15 dicembre 2015

Cosa c'è dietro Babbo Natale...




Quest'anno impazza sui media uno stucchevole dibattito sulla natura del Natale, come sempre privo di contenuti. Per fare un po' d'ordine riprendiamo alcune pagine dell'ultimo libro di Guido Araldo.

Guido Araldo

Babbo Natale

Per quanto riguarda le tradizioni natalizie, è interessante rievocare la storia straordinaria di Santa Claus, in Italia noto come Babbo Natale. La sua origine è inequivocabilmente cristiana: si tratta di san Nicola, vescovo di Myra, decapitato ai tempi dell’imperatore Diocleziano agli albori del IV secolo.

La fama di San Nicola, notevole e diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, non deriva dal suo martirio, ma da un episodio leggendario: tre mele d’oro depositate sulla finestra di una stamberga, dove tre fanciulle stavano per essere avviate al “mestiere più antico del mondo” da un padre vedovo, disoccupato e disperato poiché incapace di mantenerle. Per la verità, la fama di san Nicola derivava anche da uno zampillo intermittente d’olio miracoloso, che si diceva fosse in grado di curare qualsiasi malanno, sgorgante dalla sua tomba nell’antica città di Myra, sulla costa mediterranea dell’antica Licia, nell’attuale Turchia.

Un po’ per la fontanella d’olio taumaturgico e un po’ per la storiella dei tre pomi d’oro, san Nicola divenne famosissimo nell’Impero Bizantino e successivamente tale fama dilagò in Russia, principale erede della cultura dell’impero Romano d’Oriente.

Quando l’Impero Bizantino entrò in crisi irreversibile a causa dell’invasione degli Arabi e poi dei Turchi, la città di Bari passò sotto il dominio normanno, non più soggetta all’autorità di Costantinopoli, e immediatamente si organizzò un’audace spedizione. Una nave salpò dal porto delle Puglie con 62 marinai a bordo, in compagnia dei sacerdoti Lupo e Grimoldo e navigò verso Oriente: l’obiettivo era Myra dove i marinai, con un autentico colpo di mano degno dei più audaci pirati, trafugarono il sarcofago con le spoglie di san Nicola.

Il ritorno a Bari fu un trionfo: l’8 maggio dell’anno 1087. La leggenda vuole che il sarcofago, scaricato dalla nave alla presenza di tutta la popolazione festante, sia stato adagiato su un carro trainato da imponenti buoi lasciati liberi di vagare per la città e nel luogo in cui si fermarono, fu edificata una grande basilica, degna di ospitare spoglie di cotanto santo: l’attuale cattedrale di San Nicola!

Da allora, della storia dello zampillo d’oro miracoloso non se ne seppe più nulla, anche perché nel frattempo a Myra erano arrivati i terribili Turchi, con il turbante in testa e la mezzaluna sul turbante, che di santi come san Nicola proprio non sapevano che farsene.

Da quel momento la basilica barese fu meta di grandi pellegrinaggi che persistono tutt’oggi, anche se con minore intensità rispetto al passato.

La notizia del trafugamento delle sante spoglie di San Nicola corse per le strade d’Europa, accompagnata dal suono festoso delle campane, e i Veneziani, invidiosi del colpo di mano messo a segno dai baresi, andarono a loro volta a rovistare a Myra, non contenti di essersi già portati a casa, da Alessandria, le spoglie dell’evangelista Marco. Erano gli anni della prima crociata, tra il 1099 e il 1100. Si trattò, più che altro, di una sosta lungo la costa della Licia al ritorno dalla Terra Senta. Ma potevano i Veneziani tornarsene a casa a mani vuote? Anch’essi s’impossessarono di un sarcofago e prontamente dissero che i Baresi si erano sbagliati: alcuni cristiani di Myra ricordavano che le cerimonie più importanti non erano celebrate sull’altare maggiore, ma in un altare secondario, dov’era stato sepolto san Nicola! In tal modo anche i Veneziani festeggiarono nel Canal Grande le spoglie di san Nicola costruirono una basilica, al Lido, perché in città c’era già quella di San Marco. Sorse così l’abbazia di San Nicolò: là dove finisce la laguna e comincia il mare aperto. Da allora, a San Nicolò del Lido, protettore della flotta veneziana e guardiano della città sul lato dell’Adriatico, si sarebbe svolto il rito annuale dello sposalizio di Venezia con il mare.

