26 dicembre 2015

RILEGGERE MONTALE


Questa mattina riprendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/  questo invito a rileggere l'opera del grande poeta ligure:

Cosa accade se rileggo Montale

di Paolo Febbraro
a Matteo Marchesini

Da giovanissimo, Eugenio Montale è un rampollo della operosa borghesia ligure, ma è in contrasto col padre, vorrebbe lavorare solo per un obbligo morale e sente che il mondo gli sfugge.
In una sua prosa del 1943, intitolata Ricordo di una spiaggia e poi Una spiaggia in Liguria (ora in Prose e racconti, Mondadori 1995, pp. 657-661), il maturo scrittore rievoca un episodio della giovinezza che parla di una battuta di pesca notturna con due compagni più esperti, e del suo esito poco esaltante:
Sporgendomi dal bordo inclinato reggevo la lanterna ad acetilene e dissimulavo tra uno sbadiglio e l’altro le prime insidie del mal di mare. […] Tugnin mi aveva condotto con sé perché faceva gran conto della mia facoltà di scimmia urlatrice; ma delle mie attitudini nautiche si fidava assai meno e non c’era da illudersi che gli sfuggissero i miei sintomatici sbadigli. La pesca durava già da un paio d’ore e prima avevamo calato i palàmiti di là dal Mesco. All’alba si sarebbe dovuto doppiare ancora il promontorio per salparli […]. Ma che farsene ormai di un aiutante della mia forza? E con qual mezzo rimandarmi a casa? Tugnin e il Gresta si immersero in un lungo colloquio indecifrabile, ficcandomi ogni tanto la lanterna in faccia.. Poi, come gli ultimi sugheri erano ormai venuti su, Tugnin con una rapida palata arenò il gozzetto tra i ciottoli della spiaggia e mi aiutò a scendere. Sudavo a grosse gocce.
Ecco il ragazzo Eugenio rifiutato dal vastissimo seno accogliente, «scimmia urlatrice» che aiuta a terrorizzare i pesci e a spingerli verso la rete, disposta «come si deve, senza varchi o buchi», ma incapace di reggere «ventiquattro ore fra cielo, scogli e mare». Ecco il leggero osso di seppia che viene sputato dalla distesa di metallo liquido e diviene un residuo alienato ma duraceo. Ed ecco anche – in figura, come in ogni autobiografia – il proprio destino: Eugenio cattura i pesci con la propria voce, li accoglie in una rete perfetta, ben disposta, astuta. Ma non chiedetegli di prendere il largo. Più avanti, rimasto sulla proda per tutta la notte, e con un buon fucile in dotazione, incorre in un altro atto mancato. Decide di sparare a qualche uccello, ma sopraggiunge un altro sparo, rivolto a un tasso che a un tratto gli appare di fronte:
Mi-ange, mi-bête, con le mani (o le zampe?) appoggiate a un lastrone, un essere mai veduto mi guardava con occhi umani, incerto sul da farsi. Un uomo non era davvero: aveva piuttosto dell’orso, del porco e del gatto. Alzai il fucile con molta lentezza, gli misi il mirino tra gli occhi, esitai un istante, poi con improvviso proposito, premendo il grilletto (l’animale continuava a guardarmi), scartai la canna in alto per sbagliare il bersaglio. La spallata mi buttò indietro due passi e il fumo della polvere nera mi oscurò per un momento la vista.
Qui dalla voce si passa alla vista: e non si riesce a offendere chi ti guarda con occhi umani ed è incerto sul da farsi. Il grazioso animale, metà angelo e metà bestia, torna a sparire nel folto della vegetazione: è bastato rimandare uno sguardo di fraterna incertezza per salvarsi dalla schioppettata. Al vero cacciatore che aveva sparato, Eugenio mente dicendo di aver «tirato in mare, a un martin pescatore, senza prenderlo», e non alla «bestiaccia» che lui sta cercando: «Possibile non l’avessi vista? Che diavolo facevo là?».
