01 dicembre 2014

L'INDIMENTICABILE EDUARDO DE FILIPPO





Antonio Scavone
Do not remake Eduardo

     A trent’anni dalla morte Eduardo De Filippo è stato opportunamente celebrato in Senato (era senatore a vita) ed è stato ovviamente ricordato dal figlio Luca, dal nipote Luigi figlio di Peppino, da attori, registi, critici, cineasti, fotografi, memorialisti del teatro italiano (napoletano e no). Era un omaggio dovuto, un ossequio necessario, sincero e spontaneo com’è nella consuetudine di conservare con la stima e il rispetto il contributo di un drammaturgo schietto e scontroso alle sorti del teatro italiano del secondo dopoguerra.
     La produzione teatrale di Eduardo, come si sa, è vastissima, abbraccia cinquant’anni di storia (dagli anni ’30 a pochi anni prima di morire) ed è stata una registrazione analitica e sentimentale della storia del nostro paese sia pure filtrata dalla metafora scenica della città di Napoli, crocevia e patrimonio delle illuminazioni o delle meschinità di uomini e donne dominati da interessi di bottega, da sentimenti di rivalsa e rancore. In questi cinquant’anni di teatro, Eduardo ha ordito pazientemente un affresco puntiglioso della società italiana, riducendone le sottigliezze di linguaggio, le involuzioni tematiche, per superare una ridondanza pirandelliana e approdare ad una prosa asciutta, a messinscene calibrate, ad una “resa” attoriale fervida, immediata, coinvolgente.
     Da quel grande e inimitabile attore che è stato, Eduardo poteva e sapeva costruire i suoi personaggi con pochi tratti caratteriali, creando delle figure diventate proverbiali ed esemplari nell’immaginario teatrale di mezzo secolo (Filumena di Filumena Marturano, Nennillo di Natale in casa Cupiello, Chiarina di Bene mio e core mio, Zi’ Nicola di Le voci di dentro, Pasquale Lojacono di Questi fantasmi).
     Era dunque prevedibile che, in occasione di quest’omaggio a Eduardo a trent’anni dalla morte, siano stati ripresi allestimenti delle sue opere più conosciute con stili e moduli critici per così dire alternativi, quantunque non sempre accurati e condivisibili. È una vecchia questione quella della riedizione di testi teatrali realizzati da compagnie e attori diversi, per spirito e storia, dall’originale che si propongono di riprodurre.
     Eduardo è stato rappresentato in tutto il mondo da se stesso (cioè dalla sua compagnia “Il Teatro di Eduardo”) o da compagnie straniere che si sono avvalse di traduzioni approvate dallo stesso Eduardo oppure, in mancanza di traduzioni efficaci e compatibili, da copioni nella lingua locale distribuiti al pubblico in sala o, addirittura, dalle suggestioni che potevano provocare, per intuito scenico, la comprensione di un linguaggio così specifico come il dialetto o lingua napoletana.
     Tutti i teatranti di ogni epoca si sono sempre cimentati con i grandi testi della tradizione (da Shakespeare a Goldoni, da Molière a Brecht, da Miller e Pirandello, a Pinter, a Weiss) e, per ogni volta, la lettura o rilettura di questi testi è stata articolata, sviluppata o rielaborata ma mai rimaneggiata, mai ridotta o rifatta per una versione filologica impropria o dispersiva. Non si tratta di infedeltà ma, come si dice in gergo, dell’attualizzazione di un testo, cioè di una messinscena “riveduta e corretta” per suscitare emozioni diverse rispetto all’emozione primordiale o primitiva.
     Rifare Eduardo, oggi, può essere difficile, può risultare incongruo o inattendibile: sono cambiati i costumi e le scenografie degli allestimenti originali eduardiani, come sono inevitabilmente diversi o superati degli attori del Teatro di Eduardo. La ricchezza delle scenografie allestite dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, tra un naturalismo di maniera e un verismo di memoria, si scontra con la pochezza allusiva e iper-reale degli impianti scenici  nelle riedizioni teatrali odierne. Pochi elementi – una finestra, un balcone, un tavolo – con fondali diafani o con quinte smisurate e lugubri – dànno sicuramente spazio agli attori (per una recitazione spesso oltre le righe) ma limitano il décor ad una scena fissa, spoglia, incapsulata in un divenire senza speranza.
     La medesima frammentazione si manifesta nei costumi degli interpreti: non più quegli abiti usuali e usati di un’epoca della sartorialità “teatrale” (non tutti i vestiti, come si sa, rendono sulla scena), ma costumi e accessori che rimandano ad una moda attuale, corrente, tra il casual dell’improvvisazione e il raccogliticcio del disimpegno post-ideologico. Manca la riconoscibilità di un’epoca e dei suoi riti per configurare una citazione d’ambiente dove purtroppo è stato negato proprio l’ambiente, dove, in altre parole, l’ambiente è deliberatamente scomparso. Come se non bastasse, l’operazione di disgregazione continua e si completa nel linguaggio e nella pronunzia degli attori e nella scelta stessa degli interpreti.
