Quest'anno impazza sui
media uno stucchevole dibattito sulla natura del Natale, come sempre
privo di contenuti. Per fare un po' d'ordine riprendiamo alcune
pagine dell'ultimo libro di Guido Araldo.
Guido Araldo
Babbo Natale
Per quanto riguarda le
tradizioni natalizie, è interessante rievocare la storia
straordinaria di Santa Claus, in Italia noto come Babbo Natale. La
sua origine è inequivocabilmente cristiana: si tratta di san Nicola,
vescovo di Myra, decapitato ai tempi dell’imperatore Diocleziano
agli albori del IV secolo.
La fama di San Nicola,
notevole e diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, non deriva
dal suo martirio, ma da un episodio leggendario: tre mele d’oro
depositate sulla finestra di una stamberga, dove tre fanciulle
stavano per essere avviate al “mestiere più antico del mondo” da
un padre vedovo, disoccupato e disperato poiché incapace di
mantenerle. Per la verità, la fama di san Nicola derivava anche da
uno zampillo intermittente d’olio miracoloso, che si diceva fosse
in grado di curare qualsiasi malanno, sgorgante dalla sua tomba
nell’antica città di Myra, sulla costa mediterranea dell’antica
Licia, nell’attuale Turchia.
Un po’ per la
fontanella d’olio taumaturgico e un po’ per la storiella dei tre
pomi d’oro, san Nicola divenne famosissimo nell’Impero Bizantino
e successivamente tale fama dilagò in Russia, principale erede della
cultura dell’impero Romano d’Oriente.
Quando l’Impero
Bizantino entrò in crisi irreversibile a causa dell’invasione
degli Arabi e poi dei Turchi, la città di Bari passò sotto il
dominio normanno, non più soggetta all’autorità di
Costantinopoli, e immediatamente si organizzò un’audace
spedizione. Una nave salpò dal porto delle Puglie con 62 marinai a
bordo, in compagnia dei sacerdoti Lupo e Grimoldo e navigò verso
Oriente: l’obiettivo era Myra dove i marinai, con un autentico
colpo di mano degno dei più audaci pirati, trafugarono il sarcofago
con le spoglie di san Nicola.
Il ritorno a Bari fu un
trionfo: l’8 maggio dell’anno 1087. La leggenda vuole che il
sarcofago, scaricato dalla nave alla presenza di tutta la popolazione
festante, sia stato adagiato su un carro trainato da imponenti buoi
lasciati liberi di vagare per la città e nel luogo in cui si
fermarono, fu edificata una grande basilica, degna di ospitare
spoglie di cotanto santo: l’attuale cattedrale di San Nicola!
Da allora, della storia
dello zampillo d’oro miracoloso non se ne seppe più nulla, anche
perché nel frattempo a Myra erano arrivati i terribili Turchi, con
il turbante in testa e la mezzaluna sul turbante, che di santi come
san Nicola proprio non sapevano che farsene.
Da quel momento la
basilica barese fu meta di grandi pellegrinaggi che persistono
tutt’oggi, anche se con minore intensità rispetto al passato.
La notizia del
trafugamento delle sante spoglie di San Nicola corse per le strade
d’Europa, accompagnata dal suono festoso delle campane, e i
Veneziani, invidiosi del colpo di mano messo a segno dai baresi,
andarono a loro volta a rovistare a Myra, non contenti di essersi già
portati a casa, da Alessandria, le spoglie dell’evangelista Marco.
Erano gli anni della prima crociata, tra il 1099 e il 1100. Si
trattò, più che altro, di una sosta lungo la costa della Licia al
ritorno dalla Terra Senta. Ma potevano i Veneziani tornarsene a casa
a mani vuote? Anch’essi s’impossessarono di un sarcofago e
prontamente dissero che i Baresi si erano sbagliati: alcuni cristiani
di Myra ricordavano che le cerimonie più importanti non erano
celebrate sull’altare maggiore, ma in un altare secondario, dov’era
stato sepolto san Nicola! In tal modo anche i Veneziani festeggiarono
nel Canal Grande le spoglie di san Nicola costruirono una basilica,
al Lido, perché in città c’era già quella di San Marco. Sorse
così l’abbazia di San Nicolò: là dove finisce la laguna e
comincia il mare aperto. Da allora, a San Nicolò del Lido,
protettore della flotta veneziana e guardiano della città sul lato
dell’Adriatico, si sarebbe svolto il rito annuale dello sposalizio
di Venezia con il mare.
