Mistico laico,
antimoderno profetico eretico liberale, utopista razionale la
ripubblicazione di un genio isolato.
Silvia Ronchey
Il ritorno di Zolla
l’intellettuale uscito dal mondo
Chissà se qualcuno ricorda cosa voleva dire per un adolescente degli anni 70 farsi vedere in giro con in mano un libro di Elémire Zolla o, peggio, con uno dei sottili fascicoli dalla copertina viola della rivista “Conoscenza religiosa”, che Zolla aveva fondato nel 1969 per riunire in un’ideale, composita assemblea intellettuali come Schneider e Corbin, Borges e Pessoa, Florenskij e Heschel, Scholem e Duncan Derrett, Djuna Barnes e Cristina Campo. Nomi che poi la cultura dominante ha accolto e celebrato ma che a quei tempi erano controversi quando non maledetti. E Zolla, antifascista da sempre al contrario di molti suoi detrattori, era considerato politicamente scorretto: uno scrittore proibito. «In Italia non incontrò se non fascisti», scrisse di sé Zolla nella lapidaria voce autobiografica pubblicata nell’Autodizionario degli scrittori italiani alle soglie del suo ultimo decennio di vita.
Fin da ragazzo, a Torino,
aveva disprezzato quella peculiare mistura di intimidazione culturale
e ipocrisia settaria, che allora si incarnava nel fascismo e che a
lui, da sempre poliglotta, abituato ai frequenti espatri, più
apolide che cosmopolita, sembrava tipicamente italiana. «Frequentavo
la scuola fascista con l’animo di Alice fra le bestie e le carte da
gioco», ribadisce in un altro autoritratto. È eloquente il passo di
san Nilo, l’asceta bizantino, messo in exergo nel 1959 a L’eclissi
dell’intellettuale (ora ristampato ne Il serpente di bronzo, il più
recente volume dell’opera omnia di Zolla in corso di pubblicazione
da Marsilio, mentre nel 2016 usciranno in volume unico Archetipi,
Aure, Verità segrete esposte in evidenza): «Colui che si disperde
nella moltitudine ne torna crivellato di ferite».
Quel libro fece di Zolla il saggista più detestato dall’establishment culturale italiano nel periodo precedente al ’68. Il timore del progresso in anni in cui mostrarsi pessimisti voleva dire essere appestati, il liberalismo in politica, l’insofferenza per ogni estremismo, l’amore per la tradizione antica vista come alimento di ogni presente, per la sapienza mistica interpretata da laico, per un oriente cui riconosceva l’immenso debito occidentale facevano di Zolla un precursore. Ma negli anni della sua massima produttività andava troppo controcorrente per non essere – scriverà – «isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere».
Poco dopo il ’68, quando scrisse Che cos’è la tradizione, Zolla era «impensierito dalla depravazione circostante», annunciata peraltro dalla rivoluzione culturale in Cina e dal suo furore distruttivo delle tradizioni universitarie, artistiche, professionali, familiari non solo cinesi, ma del Tibet. Lo stesso rischio di annientamento della tradizione, della catena di trasmissione del sapere, che vedeva profilarsi in Europa, lo aveva spinto a «raccattare ciò che poteva apparire limpido e fermo» nella storia culturale dell’occidente, per farne «il centro di un mandala».
Erano I mistici
dell’Occidente, l’antologia che dai misteri pagani e gnostici a
quelli dei padri della chiesa, dalle orazioni monastiche ed
esicastiche alle visioni di Ildegarda e Caterina, Maria Maddalena de’
Pazzi e Teresa, passando per Ignazio di Loyola e Juan de la Cruz,
Böhme e Kircher, Donne e Silesio, già allineava i temi della sua
riflessione: l’eredità neoplatonica del mondo antico; l’uomo
cosmico nel Rinascimento; il rivivere del simbolismo pagano nel XVI e
XVII secolo.
Fu così che Elémire Zolla uscì dal mondo. Da quello del potere, anzitutto, editoriale e culturale. Il suo fu un cammino a ritroso, un rinfilarsi definitivo nella tana del coniglio di Alice. Ma dal centro del suo mandala, Zolla rimase sempre un filosofo lucido dalla visione pessimistica. «Per trascendere il mondo», scriveva, «bisogna che il mondo ci sia»; preliminare alla conoscenza mistica è «prima la critica del bisogno falso, del consumo coatto, della repressione della natura; poi la configurazione della propria vita nell’ordine anteriore alla modernità».