Non c’è che dire, i brani autobiografici sono sempre un messaggio al proprio lettore ipocrita: quello capace di intendere e inseguire la verità all’indietro, fin nelle sue origini remote. Comprendiamo bene, così, perché quel ragazzo si metterà a studiare canto, a leggere i decadenti francesi, a cercare un riscatto nell’Arte musicale dei simbolisti, affannandosi sulla via di una propria carriera mondana, senza riuscire a imboccarla. Persino le fauci infuocate della Grande Guerra non lo ingoiano, lo assaporano appena. Per questo, conserva degli slanci panici e dannunziani nei confronti della natura, vorrebbe fondersi nell’abbraccio (o “accordo”) con il mondo per sfuggire alle detestate angustie borghesi. È attento lettore di Verlaine, di Nietzsche e di Palazzeschi. Progetta di “sparire”, come Perelà, di sciogliersi in qualcosa che oscilli tra la rinuncia e la gloria dionisiaca, innominata. Scrive ventenne nel Quaderno genovese:
Sono certo che tanto il mio nome, quanto la mia opera precipiteranno nell’oblio più assoluto. […] Non mi dispiace affondar nell’ignoto; solo l’ignoto è grande e fecondo e vero; solo esso è tragico e umano (Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Mondadori 1996, p. 1337).
Eppure, nel convulso primo dopoguerra, il nostro giovane indeciso ha il sano istinto di non cadere nelle trappole ideologiche del biennio rosso né tantomeno in quelle giovanilistiche e attivistiche del fascismo. Ha un’intelligenza vigile, cauta, scettica, delusa, e anche un certo bisogno di ritrovarla in altri (come diranno le tante allocuzioni: «Ascoltami, i poeti laureati…»; «Non chiederci la parola…»). Sceglie Piero Gobetti, la rivista «Primo tempo», Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi, con un po’ dello spirito rondista e restauratore alla Emilio Cecchi. Dal 1920 prende a scrivere poesie sul serio: se il mondo conserva il proprio segreto noumenico, Montale crede di doverlo stanare con un gran concerto di bassi, di stridori e di fischi, con lunghe serie enumerative, aiutato in questo dal dantismo pascoliano e dalla enumeración caótica alla Govoni, che Montale stima assai. Iscrivendosi di diritto alla grande scuola moderna dei vedovi della Realtà (ovvero di tutti i realisti volenterosi e di tutti i decadenti sdegnosi, due facce della stessa medaglia), Montale cerca e cercherà a lungo il varco, l’«anello che non tiene» nella catena o nel muro del mondo, che fin dalla prima giovinezza gli appare ispido, armato, spalto inaggirabile che si sottrae all’esplorazione. La poesia diventa lo strumento robusto e vicario per tentare un’espugnazione che pure sa impossibile, se non per epifanie puntuali, spesso legate al sopravvenire di tracce memoriali, e dunque fatalmente legate all’elegia, al canto della perdita. Folto e incisivo, il verseggiare degli Ossi di seppia (intitolati dapprima Rottami) è al tempo stesso solenne e disincantato: pur denunciando le false altezze dei «poeti laureati», non cade nella trasandatezza quotidiana di certi crepuscolari. Dice benissimo Luperini: «È vero tuttavia che il fermo richiamo a una dimensione chiusa e tradizionale del metro, che veniva da Pianissimo di Sbarbaro, permette ora al giovane poeta di calare la tematica moderna (ed “europea”) dell’uomo fallito, spaesato ed esiliato in accenti di una perentorietà cristallina. All’“indecisione” del carattere corrisponderà, di qui in avanti, la “decisione” dello stile» (Storia di Montale, Laterza 1986, pp. 16-17).
Troppo filosofo per credere che la realtà esista e sia permeabile al suo povero Io moderno, e troppo carico viceversa di doveri compensatori en artiste, Montale diventa uno stilnovista roccioso, un Cavalcanti eliotiano che davanti al muro del mare, della donna o di altri misteri universali eseguirà copiosi spartiti musicali, mescolando abilmente arie operistiche ottocentesche e stridori avanguardistici non troppo gesticolati, in omaggio a una misura appunto borghese, a una vigilanza arguta e dignitosa. Gli capiterà, occasionalmente, di celebrare brevi vittorie. Negli Ossi il miracolo quotidiano avviene, ma scavato in un presente imploso, a colpi di piccone o col frinire di una lima. «Arremba su la strinata proda»; «A vortice s’abbatte / sul mio capo reclinato / un suono d’agri lazzi»; «O rabido ventare di scirocco / che l’arsiccio terreno gialloverde / bruci»; «Aggotti, e già la barca si sbilancia / e il cristallo dell’acqua si smeriglia»: in Montale sembra che, rimbalzando scoraggiato dal Mondo inaccessibile, il moto dell’Io lasci spesse tracce sonore sulla cronaca verbale del tentativo infruttuoso: versi rigati, rumorosi, di un’eleganza dissonante, segno di una seduzione esibita proprio nel suo fallimento amoroso.