Passarono i secoli e,
invece di decrescere, il culto di san Nicola aumentava, essendo
intanto arrivato in Russia, dove riscosse un notevole successo in
questo paese destinato a una grande espansione. Quando fu il turno
dello zar Pietro il Grande, che volle una capitale nuova sul Baltico,
San Pietroburgo, per san Nicola si aprirono orizzonti insperati. In
quella città che andava sorgendo dal fango, tra acquitrini
sconfinati, arrivarono le maestranze dall’Olanda, allorché lo zar
ambì dotarsi di una flotta sul Mare Baltico. E quei maestri d’ascia
si portarono in patria il culto di San Nicola, nonostante fossero in
gran parte protestanti.
Il dono delle tre mele
d’oro non era stato dimenticato e si era trasformato nell’usanza
di offrire ai bambini dolci simili a quei tre bei pomi, in occasione
della festa del Santo che, prima dell’introduzione del calendario
gregoriano, cadeva il 16 di dicembre (data tutt’ora vigente in
Russia e in tutti i paesi di tradizione ortodossa).
Proprio questa data, con
i tre pomi d’oro, palesa un insospettato collegamento tra San
Nicola e Saturno, antichissima divinità italica il cui nome denota
un riferimento a satis: soddisfazione e abbondanza. Saturno il
seminatore: il sator!
L’antichissima frase
che si può leggere da destra a sinistra e viceversa, dall’alto al
basso e dal basso all’alto, sulla quale si sono scervellati schiere
di studiosi. Probabilmente è un’antica preghiera benaugurale
inneggiante al seminatore Saturno, qui chiamato Arepo, che “tiene
l’opera” cosmica e ruota le stagioni. Poco nota, ma illuminante,
la definizione di Saturno come “sator hominum dueorunque”
(Eneide, Virgilio) ovvero padre “inseminatore” degli uomini e
degli dèi. Padre primogenio dell’umanità e della stessa stirpe
divina: “caelestum sator” (Cicerone nelle Tuscolanae e nel De
Natura Deorum). Si consideri, inoltre, la correlazione tra satis (a
sufficienza, appagento, sazietà) e sator… I tre pomi d’oro erano
un’allusione al regno di Saturno: la famosa età dell’oro in cui
c’era abbondanza sulla terra, senza carestia, fame e guerra; quando
gli uomini vivevano in armonia e in pace, senza distinguersi in servi
e padroni: il corrispettivo del Paradiso celeste in terra.
Quelle tre mele d’oro
rievocavano anche la “ricchezza di Saturno”: il dio, a Roma, era
custode del tesoro dello stato, detto aerarium, depositato nel suo
tempio in prossimità dell’antico foro, il centro del mondo.
Saturno era il sommo
custode della ricchezza di Roma e anche un dispensatore di beni.
All’asportazione dell’intoccabile aerarium, effettuata da Pompeo
con Cesare alle porte di Roma, veniva fatta risalire la fine della
stessa Repubblica.
C’erano poi i tre doni
elargiti da Saturno quando, esiliato dall’Olimpo, giunse in Italia
accolto con tutti gli onori dal dio Giano che, addirittura, gli offrì
parte del suo regno. Questi tre doni riguardavano l’agricoltura, la
fondazione delle prime città e la capacità straordinaria della
preveggenza, tipica di Saturno e cara agli aruspici etruschi.
Probabilmente, in
origine, questo dio era il più importante dei numina: gli dèi
tutelari di Roma, che soltanto in seguito, a contatto con la cultura
greca e principalmente con l’ellenismo, acquisì le caratteristiche
di Kronos, diventando padre di Giove.
Proprio in suo onore, a
dicembre, si celebrava la più antica e chiassosa delle feste: i
Saturnali, che inizialmente duravano un giorno soltanto, il 16 o il
17 di dicembre, data illuminante se si considera la festa ortodossa
di San Nicola, per poi prolungarsi di 15 giorni in epoca imperiale,
quando i festeggiamenti a Roma sembravano non finire mai.
San Nicola viene tuttora
raffigurato in solenni abiti vescovili, con lunga barba bianca non
estranea a Saturno.