Passarono i secoli e, invece di decrescere, il culto di san Nicola aumentava, essendo intanto arrivato in Russia, dove riscosse un notevole successo in questo paese destinato a una grande espansione. Quando fu il turno dello zar Pietro il Grande, che volle una capitale nuova sul Baltico, San Pietroburgo, per san Nicola si aprirono orizzonti insperati. In quella città che andava sorgendo dal fango, tra acquitrini sconfinati, arrivarono le maestranze dall’Olanda, allorché lo zar ambì dotarsi di una flotta sul Mare Baltico. E quei maestri d’ascia si portarono in patria il culto di San Nicola, nonostante fossero in gran parte protestanti.

Il dono delle tre mele d’oro non era stato dimenticato e si era trasformato nell’usanza di offrire ai bambini dolci simili a quei tre bei pomi, in occasione della festa del Santo che, prima dell’introduzione del calendario gregoriano, cadeva il 16 di dicembre (data tutt’ora vigente in Russia e in tutti i paesi di tradizione ortodossa).

Proprio questa data, con i tre pomi d’oro, palesa un insospettato collegamento tra San Nicola e Saturno, antichissima divinità italica il cui nome denota un riferimento a satis: soddisfazione e abbondanza. Saturno il seminatore: il sator!

L’antichissima frase che si può leggere da destra a sinistra e viceversa, dall’alto al basso e dal basso all’alto, sulla quale si sono scervellati schiere di studiosi. Probabilmente è un’antica preghiera benaugurale inneggiante al seminatore Saturno, qui chiamato Arepo, che “tiene l’opera” cosmica e ruota le stagioni. Poco nota, ma illuminante, la definizione di Saturno come “sator hominum dueorunque” (Eneide, Virgilio) ovvero padre “inseminatore” degli uomini e degli dèi. Padre primogenio dell’umanità e della stessa stirpe divina: “caelestum sator” (Cicerone nelle Tuscolanae e nel De Natura Deorum). Si consideri, inoltre, la correlazione tra satis (a sufficienza, appagento, sazietà) e sator… I tre pomi d’oro erano un’allusione al regno di Saturno: la famosa età dell’oro in cui c’era abbondanza sulla terra, senza carestia, fame e guerra; quando gli uomini vivevano in armonia e in pace, senza distinguersi in servi e padroni: il corrispettivo del Paradiso celeste in terra.
Quelle tre mele d’oro rievocavano anche la “ricchezza di Saturno”: il dio, a Roma, era custode del tesoro dello stato, detto aerarium, depositato nel suo tempio in prossimità dell’antico foro, il centro del mondo.

Saturno era il sommo custode della ricchezza di Roma e anche un dispensatore di beni. All’asportazione dell’intoccabile aerarium, effettuata da Pompeo con Cesare alle porte di Roma, veniva fatta risalire la fine della stessa Repubblica.

C’erano poi i tre doni elargiti da Saturno quando, esiliato dall’Olimpo, giunse in Italia accolto con tutti gli onori dal dio Giano che, addirittura, gli offrì parte del suo regno. Questi tre doni riguardavano l’agricoltura, la fondazione delle prime città e la capacità straordinaria della preveggenza, tipica di Saturno e cara agli aruspici etruschi.

Probabilmente, in origine, questo dio era il più importante dei numina: gli dèi tutelari di Roma, che soltanto in seguito, a contatto con la cultura greca e principalmente con l’ellenismo, acquisì le caratteristiche di Kronos, diventando padre di Giove.

Proprio in suo onore, a dicembre, si celebrava la più antica e chiassosa delle feste: i Saturnali, che inizialmente duravano un giorno soltanto, il 16 o il 17 di dicembre, data illuminante se si considera la festa ortodossa di San Nicola, per poi prolungarsi di 15 giorni in epoca imperiale, quando i festeggiamenti a Roma sembravano non finire mai.

