Paolo Di Paolo
L’attualità di Giuseppe Berto
Il contrario di uno
scrittore italiano
Non c’è
niente che possa fare di lui uno scrittore alla moda. Non ammicca,
non lusinga, raramente sorride. Parla di sé sempre sospeso fra
orgoglio irritante, spavaldo e impudica autocommiserazione. Non
appartiene a bande, «a clan di vario genere»; fa un vanto del
proprio anticonformismo, di un carattere «scorbutico» e
intransigente. Che c’entra, uno così, con l’Italia che si
prepara al 2015?
D’altra parte,
Giuseppe Berto è uscito per tempo di scena, nell’autunno del
livido 1978, dopo avere pubblicato un romanzo che porta nel titolo
la sua ossessione: La gloria. Cercata per via letteraria come un
riscatto: «Per farti vedere - lo dice rivolgendosi al padre - che
avevi torto», per prendere fiato da un senso di colpa remoto e
inarginabile. Quello che fa del suo romanzo più noto, Il male
oscuro, uscito giusto mezzo secolo fa, una inquietante «Lettera al
padre» di quattrocento pagine, da novello Franz Kafka seduto su un
lettino d’analista.
«Immagino la tua
fierezza davanti alla lapide dei caduti col nome del primogenito
scolpito nel marmo, vedi non è che proprio non lo volessi non mi è
capitato ecco tutto» si rivolge ancora il figlio artista al severo
padre carabiniere. «Ecco tutto»: sì, sembra una frase qualunque,
ma l’intera opera di Berto sta proprio lì, dentro un disarmato,
spudorato «ecco tutto».
A cent’anni dalla nascita - Berto era nato a Mogliano Veneto il 27 dicembre del 1914, anno «dei più disgraziati dell’intera storia umana» - tornano in libreria, per Bur Rizzoli, tutti i suoi libri, gli viene dedicato un francobollo e l’associazione che porta il suo nome affida l’archivio alla regione Veneto. Ma fare i conti con Berto significa accettare la sua letteratura ruvida, che non alleggerisce né edulcora, che non assolve, e prova a scrollarsi di dosso ogni retorica, come il soldato di Guerra in camicia nera vorrebbe scrollarsi di dosso i pidocchi.
Nello stesso anno dell’esordio di Calvino, il ’47, Berto pubblica Il cielo è rosso, titolo trovato da Longanesi, che lo lancia come scrittore della provincia italiana dallo sguardo americano, fra Hemingway e Steinbeck: d’altra parte lo aveva scritto in una prigione in Texas, arrestato dalle forze alleate in Africa, dove si era arruolato da giovane fascista. Qualcosa fa pensare anche a Faulkner, nella tragedia di un destino collettivo, in quella fuga - nel romanzo seguente, Le opere di Dio - di un’intera famiglia, che carica su un carro tutti i propri averi, comprese le galline e un maiale, per mettersi in salvo dalla guerra.
Ma quella «perduta gente» non ha meta, e le figure che Berto tratteggia con la sua prosa rapida e nervosa appartengono infine a un sovra-tempo senza calendari. Dove l’innocenza, però, si confonde sempre con la colpa: «Forse non siamo cattivi - disse la madre - Ma non siamo neanche buoni come si dovrebbe. Bisognerebbe capire di più, Rossa».
Bisognerebbe capire di
più: questo interessa a Berto, che si rompe la testa pur di
comprendere. Comprendere come potesse esaltarlo, ad esempio, lo
spettacolo dei proiettili che illuminavano il cielo a giorno, sul
fronte africano. O come si possa, a vent’anni, sbagliare per
entusiasmo, e poi finire per perdere tutto: «Non possiedo che
questa divisa sporca e malandata, due camicie e un solo paio di
mutande, colonizzate da un’incredibile quantità di pidocchi».
Comprendere, ancora, come si diventa fabbricatori della propria
stessa sofferenza, naufragando in un malessere che la mente comunica
al corpo fino a invaderlo del tutto.
Così, nel Male oscuro,
cerca spietatamente di comprendersi, con una furia e una sincerità
disperate, ottenendo un risultato che anticipa esperimenti simili di
scrittori come Houellebecq o Knausgard (il recente La morte del
padre) e non invecchia al confronto. Nella Gloria, il Giuda
traditore e insieme complice di Gesù precorre quello dell’ultimo,
bellissimo romanzo di Amos Oz (Giuda, Feltrinelli): «Non vi è un
solo colpevole; non c’è nessuno che non sia un esecutore». Vale
lo stesso per ogni storia d’amore, fra tenerezza e rabbia, come
dimostra nel sorprendente e sensuale La cosa buffa, facendo
innamorare e disamorare un alter ego ventenne di una ragazza.
È una martellante scrittura del risentimento, quella di Berto: poco italiana nella sua assenza di pose da commedia, nel suo rifiuto assoluto per ogni indulgenza e auto-indulgenza. Sgradevole perfino, nella sua tensione anti-estetica: il linguaggio può essere ancora un fatto morale prima che estetico? Berto se lo domanda di continuo, sfidando, prima che gli altri, se stesso. E resta solo.
Come lo vede da lontano
Montanelli: risucchiato per vivere dal mondo del cinema, Berto
restava «il meno adatto - lui così scontroso e impacciato e
candido - a muoversi con disinvoltura in quel mondo di dritti, di
venditori di fumo, di assegni a vuoto, di cambiali in protesto e di
promesse non mantenute. Quando lo vedevo in via Veneto o in Piazza
del Popolo imbrancato con certi tipi, pensavo a Fitzgerald e mi si
stringeva il cuore».
La Stampa – 30 dicembre
2014