     Non c’è più quella parlata napoletana di città (distinta per i quartieri di provenienza, dal popolare al piccolo-borghese) ma prevale e prevarica una parlata provinciale o addirittura suburbana, che non trova riscontro nella lingua originaria di Eduardo e, per inciso, nei napoletani che hanno aggiornato con giudizio il proprio dialetto (che sarebbe il napoletano “marino” o di Mergellina come lo definiva Gadda, dolce e fluido, rispetto a quello fosco e triviale dei quartieri di spaccio). Così gli interpreti: non più napoletani, né Doc né acquisiti, ma “italiani” prestati al dialetto, smarrendo sfumature, accenti, appoggi di voce. Che senso ha italianizzare il napoletano di Eduardo? Per renderlo più comprensibile a chi?
     Stiamo dalle parti di un conflitto edipico, forse, fuori del tempo e della ragione, che tuttavia non risolve, anzi accentua, la nemesi di una filiazione avvertita e nutrita con la opportunistica perfidia del bastardo più che del figliol prodigo.
     In realtà si rappresenta Eduardo per imbalsamarlo, per etichettarlo, infine per ripudiarlo. Succede con tanti altri drammaturghi, vittime di riletture autoreferenziali di registi e attori dalla cultura teatrale didascalica, compulsiva ma con taluni commediografi l’operazione di riciclaggio è tanto più ardita quanto più velenosa o blasfema, secondo i casi.
     Resta così un Eduardo a-storico, espiantato, iperboreo, che nulla o poco condivide con la terra, il sangue, l’asciuttezza dell’invettiva o del sentimento. È pur vero che ogni rilettura debba fare i conti con il gusto dell’epoca nella quale si vive, che la citazione di un’opera del passato debba essere presentata o rivalutata con gli stilemi formali dei tempi correnti – per evitare che diventi una reiterazione stucchevole – ma la citazione di una commedia è già, di per sé, presentazione e rivalutazione delle infinite epoche cui il teatro allude nel gioco della finzione e dell’agnizione. La contemporaneità di un’opera include e trascende il dato obiettivo della storia e degli eventi rappresentati, ne irradia e ne esprime il senso metaforico, opportunamente obliquo e trasversale, nascosto ed epocale.
     Come faremmo, diversamente, a sorbirci le commedie di Plauto e di Aristofane o le tragedie di Sofocle e di Euripide se non fossimo cooptati illusoriamente dalle suggestioni sceniche (descrittive ed intuitive) dei drammi antichi? Certo, possiamo sempre imbatterci in un Amleto o in un Macbeth dei nostri giorni, in ambienti e costumi nostrani e rivisitati ma davvero li sentiremmo più vicini un Macbeth come sanguinario dittatore o un Amleto mentecatto e visionario per raffigurarci una prossimità temibile e inquietante? Molti registi si affidano a questi sconvolgimenti scenici per qualificare scelte culturali che rispondono il più delle volte ad artifici convenzionali, tipici di una drammaturgia incline alla velleità, se non all’inadeguatezza strutturale di un testo, di una regìa, di una recita.
     Sono molte le ragioni che suscitano perplessità per le riedizioni televisive o teatrali delle commedie eduardiane. La più semplice, la più evidente – quella dettata dalla memoria – è che per godere di quelle commedie siamo costretti a rivedere le registrazioni televisive di quaranta o cinquant’anni fa, tuttora impareggiabili. Un’altra ragione è che l’humus socio-culturale di quelle commedie non è più presente nella società e nella vita di oggi, sostituito da atteggiamenti e finalità di debole impatto psicologico, di fatua esaltazione agiografica. E tuttavia attori e registi hanno sentito il bisogno di confrontarsi con quelle atmosfere, di rasentare o imitare quel viaggio di percezione della realtà che compì Eduardo. Molti si sono sentiti chiamati, per una sorta di jus soli, a rispolverare e magnificare una napoletanità di elezione, fornendo una loro personale cifra stilistica per uno stile che forse non avevano mai o poco praticato.
     Resta l’omaggio, certo, il ricordo nostalgico di un drammaturgo e di un maestro della recitazione e la memoria corre il rischio di diventare oleografica ma la memoria personale di chi è stato in platea (neofita o esperto, sussiegoso o condiscendente) non è contaminata o diminuita da prove più o meno riuscite di attualizzazione. L’emozione vissuta in diretta, o attraverso videocassette o dvd, è tuttora il segno di una testimonianza o di un patrimonio che non si confonde con gli artifici o le trovate di un remake non sempre felice: i rifacimenti sono spesso il simbolo di una mal riposta originalità, di un’identità raffazzonata e controversa, di un’emulazione conflittuale e retorica. Eduardo diceva ai suoi attori: “Non mi migliorate” ed è presumibile che non avrebbe gradito il contrario.


Testo ripreso da http://rebstein.wordpress.com/2014/11/30/do-not-remake-eduardo/

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