Insomma, Montale è della «razza / di chi rimane a terra», a registrare incaponito i graffi e i gracchi del proprio lavorìo.
(Fra parentesi: anche Caproni batterà inutilmente contro il muro della terra, da poeta assai più montaliano che sabiano, come invece è stato detto. Ma Caproni intonerà le sue canzonette portando all’estremo quanto di operistico è già in Montale, e avrà una vecchiaia più brillante, una metafisica concreta, una dissociazione più storica e dunque più narrativa, una lingua al tempo stesso più luminosa e molata, scegliendo l’essenziale).
Negli incipit che ho citato, tutto avviene al presente: la bocca del cantore esplode di inarcati stupori e sonanti scoppiettii, che vorrebbero corteggiare l’esperienza mimandola, ripossederla e insieme misurarne in decibel il moto intransitivo e respingente. Tuttavia, se il presente è una testuggine refrattaria, e se «alberi case colli» non sono che proiezioni su uno schermo, allora Montale può capitalizzare poeticamente sia la fragranza dell’ora sia la tradizionale postura dell’elegia. È il massimo che si può ottenere! Il mar ligure ti affronta, ti scuce da dosso i suoni prodotti dalle sue percosse; ma già non è più, è cieca essenza, nucleo d’atomo incommensurabile. Ecco appunto la lunga seduzione timbrica, ecco la sintassi tentacolare e ricomposta, ecco lo spumeggiare frastornante delle sensazioni immediatamente approfondite dalla loro seriosa insensatezza. Arsenio (questo Eugenio riarso) seguita «un ritornello di castagnette» come fosse «il segno d’un’altra orbita», approdando purtroppo al «cenno d’una / vita strozzata» e alla «cenere degli astri»: ma è certo che una parte della materia bruciata era costituita da incensi dannunziani, accesi un po’ ad arte, quasi che la fiamma, in sé, fosse bella.
E la donna, allora? È l’occasione per eccellenza. Sempre letterariamente trasfigurata, sempre accuratamente recintata da un soprannome (Clizia, Volpe, Mosca), sempre rifiutata preventivamente nella sua falsa vivibilità, la donna gli concederà visitazioni, plananti discese, perigliosi e momentanei atterraggi, epigrammatiche elegie “latine”. Ma va conservata nella sua intonsa alterità: è impossibile raggiungere in piroscafo Irma Brandeis senza abbandonare posture stilistiche e nicchie conquistate nel museo della più alta convenzionalità. L’Ermetismo di Montale è stato in buona parte il tentativo di occultare l’oggetto amoroso “per purissima cortesia”.
