che vidi e seppi fu
illusorio,
come i sogni della notte che all’alba svaniscono,
e così fu per quelli che mi stavano intorno”
Se la vita non è che costrizione, la salvezza sta
nel leggerla in un libro. Nell’ultima pagina del libro ho letto la costrizione
a spostare dei luoghi, dei tempi, a riportare A.M.O. a Toledo. Per salvare non
lei ma la clemenza, o una nuvola accartocciata, oppure il mondo. A lei la pena
non diede mai luoghi, costeggiava il crinale che è posto tra realtà e irrealtà.
Perché, in morte come in vita, pena è ogni terra, ogni arido grumo di Toledo o
Rapallo o Lombardia, o dell’agonizzante isola di Ocana. Dovunque, lei avrebbe
tutto già visto, conosciuto, dal chiuso del suo sgabuzzino nel quartiere più
misero. E’ a noi che abbiamo meno febbre, e in una roccia vediamo
principalmente una roccia e della luce non individuiamo ogni sfuocato barlume,
è a noi che darebbe forse sollievo mettere Anna Maria dove è stata (o speriamo
sia stata) di più.
La febbre è di cercarla. Di porre le parole in
sottofondo per toccare le porte, calpestare i selciati, per stupire dei cieli
di cui lei stupiva. La possibilità che, di questo, qualcosa ancora rimanga
obbliga a radunare i detriti, a ricomporre il riflesso dell’anima di A.M.O.
Non serve a niente, non servirà. E’ una vocina, un
gorgheggio analogo al
cardillo, che mi ha cantato in testa. Che senso
darai al trasporto di poche ossa rinsecchite e percettibilmente mute? Come
convincerai un qualsiasi dirigente dell’opportunità di una salma in un cimitero
piuttosto che in un altro? Perché è questo che dovrò proporgli, e all’obiezione
“Ma con quale giovamento, e per chi?” non darò che vaghe astrazioni di
risposta.
Per l’ordine, per la pace che collochiamo
arbitrariamente nella morte.
Per la solitudine cui siamo sottomessi.
E per allestire un miraggio di cui forse si sarebbe
impietosita.
Credo che mai abbia notato l’acronimo cui dava luogo
il suo nome (AMO: e chi? cosa?), ma potrei farne cenno all’assessore quando
sarà il momento. La mia proposta sarà povera di argomenti. Ferma, perciò, e
ineluttabile come ogni costrizione.
Ma un viaggio (è inevitabile) ha per premessa un
viaggio. Di qualcun altro, o della porzione di sé più incline al sogno.
Nel mio caso occorre percepire il dolore con i sensi, col poco che ne resta:
uno slargo di mare, qualche muro ingrigito, il vuoto di palazzi abbandonati
finanche dal ricordo.
Toledo non è tale, direbbe il lettore di passaggio.
Eppure queste cancellate ridipinte offuscano la sagoma morente di qualcuno che
potrebbe essere Rassa. Da una chiesa annerita fino a una vitrea piazzetta si
segue il cammino di Apa prima che il patimento la straziasse. Il fratello, la
madre, la sola transitoria appartenenza.
La via marina conserva impronte di edifici antichi, di
finestre semiaperte ai piani alti, da cui i ragazzini affacciati sognavano le
loro brevissime illusioni. Percorrerla oggi evoca il tormento di allora, i
medesimi rimbombi in procinto di esplodere, un’ombra di miseria a coartare ogni
bellezza. Il tassista si è stupito di lasciarmi a mezza strada, non suppone che
dalla farragine delle auto e dei richiami può sprigionare ancora una felicità
ingenua e il disincanto, e proseguendo a piedi si può avvertirli entrambi.
Troppi anni sono passati, non può restare traccia del
passaggio di lei. Tuttavia certi muri su cui impresse lo sguardo, certe aperte
vedute che trascrisse risentono per sempre della trasfigurazione che ne fece.