San Nicola viene tuttora raffigurato in solenni abiti vescovili, con lunga barba bianca non estranea a Saturno.

Per quanto riguarda i paesi nordici, il collegamento atavico di san Nicola non è con Saturno, ma con Odino. La tradizione antica di quei popoli vuole che Wodan (Odino) si cimentasse in grandi battute di caccia in occasione del solstizio d’inverno, in compagnia dei guerrieri più valorosi, morti in terribili battaglie. I bambini lasciavano i loro stivaletti accanto al camino, dopo averli riempiti di rape e carote per sfamare il cavallo volante del dio Odino, il mitico Sleipnir, ricevendone in cambio ciambelle e dolcetti. Quest’usanza di lasciare gli stivaletti dei bambini accanto al camino persistette nel tempo e non venne meno quando il cristianesimo subentrò al paganesimo, mandando in pensione il dio Odino o Wodan. Gli stivaletti non venivano più lasciati accanto al camino, ma sotto le finestre, nella speranza che i folletti, inviati da San Nicola, li riempissero di dolciumi per i bambini che erano stati buoni, mentre lasciavano pietre a quelli che non si erano comportati bene.

Anche l’area tedesca presentava simili tradizioni invernali riferite ai bambini, che da Odino transitarono in san Nicola. Nell’iconografia tradizionale il nordico dio Odino, assai simile al più meridionale Saturno e quindi a Nicola, presentava identica barba bianca, nonostante fosse guercio. Tutto lascia supporre che in questa straordinaria peregrinazione medievale, il culto di san Nicola sia arrivato nei Paesi Bassi molto prima dei maestri d’ascia che rientravano da San Pietroburgo.

Un archetipo collettivo ben radicato; al punto che, quando in questa terra dilagò la riforma protestante, san Nicola non fu messo all’indice, né cancellato. Chi avrebbe avuto il coraggio di farlo? Chi poteva mandare in pensione un vecchietto che offriva frittelle e dolcetti ai bambini nei rigori dell’inverno? Ancora oggi, in Olanda, il 6 dicembre è tradizione offrire ai bambini doni: giorno in cui si festeggia san Nicola.

L’Olanda costituì uno snodo importante per il culto di san Nicola. Gli Olandesi lo portarono sulle coste del nuovo mondo, nella colonia della Nuova Olanda al di là dell’Oceano Atlantico, quando fondarono Nuova Amsterdam che sarebbe diventata New York, allorché arrivarono gl’Inglesi a metà del XVII secolo. Gli Olandesi amavano chiamare san Nicola Sinterklaas, storpiatura di Sint Nicolaas (san Nicola), e gli Inglesi, per quanto protestanti come gli Olandesi, non osarono trascurare quel vecchietto che rendeva felici i bambini per un giorno. Lo adottarono pure loro e nello slam newyorkese Sinterklaas divenne Santa Klaus; ma fecero coincidere la tradizionale offerta di frittelle e i dolcetti con la festa del Natale, a loro più congeniale. Il resto lo realizzò la famosa multinazionale Coca Cola, che acquisì Santa Klaus come simbolo commerciale invernale, vestendolo di un giubbone rosso con pellicciotto bianco: metamorfosi che si collega probabilmente ad antiche leggende della Northumbria, dove un vecchio saggio dalla folta barba bianca, peraltro molto simile all’iconografia di Saturno e Odino, raccontava storie ai bambini, accanto al camino.

Poi venne la progressiva “americanizzazione planetaria”, conseguenza della Seconda Guerra mondiale, e il Santa Klaus della Coca cola fu esportato in tutto il mondo. Un processo che nei paesi di tradizione cattolica ha tradotto Santa Klaus in Babbo Natale, e ha finito per sostituire Gesù Bambino nella distribuzione dei doni ai bambini nella magica notte del 24 dicembre. Un vecchietto bonario e gaudente, che sembrava apprezzare prolungate soste nei pub, andò evolvendosi nello “spirito di bontà del Natale” ad opera dello scrittore Charles Dickens.


Davvero un viaggio singolare nel tempo e nello spazio quello di San Nicola - Santa Klaus - Babbo Natale! A mio modesto parere, era più poetico Gesù Bambino…

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