08 dicembre 2014

UNA STORIA DELLA PRESENZA EBRAICA IN ITALIA




La storia delle comunità ebraiche è inseparabile dal contesto più complessivo culturale e sociale italiano. E' la tesi di fondo di una ricerca che ricostruisce la storia degli ebrei italiani dal Cinquecento all'Ottocento.

Sergio Luzzatto

Svolte e traumi per gli ebrei

In quasi tutti i dipartimenti di storia delle maggiori università americane vengono proposti uno o più insegnamenti di «Jewish History», cioè di «Storia ebraica». Ai quali si aggiungono gli insegnamenti di «American History», «French History», «Chinese History», eccetera. Il che non corrisponde affatto a qualcosa di analogo, nella misura in cui questi ultimi si riferiscono per definizione a uno spazio geografico, mentre quelli di «Jewish History» richiamano un popolo, o un'etnia, o un'identità. Anche nelle università israeliane, gli insegnamenti di «Storia ebraica» – e non di «Storia di Israele»: il che sarebbe ben diverso – vengono normalmente distinti da quelli di storia dell'America o dell'Europa, dell'Africa o dell'Asia.

Ma esiste una storia ebraica? E ha senso definirla in quanto tale, allo stesso modo in cui negli Stati Uniti, o in generale nell'ambiente accademico anglosassone, si definisce e si insegna una «Islamic History»? Ancora: perché, nell'accademia americana o britannica, una «Christian History» viene insegnata quasi soltanto presso le scuole superiori di teologia? Anglosassoni a parte, quanti fra noi, nell'Occidente più o meno laico, si sentirebbero adeguatamente rappresentati da una didattica universitaria che distinguesse preventivamente l'insegnamento della «Storia cristiana» da quello di tutte le altre? E quale studioso assennato pretenderebbe oggi di ricostruire la storia della Palestina moderna distinguendo in questa la «storia ebraica» dalla «storia islamica»?

L'attualità – una tragica attualità – si incarica fin troppo di dimostrarlo: a chi guardi senza paraocchi alla vicenda della città di Gerusalemme o dei territori della Cisgiordania, riesce del tutto evidente come le due storie, l'ebraica e la musulmana (oltreché una terza, la storia cristiana in Palestina), partecipino di una stessa storia. Così per il XXI secolo, e così per i secoli precedenti. Si tratti del Medioevo o dell'età moderna, dell'Otto o del Novecento, più che la «storia ebraica», ha senso studiare la storia degli ebrei (esattamente come, più che la «storia islamica», ha senso studiare la storia dei musulmani, e più che la «storia cristiana», la storia dei cristiani).

Storia degli ebrei, quindi. Non nella loro separatezza, ma nella loro interazione con gli uomini e le donne di altre fedi religiose – o di nessuna fede – che abbiano vissuto in un medesimo spaziotempo, che abbiano insistito su uno stesso territorio in uno stesso periodo storico. Per esempio, Storia degli ebrei nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione: secondo il titolo che Marina Caffiero ha pensato bene di dare al suo ultimo libro, appena uscito da Carocci. Appunto per sottolineare il carattere falsificante di una «storia ebraica» che postuli la separatezza tra le comunità israelitiche degli antichi Stati italiani e il contesto cristiano maggioritario: «La storia degli ebrei e dei cristiani è una storia di scambi e intrecci istituzionali, sociali e culturali, impossibili da separare, in cui le minoranze non costituiscono delle isole».

Nella ricostruzione di Caffiero, la vicenda storica degli ebrei nell'Italia moderna comprese tre fasi. La prima e la seconda furono inaugurate da un «trauma»; la terza da una «svolta» benefica, ma a suo modo dolorosa. Il primo trauma intervenne tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, quando alla cacciata degli ebrei autoctoni dalla Sicilia e dall'intero Mezzogiorno – italico riflesso della Riconquista spagnola – si accompagnò l'arrivo, nel Centro-Nord, di massicci contingenti di ebrei originari proprio della Spagna e soprattutto del Portogallo.