Sui banchi di un’edicola mi metto a scartabellare le riviste, forse è l’edicola
sua, dove si sgomentò del miracolo che era in grado di creare. Di un vecchietto
seduto ad arginare una vita che si sfalda, ho l’assurda impressione che possa
averla vista, persino averle parlato. Mi fermo qualche minuto a osservarlo
confidando in un’occhiata o una parola impossibili, poi mi allontano nel solco
di un tramonto che non cessa di indurre l’affanno.
Il senso di giardini che c’erano, di invettive e di
urla che sono risuonate, di un mare e un porto persistenti e introvabili,
imprimono una pagina di disegni infantili, di colorati eroi che immagino
truccati da passanti. E’ truccata Toledo, lo è come se un’osservatrice
adolescente seguitasse inesausta a traversarla per non dover discernere la
verità dalla maschera. Per redigere frasi che nel vuoto intuiscono un lume,
ebbre ma consapevoli che è spento.
Il treno che mi ha portato qui stamattina era subdolo,
si è insinuato senza rumore in stazione senza lasciar percepire il suo arrivo.
I treni di lei, della sua intera esistenza, facevano più chiasso, l’hanno
rassicurata e sconvolta significando le sue case transitorie, dove la serenità
e l’angoscia si succedevano con ostinazione crudele. E’ stato il libro l’unica
casa in cui ha scelto di abitare, ma è stato pure il libro a indicare l’unica
casa in cui ha abitato davvero. Discendo le scalinate del Monte, percorro il
viale brumoso in prossimità delle sale della vecchia accademia. Qui è stato
tutto, tutto qui ha un passato. Non capisco se la fitta che mi prende allo
sterno è la trasposizione di un rimpianto, e di chi. Ma è di certo il rimpianto
per gli abbandoni di cui consiste la vita. Ho abbandonato la stazione con la
speranza di non sperare nulla, così mi sono sentito vicino a Anna Maria.
La donna con cui parlo è la portiera di uno di questi
vecchi condomini, in essi e in lei brancolano dubbie memorie. Nella foto
che mi mostra, un nonno corpulento avvalora l’incessante passato: guarda fuori
dallo stesso androne in cui siamo, nella via gli spazi sono larghi, si indovina
una luce che fa di ogni movimento un sussulto. Uomini tesi si aggirano come
paventando un pericolo. Non scorgono nulla, stanno già dentro ciò che li
minaccia. Anche la vita è subdola, si insinua senza lasciarsi percepire. Una
delle figurine di sfondo potrebbe essere lei, somiglia a un animaletto di
ritorno al suo buco, noncurante oppure ignaro della ferita che gli si sta
aprendo sul ventre. Napoli sembra, più che un corpo dissanguato, perennemente
in corso di dissanguamento. La sua pietà coincide con la sua sofferenza. In
essa la natura, come i binari del tram che seguo fugacemente senza scopo, in
certi punti è divelta da se stessa, per confluire in un territorio inesistente.
Alla vecchia collina, soltanto lì potrà esserci un
bambino, un fiore tenero a rincuorare casualmente Anna Maria. Per arrivarci mi
scontro con la forza di suoni acuminati, di aspri fari che non illuminano e non
brillano. Vorrei chiedere a lei se è importante, “Contano queste luci? Questi rumori
che non riconosci ti farebbero paura?”. Ma le
colline d’ombra sono
qui, pochi passi e si determina il silenzio. “Credo che sia un silenzio che
conosci”, ho bisogno che A.M.O. immagini un fiore, un bimbo sorridente a
rincuorare il suo arrivo.
Non posso entrare, non voglio. La pietra bruna
diffonde intorno un suo sgretolamento, ricomporlo è impossibile, croci su croci
segnano il tragitto lungo cui l’anima resta uguale in vita e in morte. Uguale
“in
sonno e in veglia” stavo per pronunciare. Se verrai qui il tuo sonno
incrocerà la mia veglia, Anna Maria, o viceversa.