Ecco perché Montale ha avuto così straordinaria fortuna accademica e in generale critica. È l’Eliot italiano, che eleva a sistema l’irresolutezza o inettitudine sveviana, con il ricorso massiccio al nesso di Stile e tradizione (così il titolo di un saggio del 1925), che può trasformare l’atteggiamento decadente, la sprezzatura avanguardistica e ribellistica in struttura. Montale ha l’abilità di presentarsi come il culmine novecentesco di una lunga storia letteraria, che potrei mettere sotto il titolo generale dell’Amore e l’Occidente, per alludere a Denis de Rougemont. Le tessere citazionistiche, sempre immerse nella densa concretezza nominale di un Pascoli prosciugato, ligure, contribuiscono a fare di Montale l’alfiere di una tradizione diroccata e allusa, terreno di coltura per innumerevoli esercizi di lettura continiani, per sondaggi soddisfatti dalla gemma del ritrovamento, seppure ogni reperto sia stato correttamente distorto dalla intervenuta disarmonia storica. Montale non getta via né parodizza scapigliatamente la tradizione (anzi, la Tradizione con la maiuscola, quella occidentale della perdita platonizzante, dello iato fra noumeno e fenomeno), ma saggiamente la porta con sé, come bagaglio risonante, schioccante, che si avverte a distanza come una sonagliera. La forza di Montale è proprio nel non cadere nell’illusionismo astratto del Grande Simbolismo: la sua poesia è seria, cospicua, corrugata: il male di vivere s’incontra per strada, le ombre tanto amate dai decadenti si stampano su un muro scalcinato, e lui riesce a cantare in rime ricche e nascostamente sovrabbondanti persino quando gli oggetti, tutto intorno, “ragliano” la loro chimica estraneità di abbaglio, muraglia, bottiglia. La lettura di Pascoli (che forse molti francesizzanti mallarmeani non hanno compiuto davvero) gli ha infoltito e insieme raffinato i mezzi di rappresentazione del reale: anche se l’essere rimasto al di qua del muro che lo separa dall’esperienza ha inaridito in lui la lacrima che Pascoli ha sempre pronta sul ciglio, giustificando filosoficamente in Montale un congenito, bramoso sdegno per il poverume o la buona ingenuità («Ah l’uomo che se ne va sicuro…»). Lì è intervenuto Gozzano, con la sua sovrana, arsiccia ironia: lo stesso amore per il canto lirico induce Montale a coltivare sornionamente la grazia goffa e incredibile, ma rigogliosa, della parola ottocentesca, con un sarcasmo un po’ più turbato e partecipe, rispetto al poeta di Torino (che muore nel 1916 di Meriggiare).
Alla lunga, tuttavia il poeta fa fatica a portare questo basto, che gli pesa sempre più sulle spalle fino a diventare troppo gravoso: e questo esattamente dopo il 1956, quando neorealismo e seconda avanguardia prendono a prosaicizzare, abbassare, rinnegare apertamente la sua compensatoria “struttura”. In un’intervista televisiva del 1959 concessa a Leone Piccioni, Montale si fa riprendere sulla terrazza del proprio appartamento milanese mentre dipinge su cartone un vaso di fiori. E afferma: «Io ho cercato dipingendo di ritrovare una certa ingenuità primitivistica dentro di me che naturalmente avevo perduto scrivendo versi, credo di averla trovata, ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere». La stanchezza è infatti, molto presto, la sua musa: stanchezza di dover architettare quella struttura artificiosa, quell’articolata dissimulazione del proprio semplice eccesso emotivo, di dover dimostrare ardua coerenza nei confronti di un immaginario presto emblematico e infine astringente, con la sua rigogliosa negatività. Cerco di immedesimarmi in Montale e di capirlo fraternamente: dal 1925 in poi è stato assunto rapidamente nel cielo della poesia comme il faut, aggredito da una critica entusiasta e demanding, indagato, forzato come una porta blindata a metà, preso a misura. Cosa avrà pensato il Montale poco più che quarantenne leggendo queste e altre simili frasi dell’agguerrito filologo che già anni prima, ventenne, gli aveva dedicato un saggio e che altri gliene dedicherà, nella sua lunga fedeltà?
Il nucleo della lirica di Montale è pertanto un’immagine tipica, un’immagine essenzialmente non irrelata: sia pure poi di difficile o disperata interpretazione; nell’alone poetico di quell’immagine è involto il possibile significato, tutto il travaglio esegetico. Nell’ultima testimonianza-limite codesta forma eccezionale di conoscenza è accettata, si può dire, quasi una nuova convenzione. (Gianfranco Contini, Dagli «Ossi» alle «Occasioni», 1938, in Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi 1974, p. 36)
Come non sentirsi vezzeggiato, quasi imbonito, ma anche scassinato e ricattato, dall’acerrimo Gianfranco Contini, lo stesso che pochi anni prima, nel 1933, aveva scritto (in Introduzione a Eugenio Montale):
Già, il nominare e nominare le cose, un vero delirio di nominare; quell’impressione di gremito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto da intero il libro, corrispondono a una velleità di esercitare la conoscenza del mondo; a una presa di possesso dolorante, perciò ancora virtuale. (Una lunga fedeltà, pp. 11-12)
Non c’è dubbio: essere il frontman della nuova poesia ha i suoi oneri. E onerosa, appunto, mi sembra essere tutta la produzione poetica del “grande Montale”, così come la sua gestione pubblica. Di qui, dicevo, la stanchezza: che tuttavia non si traduce nel silenzio, ma piuttosto (e finalmente) nel suo contrario. Bisogna ricordarsi delle letture palazzeschiane dell’irriverente Montale: «Il poeta si diverte / pazzamente / smisuratamente…». Dopo alcuni anni di scritture in prosa e di repulsiva mutazione, Montale si libera. Alla produzione modernistica (tre soli libri in sessant’anni di vita, per un totale di 260 pagine di poesia: contando da un’età di vent’anni, sono 6 pagine di poesia all’anno), che giocava appunto fra la corposità degli esiti e la ritrosa rarefazione delle apparizioni, fa riscontro quella pletorica degli ultimi venti (Satura, Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi, per un totale di 440 pagine circa).