Per quanto riguarda i
paesi nordici, il collegamento atavico di san Nicola non è con
Saturno, ma con Odino. La tradizione antica di quei popoli vuole che
Wodan (Odino) si cimentasse in grandi battute di caccia in occasione
del solstizio d’inverno, in compagnia dei guerrieri più valorosi,
morti in terribili battaglie. I bambini lasciavano i loro stivaletti
accanto al camino, dopo averli riempiti di rape e carote per sfamare
il cavallo volante del dio Odino, il mitico Sleipnir, ricevendone in
cambio ciambelle e dolcetti. Quest’usanza di lasciare gli
stivaletti dei bambini accanto al camino persistette nel tempo e non
venne meno quando il cristianesimo subentrò al paganesimo, mandando
in pensione il dio Odino o Wodan. Gli stivaletti non venivano più
lasciati accanto al camino, ma sotto le finestre, nella speranza che
i folletti, inviati da San Nicola, li riempissero di dolciumi per i
bambini che erano stati buoni, mentre lasciavano pietre a quelli che
non si erano comportati bene.
Anche l’area tedesca
presentava simili tradizioni invernali riferite ai bambini, che da
Odino transitarono in san Nicola. Nell’iconografia tradizionale il
nordico dio Odino, assai simile al più meridionale Saturno e quindi
a Nicola, presentava identica barba bianca, nonostante fosse guercio.
Tutto lascia supporre che in questa straordinaria peregrinazione
medievale, il culto di san Nicola sia arrivato nei Paesi Bassi molto
prima dei maestri d’ascia che rientravano da San Pietroburgo.
Un archetipo collettivo
ben radicato; al punto che, quando in questa terra dilagò la riforma
protestante, san Nicola non fu messo all’indice, né cancellato.
Chi avrebbe avuto il coraggio di farlo? Chi poteva mandare in
pensione un vecchietto che offriva frittelle e dolcetti ai bambini
nei rigori dell’inverno? Ancora oggi, in Olanda, il 6 dicembre è
tradizione offrire ai bambini doni: giorno in cui si festeggia san
Nicola.
L’Olanda costituì uno
snodo importante per il culto di san Nicola. Gli Olandesi lo
portarono sulle coste del nuovo mondo, nella colonia della Nuova
Olanda al di là dell’Oceano Atlantico, quando fondarono Nuova
Amsterdam che sarebbe diventata New York, allorché arrivarono
gl’Inglesi a metà del XVII secolo. Gli Olandesi amavano chiamare
san Nicola Sinterklaas, storpiatura di Sint Nicolaas (san Nicola), e
gli Inglesi, per quanto protestanti come gli Olandesi, non osarono
trascurare quel vecchietto che rendeva felici i bambini per un
giorno. Lo adottarono pure loro e nello slam newyorkese Sinterklaas
divenne Santa Klaus; ma fecero coincidere la tradizionale offerta di
frittelle e i dolcetti con la festa del Natale, a loro più
congeniale. Il resto lo realizzò la famosa multinazionale Coca Cola,
che acquisì Santa Klaus come simbolo commerciale invernale,
vestendolo di un giubbone rosso con pellicciotto bianco: metamorfosi
che si collega probabilmente ad antiche leggende della Northumbria,
dove un vecchio saggio dalla folta barba bianca, peraltro molto
simile all’iconografia di Saturno e Odino, raccontava storie ai
bambini, accanto al camino.
Poi venne la progressiva
“americanizzazione planetaria”, conseguenza della Seconda Guerra
mondiale, e il Santa Klaus della Coca cola fu esportato in tutto il
mondo. Un processo che nei paesi di tradizione cattolica ha tradotto
Santa Klaus in Babbo Natale, e ha finito per sostituire Gesù Bambino
nella distribuzione dei doni ai bambini nella magica notte del 24
dicembre. Un vecchietto bonario e gaudente, che sembrava apprezzare
prolungate soste nei pub, andò evolvendosi nello “spirito di bontà
del Natale” ad opera dello scrittore Charles Dickens.
Davvero un viaggio
singolare nel tempo e nello spazio quello di San Nicola - Santa Klaus
- Babbo Natale! A mio modesto parere, era più poetico Gesù Bambino…
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