Non entrerò. Apo è lì. Rassa è lì, con Apa, e la
cassettina di plastica minuscola in cui è stato ridotto Albe Garcia. E’ A.M.O.
a piangere per tutti, tutto il lamento è suo, Toledo alleggerita piangerà
quando lei potrà con le lacrime scrivere ancora un verso, e finalmente
fermarsi.
Per tornare ripercorro l’ampia strada di mare, deve
esserci da qualche parte uno scorcio, mi persuado, un frammento di immagine che
lei abbia veduto o presunto, una tinta, una traiettoria d’uccello che abbia
registrato nell’ininterrotto inventario dei suoi giorni. Leggere il suo morto
ricordo è il compito che mi sono dato per vivere un attimo in lei, essere lei,
per aver scritto quella pagina insieme.
Dall’ultimo piano di un manufatto in rovina corridoi
stretti, stanzette disadorne, lucernai traboccavano di fantasie sommesse, di
Americhe inventate dai pennacchi di fumo delle navi. Provo a supporre un uscio
scheletrito, l’odore di povera frutta, provo a sentire voci conosciute che
alleviano Anna Maria nel riposo. Di quante sepolture si può esistere? Non sono
tutte, ugualmente, brevi e definitive? Lascio Toledo per arrivare a Rapallo,
col solo intento di constatare dei muri, delle ringhiere, alcune cime di alberi
che si scorgono smossi dalla brezza. Il convoglio parte lentissimo, come a
preservare le forme dal vuoto di cui sono fatte. Sarà un soggiorno rapido, nel
quale praticare la rinuncia. So che dipende dalla suggestione, eppure una
lucertola immobile su un cippo ferroviario mi suggerisce di essere un simbolo
eterno, e che chiunque tornasse la troverebbe sempre lì, a testimoniare.
Nell’ultimo dei treni che ho cambiato sono rimasto
solo. Ho disposto sui sediolini gli appunti, lo scarno itinerario delle memorie
che forse di lei sopravvivono. In una cartoleria della zona vendevano sino a
qualche anno fa nastri per Olivetti. Un certo parrucchiere potrebbe averla
incontrata alcune volte, alla vigilia di qualche rara uscita. Tuttora c’è la
donna che l’aiutava in casa, ma non sono riuscito a mettermi in contatto; del
resto, ciò che poteva riferire è stato già appuntato dai biografi. Poi qualche
idraulico, l’impiantista del gas, tutt’al più un negozio di alimentari dove
però il personale non è di certo lo stesso. E basta. L’acclarata inutilità di
tutto questo, mi sono detto, ripaga in sé una ricerca rivolta palesemente verso
il nulla.
E’ una cittadina ipotetica. Nei rioni interni il mare
consegue a fioche illazioni, la risacca potrebbe non avvertirsi, il suo brillio
venire meno alla vista. Tutto sommato, una tana. Dall’ampiezza piccina, dalla
luminosità inattendibile: alle creaturine non tocca di più. Insulse, turpi come
le loro caverne. Irrisorie come lo scrivere. Ai crocevia l’aria è occlusa dai
fumi, la fantasia soffoca e sbiadisce. Qui era lei, la palazzina squadrata
troncò ogni illusione di spazio. Le colline dintorno, il sentimento della
vastità marina, sconfortano chi è dentro un nuovo disinganno: ogni amarezza fu
l’ultima, “Non avrò mai un giardino” ripeté infinitamente senza annotarlo
mai.
Parlo sommariamente con gli esercenti che ho
individuato. Sono cortesi, forzano allo stremo i ricordi per non tradire la mia
attesa. Qualcuno evoca un brandello di scena, di dialogo riferito da altri in altri
tempi. C’è chi giura di rammentare la sua voce. Già prima di ascoltare,
tuttavia, ho capito che questa ricomposizione deve concernere altro, che i
pezzi vanno incastrati a formare per caso l’inesistente giardino che A.M.O. non
ebbe, ma che è il posto in cui di più ha vissuto.
