Quando Berlinguer annunciava la palude
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di Enrico Berlinguer nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.
Nel venticinquesimo della morte ci si ricorda finalmente di Leonardo Sciascia. Anche Sciascia lanciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: marcia alla conquista del paese. Alludeva al modello siciliano d’impasto tra politica e mafia.
Un impasto nel quale dapprincipio la mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni e si fa Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che questo modello si generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite a Milano e controllano vasti settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di quell’universo orrendo che ruotava intorno alla banda della Magliana, coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo neofascista.
In questi trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia.
Ma un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che si pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per comprendere che moralità e buona politica sono strettamente connesse tra loro nel segno del primato della giustizia e del bene comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni del capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della questione morale e di essere «onesti», per riprendere un lemma sul quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della moralità e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si comprende facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo in cui si giudicano l’ingiustizia sociale e il persistere dei privilegi.
Non è un caso che, riflettendo sulla questione morale, Berlinguer in
quella stessa intervista parli proprio di questo. Della necessità
di difendere «i poveri, gli emarginati, gli svantaggiati» e di
metterli davvero in condizione di riscattarsi. Non è un caso che
rivendichi le lotte del movimento operaio e dei comunisti, non
soltanto contro il fascismo e con gli operai, ma anche al fianco dei
disoccupati e dei sottoproletari, delle donne e dei giovani. Né è
casuale che insista sulle gravi distorsioni, gli immensi costi
sociali, le disparità e gli enormi sprechi generati dal «tipo di
sviluppo economico e sociale capitalistico». Per concluderne che
esso – «causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni
di barbarie» – deve essere superato, pena il verificarsi di una
catastrofe sociale «di proporzioni impensabili».
Oggi come allora la questione morale investe frontalmente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa patologia.
Oggi come allora la questione morale investe frontalmente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa patologia.
Il manifesto, 5 dicembre 2014
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