Il secondo trauma intervenne nel Seicento, quando, tenendo dietro all'esempio fornito dai papi della Controriforma, le classi dirigenti di tutti gli antichi Stati costrinsero gli ebrei d'Italia entro i confini dei ghetti. La svolta benefica ma dolorosa intervenne dal tardo Settecento al primo Ottocento, quando le riforme illuministiche, giacobine e napoleoniche dischiusero agli ebrei la strada dell'emancipazione, ma a rischio concreto di un'assimilazione, di una perdita dell'identità.

Gli ebrei spagnoli e portoghesi che raggiunsero l'Italia centro-settentrionale all'inizio del Cinquecento erano i cosiddetti «marrani». In teoria, ebrei convertiti (più o meno forzosamente) alla religione cristiana. In pratica, ebrei rimasti fedeli (più o meno nascostamente) alla religione degli avi. Falsi cristiani, dunque. E in quanto tali oggetto di diffidenza diffusa, quando non – come nella Ancona pontificia del 1556, in un terribile auto da fé – di aperta persecuzione. Vittime, i marrani? Certo. Ma non soltanto vittime.

A scoprire, attraverso il racconto di Caffiero, le ingegnose maniere in cui i sefarditi di origine lusitana stesero le loro reti amicali, commerciali, matrimoniali da un angolo all'altro dell'Europa cinquecentesca, da Anversa a Genova e da Livorno a Ferrara verso l'Impero ottomano e addirittura verso le Indie, si tocca con mano come la storia degli ebrei in età moderna sia irriducibile (fortunatamente!) al paradigma "vittimario" con cui è stata il più delle volte declinata.

Nella loro identità plurima, i marrani portoghesi erano figure destabilizzanti. Erano invise ai cristiani, ma riuscivano sgradite anche a non pochi ebrei di origine italiana, che faticavano a riconoscere in loro il profilo chiaro e distinto del correligionario ortodosso. Secondo i termini di una denuncia raccolta dall'Inquisizione veneziana nel 1580: «Questi portoghesi de questa sorte non sono né christiani né hebrei né turchi né mori, ma vivono al modo loro. Et quando vanno in sinagoga, portano un officiolo alla cristiana in lingua portoghese et sono odiati da li altri hebrei, che non portano altro che 'l turpante da hebrei». Nelle parole di un altro veneziano del Cinquecento, il marrano era «un traditor et l'homo non se ne pole fidar et io non l'ho né per cristiano né per hebreo, ma per homo senza religione».

Così, come per altre figure dell'ebraismo moderno e contemporaneo, era la loro identità cosmopolitica, di confine, che esponeva i marrani – entro il campo stesso dell'ebraismo – alla facile accusa di «tradimento» (proprio quella, sia detto per inciso, che Amos Oz ha scelto di porre al centro del suo ultimo romanzo, Giuda). Mentre era la loro formidabile intraprendenza culturale e mercantile, variamente dispiegata fra i torchi di una Venezia capitale europea dell'editoria, o nelle nebbie della Ferrara estense, o lungo i moli della Livorno medicea, che esponeva i marrani al desiderio di rivalsa dei cristiani.

Il ghetto rappresentò la soluzione prettamente italiana – controriformistica e papalina – al problema politico, religioso ed economico della "diversità" ebraica. E se il «secolo dei ghetti», come Marina Caffiero lo qualifica, fu il Seicento, fu nel corso del Settecento che i ghetti salirono da 29 a 41, raccogliendo oltre il 75% degli ebrei d'Italia. Ma perfino il mondo dei ghetti, quale emerge da questo libro, non era un mondo di separatezza. Luogo di segregazione, il ghetto restava pur sempre un luogo di inclusione, nella misura in cui faceva parte integrante del tessuto urbano (e del vissuto quotidiano) dell'una o dell'altra città italiana, Torino o Mantova, Modena o Firenze, Pesaro o Roma.

In fondo, la soluzione del ghetto risparmiò agli ebrei della Penisola il destino storico dell'espulsione, o comunque dell'esclusione. E garantì loro, paradossalmente, una coesione identitaria che sarebbe divenuta difficile dopo la sospirata revoca delle «interdizioni israelitiche».

Il Sole 24 ore – 7 dicembre 2014


Marina Caffiero
Storia degli ebrei  nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione
Carocci, 2014
19,00

Nessun commento:

Posta un commento