Montale ha compreso, a un tratto, che la sua stessa poetica stava avallando operazioni terminali. Il gioco non poteva perpetuarsi: i nuovi realismi, il dibattito su letteratura e industria, la cultura di massa e la lingua televisiva, l’emergere dei Laborintus, ovvero dei “laboratori labirintici” dei nuovi linguaggi dello sconquasso e della deriva, stavano per così dire eseguendo la sentenza che in lui era rimasta allo stadio di alta formulazione giuridica, di stilnovistico trobar clus. In più, sul piano della lirica pura, ecco Zanzotto, con il disturbo psico-motorio della sua lingua, la sua radicale nostalgia senza più oggetto plausibile. Nel 1969 Montale legge La beltà e in una celebre recensione decreta perfidamente che la poesia del futuro è in quella disperata schizofrenia: dichiarazione di morte del più grande medico legale.
A lui non rimane che gettare la maschera. Ora che la moglie è morta, può essere assunta nel cielo ribassato della sua poesia, come prima altre figure rigorosamente mancanti. Ecco gli Xenia. Per il resto, il poeta si scatena, si disarticola, e quell’abbassamento è il suo sollievo. Ha dettato i tempi della poesia italiana per decenni, è riuscito a vincere la lunga guerra contro Ungaretti sul suo stesso terreno, quello del post-simbolismo e dell’Ermetismo. E questo grazie alla sua musa più complicata e nutrita, più scandita e severa. È stato evasivo, sfiduciato, scettico, inetto al mondo, lontano dalla politica, deraciné: ma in maniera astutissima, da ricco possidente verbale. Ora però il suo caratteristico “rigoglio negativo” sta andando fuori corso.
A questo punto smetti
dice l’ombra.
[…]
Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l’inutile tua scorza. […]
T’ho ingannato
ma ora ti dico a questo punto smetti […].
C’è poco di più chiaro: la soma della Poesia, di Clizia, del Negativo, del Moderno, del suo roccioso provenzalismo ligure è ormai insopportabile e si stacca dal poeta, come un’ombra, un inganno. Nelle centinaia di versi che si appresta a produrre ancora nel suo ultimo decennio di vita, Montale fa passare per poesia una prosa sentenziosa e tagliata con esattezza, con secca autoparodia: in lui c’è come una nuova leggerezza e insieme un’esasperazione sorda nei confronti dei propri lettori autorevoli, che quell’ombra, quell’inganno hanno preso sul serio, costruendo sistemi e carriere per sé e per altri. Tutto spinge Montale, ora, ad annoverare i propri emblemi sminuiti, ripuliti d’ogni unguento magico o d’ogni responsabilità platonica. Alleviato d’ogni pesante velatura, Montale esprime la sua verbosa, felice delusione, ci ammannisce i propri shorts amari e domestici con l’aria di chi voglia rifornire i filologi degli ultimi enigmi quotidiani, retrattili e autodenigratori, insieme stufi e compiaciuti della propria ripetitiva banalità.