Rifletto che i moli, le palme spumose mancano del suo
nome, compongono il sogno che non ha sognato. Quanto a Rapallo, concludo che
non c’è. Cioè che, nel tragitto di visioni itineranti, Anna Maria la omise, per
sfiducia, per troppa stanchezza. Anzi che non si spostò mai da Toledo. Mi è
chiaro pure che proprio questo sono venuto a cercare: l’avviso della sua
immobilità, di un nomadismo che va da prigione a prigione, perché la vita non è
che costrizione e il libro che ci è dato sfogliare è fatto della prima pagina
soltanto.
Due telefonate mi rimangono da fare. La prima è per la
nipote che porta il suo stesso nome, una A.M.O. in Germania probabilmente
ignara, che mi figuro col sorriso sfuggente come lei, un po’ tremula nel reggere
il ricevitore, perplessa delle mie strane proposte. Prima che possa arrangiare
una risposta le dico di pensarci, che la richiamerò, stacco di colpo la
comunicazione per evitare di domandarle se ha un giardino e se la pioggia vi
cade a volte tenue, simile a quella che commuoveva Anna Maria.
Al secondo interlocutore chiedo di descrivermi ciò che
alla sera vede dalla finestra. E’ perché abita su un’isola che l’ho chiamato,
più che per aver conosciuto bene A.M.O. Non se ne meraviglia, forse pensa anche
lui che i paesaggi sono tutti incisi dal dolore, e che lei tratteggiò un
paesaggio che non poteva incontrare ma neanche smettere di vedere. I riverberi
arcigni, i gorghi di schiuma slabbrata di cui dice, più che oceano sono l’orma
di Anna Maria, il
paio di occhiali che guarda l’acqua, la terra,
presagendone l’anima lacerata.
“Pensa che riuscirò a convincere qualcuno?” gli
faccio, “Un editore, i parenti… qualche sindaco sensibile alle lettere?”. Sto
chiamando dal porto, la Liguria in ogni suo sguardo attiene alla navigazione,
da qui le sagome dei natanti sembra che vibrino in cerca di un attracco. Non
risponde, le barche dell’isola oscillano anch’esse ininterrotte, il vincolo
incessante delle onde definisce un’esistenza senza approdo. “Non so” infine ribatte,
“Non ogni pensiero formulato si lascia riferire”.
E’ quasi sera. Il camposanto è a poche decine di
chilometri da qui, avrei il tempo di arrivare prima della chiusura. A soppesare
il terriccio che sarebbe necessario rimuovere, a enumerare le assi da
schiodare. Ci andrò, forse. Un treno sta ancora per partire, tra i rami gli
uccelli non hanno ripiegato le ali. Ancora il buio aleggia in lontananza. La
panchina che mi sorregge trattiene l’ultimo calore al suo interno, apro piano
lo zaino, è chiaro abbastanza per riferire al vento le parole del libro:
“tutto
ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni della notte che all’alba
svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno”.
Non occorre fare più nulla. Solo aspettare che il
vento smuova l’aria assonnata, che le tinte si ammorbidiscano e il cielo
raccolga i nostri respiri prima di chiudere gli occhi. Fino al mattino
persisterà l’orizzonte simile ad una vana recinzione, nella grafia dell’alba si
potrà credere di leggere un destino. Col risveglio di A.M.O., svanirò insieme
al resto delle cose.
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Il
sogno che l’autore di questa splendida pagina coltiva, e
racconta,
è nel cuore di tutti coloro che amano la nostra scrittrice più grande: quello
di vedere restituite le sue spoglie ai luoghi dove è nata, affinché possa
riposare per sempre insieme ai suoi cari.
Chiediamo a tutti coloro che, come lui,
vorrebbero trasformare in
realtà questa speranza, di attivarsi la loro parte, anche facendo circolare la
proposta in rete. Chiediamo a tutti coloro che
potrebbero realizzarla
concretamente, di dare un
corpo e un
fine a questo elementare
desiderio di umanità, di memoria, di bellezza e di giustizia. (
Reb
Stein)
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