Una collocazione storica corretta di Zolla è nella linea degli orientalisti romantici e postromantici, con tre punti di riferimento: Schopenhauer, che scoprì l’India; Nietzsche, che capì i guasti dell’occidente e celebrò il dionisismo precorrendo l’apertura su un mondo a molte dimensioni ripresa dalla filosofia della fine del XX secolo; la scuola di Francoforte. Mentre la classe intellettuale si chiudeva nella scolastica tardomarxista, Zolla perorava la «liberazione dal sonnambulismo coatto della società di massa», voleva «definire l’anatomia spirituale dell’uomo nell’insieme delle civiltà religiose della terra», tentava una morfologia spirituale unitaria delle culture del mondo antico, avviava una riflessione sistematica sul lascito speculativo dell’oriente non cristiano al mondo moderno, recuperava una visione del mondo anteriore alla rivoluzione scientifica. Ma, così facendo, restava sempre e del tutto laico: «Non sono credente. Non credo a nulla. So alcune cose, altre le so meno, altre non le so, ma se dovessi dire che so qualcosa perché ci credo direi una menzogna. Non credo che esista un altro mondo oltre a questo. Esiste questo mondo, nei vari momenti in cui si rivela».
Era eminentemente fenomenologica la sua attrazione per le religioni, declinata nelle 7000 pagine di Conoscenza religiosa, che torna in libreria adesso, dopo il primo volume degli scritti zolliani raccolti da Grazia Marchianò nel 2006, con la seconda raccolta ( Civiltà indigene d’America, Edizioni di Storia e Letteratura) uscita pochi giorni fa. Anzi, il suo non risparmiare occasione per stigmatizzare la distanza tra l’adesione confessionale e un’apertura al sacro sincretistica e aliena alle barriere tra i singoli credo non fece che procurargli ulteriori nemici all’interno della cathédrale engloutie della cultura ecclesiastica.
Zolla non era, come molti insinuavano, un elitista o addirittura un reazionario. La questione dell’alto e del basso si era dissolta al momento del suo incontro col buddhismo, quando aveva scoperto la “via di mezzo” di Nagarjuna, il grande filosofo del II secolo, e quando l’immersione nel mondo dei villaggi indiani gli aveva mostrato l’indistinzione tra aristocratico e proletario nella prospettiva razionale della liberazione in vita indicata dalla filosofia buddhista. Dominato dall’amore per gli animali, dal rispetto per ciascun filo d’erba, in lui l’unica aggressività residua fu eventualmente l’intransigenza verso ogni forma di fondamentalismo.
Nel 1959 Eugenio Montale diede di lui quella che forse è la migliore definizione possibile fra le tante banali o variopinte che gli sono state date: “intellettuale eterodosso”, “cercatore di aure”, “glossatore di archetipi”.
Per Montale Zolla è, semplicemente, «uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. È un uomo che non si mette “al di sopra” della mischia, ma che vuole restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta». Anche se l’idea di progresso per Zolla era diabolica, negli ultimi anni lo avevano entusiasmato gli avanzamenti della fisica postrelativista e delle tecnologie informatiche, la rivoluzione digitale. Aveva superato l’idea evoluzionista, otto-novecentesca di progresso come bene assoluto, ma intravedeva nell’avanzamento tecnologico del nuovo secolo la possibilità di uscire dalla schiavitù della macchina e quindi dalla dialettica servo-padrone. Non era contraddizione, ma sincretismo assoluto.
Il
suo pensiero mirava alla redenzione dell’essere umano; a fare di
ogni schiavo il proprio padrone, il regista dei propri sogni, il
protagonista del proprio destino; ad allenarlo alla conquista della
totalità di se stesso. In un quadro di radicale vacuità l’ego si
dissolve. Come Zolla ha scritto nell’introduzione ai Mistici
dell’occidente, riferendosi al Vangelo: «Il figlio del padrone è
colui che obbedisce al destino senza esserne trascinato».
I veri oppressi di oggi «sono coloro che soffrono lo strazio della volgarità e non si lasciano ingannare dalla fiera dei falsi problemi, dalle questioni riducibili a contrasti fra una destra e una sinistra, fra reazione e progresso». Ma hanno al loro fianco la ragione, che, superflua al forte, è l’unica forza dell’oppresso. Perché «per il potente la conoscenza è oggetto di disprezzo o di curiosità o di ornamento: solo la vittima ne ha fame e bisogno».
La Repubblica – 18
dicembre 2015
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