Da sempre allocutiva, fin da quando voleva denunciare gli altrui «bossi, ligustri o acanti», la tarda poesia di Montale smette di metterci sull’attenti, a origliare gli effetti sonori della sua bufera di simboli, e ci chiama dentro una villa ormai gozzanianamente spogliata «da gli antiquari». C’è poco thè nella teiera o nelle tazze spaiate, poche zollette nella zuccheriera e la conversazione di salotto è fatta di vecchi aforismi mondani ben conservati nella credenza o tirati fuori dalle tasche, scritti su fogli a quadretti, per zittire gli ingenui, i creduloni (ovvero i critici accademici) e soprattutto (guai!) gli altri poeti, pensando ai quali neanche adesso Montale riesce a sentirsi secondo. Ormai è un vecchio maestro che ogni santo giorno o quasi ripete a pappagallo che la scuola è finita: «non esistono più i grandi uomini / ne restano inattendibili biografie / nessuno certo scriverà la mia» (da Soliloquio, Quaderno di quattro anni). O ancora, riferendosi alla «tediosa bisava, l’Ispirazione»: «troppe volte ha mentito, ora può scendere / sulla pagina il buio il vuoto il niente» (Il fuoco e il buio, sempre dal Quaderno). Svestito il grave manto della finzione, il nichilismo diventa fastidio, liquidazione, quasi gestaccio (dal Diario del ‘71):
Non mi stanco di dire al mio allenatore
getta la spugna
ma lui non sente nulla perché sul ring o anche fuori
non s’è mai visto.
Forse, a suo modo, cerca di salvarmi
dal disonore. Che abbia tanta cura
di me, l’idiota, o io sia il suo buffone
tiene in bilico tra la gratitudine
e il furore.
E ancora, in termini definitivi (dal Quaderno):
Mezzo secolo fa
sono apparsi i cuttlefishbones
mi dice uno straniero addottorato
che intende gratularmi.
Vorrei mandarlo al diavolo. Non amo
essere conficcato nella storia
per quattro versi o poco più. Non amo
chi sono, ciò che sembro. È stato tutto
un qui pro quo. E ora chi n’esce fuori?
Ho seguito, ancora recentemente grazie a un convegno appositamente dedicatole, la questione dell’autenticità o meno del Diario postumo. Certo stabilirla è interessante: ma lo è molto di più riflettere perché un simile libro sia stato anche soltanto attribuibile a Montale. In questo senso, dev’essersi trattato di un vero e postremo scherzo di Montale ai critici: scrivere un libro (o non scriverlo, ma è uguale) che potrebbero, ormai, scrivere tutti. Sabotaggio di una poesia già sabotata dalla sua stessa insostenibile poetica.
E proprio per questo: come immaginare il Novecento italiano senza Montale? Apparirebbe come una bella casa di vetro e mattoni rossi, ma priva dell’anima di cemento. L’unica vera ripartenza dopo il sommesso abbattimento crepuscolare sarebbe stata quella di Ungaretti, troppo legato al modernismo lirico e soprattutto a uno stanco equivoco petrarchesco-leopardiano per poter durare davvero. E saremmo rimasti con Saba e Penna, grandissimi, ma talmente classici, talmente sovrani di sé stessi da risultare inimitabili, e soprattutto poco influenti, poco spendibili fuori dai nostri confini, poco scalabili, poco esemplari. Montale ci ha salvato agli occhi del mondo: ci ha dato (come Pirandello) quella seria modernità locale-globale che è sempre sfuggita al nostro regionalismo e alle nostre estenuazioni cortigiane o accademiche. Quella modernità non avanguardistica che ci ha iscritto al corso avanzato di letteratura mondiale e ha firmato il libretto delle giustificazioni per la nostra lunga assenza.
Quanto a me, se dovessi fare un’antologia montaliana, prenderei molto dagli Ossi di seppia, molto meno da Occasioni e Bufera, e sorprendentemente parecchio dai libri finali. Oggi, dei versi come questi del terzo tempo di Notizie dall’Amiata
Questa rissa cristiana che non ha
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porcospini
s’abbeverano a un filo di pietà.
destano in me un misto di fastidio e di sorridente ammirazione per il grande stratega, o forse il grande tattico, che Montale è stato. La «rissa cristiana» è metafora ben trovata, sprezzante e distaccata, superiore; e subito – dopo l’ombra e il lamento di prammatica – l’interrogativo patetico fa appena in tempo a porsi che viene riassorbito dal supermontaliano emblema della «gora che s’interra». Se il lamento accennava a una lacrima, il cemento la chiude in rima con virile, disillusa asciuttezza. Montale è puntiglioso nell’onorare la missione di maestro “sliricato”, con tutto ciò che di ancora “lirico” la maestria comporta. Aggiunge immagini («una ruota di mola, un vecchio tronco», «un cumulo di strame») alla propria galleria naturistico-zoologica, spendendo persino la moneta finto-realistica dei porcospini; ma la loro macchia di colore, il loro grumo biologico sono immediatamente revocati dalla grigia funzione simbolica che rivestono. Come al solito, Montale è bravissimo a costruire con materiali di risulta, a reggerli insieme in architetture compatte, di ferma e chiusa eco, sempre un po’ anaerobiche, fino a farne l’ennesima versione del proprio stemma araldico. Se il “tu” è lontano, l’assieparsi degli oggetti è forse schermo e amuleto, ma di certo specchio diroccato del Sé indigente e sottratto alla pienezza.
Eppure, non si avverte nessuna mortificazione, nessun understatement: il meccanismo è ormai un po’ frusto, ma si tratta sempre di “poesia maggiore”, di un dire che sa di essere al centro del proprio tempo; la mola e il tronco sono sì materia aliena da ogni reale dialettica o manipolabilità umana, ma rappresentano pur sempre i «confini ultimi al mondo». Insomma, ancora una volta non occorrono «bossi, ligustri e acanti» a chi riesce a costruire la torre di Babele con umili mattoni. Quelli degli Ossi sembravano appena usciti dal forno che li aveva cotti, questi sono già di repertorio: sono già la «maschera», o «l’ombra» da cui Montale si sente pedinato, falsificato.
Meglio quell’ultimo Montale, allora. Chi non tira un sospiro di sollievo, oggi, passando da «Oh come là nella corrusca / distesa che s’inarca verso i colli», o da «Il rumore degli émbrici distrutti / dalla bufera / nell’aria dilatata che non s’incrina» (primo e terzo incipit della sequenza Tempi di Bellosguardo, in Le occasioni) a «Ascoltare era il solo tuo mondo di vedere. / Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco», quasi un’antonomasia di Satura? Come non riscontrare più libertà, più abbandono, ovvero una più sottile, più onesta letteratura?
Come poeta, ai miei inizi, ho dovuto risalire – come la bellissima anguilla montaliana – alle potenti sculture sonore degli Ossi, che mi hanno aiutato a trovare il tono giusto, a lavorare di taglio, a ispessire le sonde interiori. Attorno a me c’erano i guasti procurati dal Montale prosastico, liquidatorio e vendicativo, ovvero i vari “poeti dispersi” degli anni Settanta. Montale dava ancora l’impressione di scrivere sul risvolto dei propri versi “maggiori”, mentre il cronachismo dei più giovani, nati negli anni Quaranta, non aveva quel background. Quasi peggiori mi apparivano i pasolinismi e le postreme accensioni vitalistico-mortuarie; e impraticabile, perché in cattiva fede, l’avanguardismo. Insomma, i miei padri immediati, o fratelli primogeniti, avevano combinato un sacco di guai: a rappresentarli, piccola bandiera da poco vento, potrei chiamare Magrelli e il tono da colloquio scientifico con cui perimetrava i suoi pensieri sbiaditi. Il Montale degli Ossi – ma dopo Caproni e il Sereni degli Strumenti umani – è stato un rimedio, la possibilità di riattingere una struttura. In tanta deriva, gli Ossi soprattutto sembravano una punta di diamante capace di trapassare il vetro (e il veto) dell’attualità, senza troppe gesticolazioni; e ancora la dura cote su cui affilare le mie lame.
Mi chiedo se Montale abbia avuto sulla mia poesia un’influenza pari a quella esercitata dal poeta che più amo, che è proprio il già citato Umberto Saba: autore più intero e integrato (a dispetto del cuore «in due scisso»), onesto dall’inizio alla fine, prosatore affascinante e pungente, maestro di canto e di brevità, fin troppo impudico per me, che ho ancora da imparare da lui, dal suo coraggio, dal suo cuore.
(luglio-agosto 2015)

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