Questa mattina riprendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/ questo invito a rileggere l'opera del grande poeta ligure:
Cosa accade se rileggo Montale
di Paolo Febbraro
a Matteo Marchesini
Da giovanissimo, Eugenio Montale è un
rampollo della operosa borghesia ligure, ma è in contrasto col padre,
vorrebbe lavorare solo per un obbligo morale e sente che il mondo gli
sfugge.
In una sua prosa del 1943, intitolata Ricordo di una spiaggia e poi Una spiaggia in Liguria (ora in Prose e racconti,
Mondadori 1995, pp. 657-661), il maturo scrittore rievoca un episodio
della giovinezza che parla di una battuta di pesca notturna con due
compagni più esperti, e del suo esito poco esaltante:
Sporgendomi dal
bordo inclinato reggevo la lanterna ad acetilene e dissimulavo tra uno
sbadiglio e l’altro le prime insidie del mal di mare. […] Tugnin mi
aveva condotto con sé perché faceva gran conto della mia facoltà di
scimmia urlatrice; ma delle mie attitudini nautiche si fidava assai meno
e non c’era da illudersi che gli sfuggissero i miei sintomatici
sbadigli. La pesca durava già da un paio d’ore e prima avevamo calato i
palàmiti di là dal Mesco. All’alba si sarebbe dovuto doppiare ancora il
promontorio per salparli […]. Ma che farsene ormai di un aiutante della
mia forza? E con qual mezzo rimandarmi a casa? Tugnin e il Gresta si
immersero in un lungo colloquio indecifrabile, ficcandomi ogni tanto la
lanterna in faccia.. Poi, come gli ultimi sugheri erano ormai venuti su,
Tugnin con una rapida palata arenò il gozzetto tra i ciottoli della
spiaggia e mi aiutò a scendere. Sudavo a grosse gocce.
Ecco il ragazzo Eugenio rifiutato dal
vastissimo seno accogliente, «scimmia urlatrice» che aiuta a
terrorizzare i pesci e a spingerli verso la rete, disposta «come si
deve, senza varchi o buchi», ma incapace di reggere «ventiquattro ore
fra cielo, scogli e mare». Ecco il leggero osso di seppia che viene
sputato dalla distesa di metallo liquido e diviene un residuo alienato
ma duraceo. Ed ecco anche – in figura, come in ogni autobiografia – il
proprio destino: Eugenio cattura i pesci con la propria voce, li
accoglie in una rete perfetta, ben disposta, astuta. Ma non chiedetegli
di prendere il largo. Più avanti, rimasto sulla proda per tutta la
notte, e con un buon fucile in dotazione, incorre in un altro atto
mancato. Decide di sparare a qualche uccello, ma sopraggiunge un altro
sparo, rivolto a un tasso che a un tratto gli appare di fronte:
Mi-ange, mi-bête,
con le mani (o le zampe?) appoggiate a un lastrone, un essere mai
veduto mi guardava con occhi umani, incerto sul da farsi. Un uomo non
era davvero: aveva piuttosto dell’orso, del porco e del gatto. Alzai il
fucile con molta lentezza, gli misi il mirino tra gli occhi, esitai un
istante, poi con improvviso proposito, premendo il grilletto (l’animale
continuava a guardarmi), scartai la canna in alto per sbagliare il
bersaglio. La spallata mi buttò indietro due passi e il fumo della
polvere nera mi oscurò per un momento la vista.
Qui dalla voce si passa alla vista: e
non si riesce a offendere chi ti guarda con occhi umani ed è incerto sul
da farsi. Il grazioso animale, metà angelo e metà bestia, torna a
sparire nel folto della vegetazione: è bastato rimandare uno sguardo di
fraterna incertezza per salvarsi dalla schioppettata. Al vero cacciatore
che aveva sparato, Eugenio mente dicendo di aver «tirato in mare, a un
martin pescatore, senza prenderlo», e non alla «bestiaccia» che lui sta
cercando: «Possibile non l’avessi vista? Che diavolo facevo là?».
Non c’è che dire, i brani autobiografici
sono sempre un messaggio al proprio lettore ipocrita: quello capace di
intendere e inseguire la verità all’indietro, fin nelle sue origini
remote. Comprendiamo bene, così, perché quel ragazzo si metterà a
studiare canto, a leggere i decadenti francesi, a cercare un riscatto
nell’Arte musicale dei simbolisti, affannandosi sulla via di una propria
carriera mondana, senza riuscire a imboccarla. Persino le fauci
infuocate della Grande Guerra non lo ingoiano, lo assaporano appena. Per
questo, conserva degli slanci panici e dannunziani nei confronti della
natura, vorrebbe fondersi nell’abbraccio (o “accordo”) con il mondo per
sfuggire alle detestate angustie borghesi. È attento lettore di
Verlaine, di Nietzsche e di Palazzeschi. Progetta di “sparire”, come
Perelà, di sciogliersi in qualcosa che oscilli tra la rinuncia e la
gloria dionisiaca, innominata. Scrive ventenne nel Quaderno genovese:
Sono certo
che tanto il mio nome, quanto la mia opera precipiteranno nell’oblio più
assoluto. […] Non mi dispiace affondar nell’ignoto; solo l’ignoto è
grande e fecondo e vero; solo esso è tragico e umano (Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Mondadori 1996, p. 1337).
Eppure, nel convulso primo dopoguerra,
il nostro giovane indeciso ha il sano istinto di non cadere nelle
trappole ideologiche del biennio rosso né tantomeno in quelle
giovanilistiche e attivistiche del fascismo. Ha un’intelligenza vigile,
cauta, scettica, delusa, e anche un certo bisogno di ritrovarla in altri
(come diranno le tante allocuzioni: «Ascoltami, i poeti laureati…»;
«Non chiederci la parola…»). Sceglie Piero Gobetti, la rivista «Primo
tempo», Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi, con un po’ dello spirito
rondista e restauratore alla Emilio Cecchi. Dal 1920 prende a scrivere
poesie sul serio: se il mondo conserva il proprio segreto noumenico,
Montale crede di doverlo stanare con un gran concerto di bassi, di
stridori e di fischi, con lunghe serie enumerative, aiutato in questo
dal dantismo pascoliano e dalla enumeración caótica alla
Govoni, che Montale stima assai. Iscrivendosi di diritto alla grande
scuola moderna dei vedovi della Realtà (ovvero di tutti i realisti
volenterosi e di tutti i decadenti sdegnosi, due facce della stessa
medaglia), Montale cerca e cercherà a lungo il varco, l’«anello che non
tiene» nella catena o nel muro del mondo, che fin dalla prima giovinezza
gli appare ispido, armato, spalto inaggirabile che si sottrae
all’esplorazione. La poesia diventa lo strumento robusto e vicario per
tentare un’espugnazione che pure sa impossibile, se non per epifanie
puntuali, spesso legate al sopravvenire di tracce memoriali, e dunque
fatalmente legate all’elegia, al canto della perdita. Folto e incisivo,
il verseggiare degli Ossi di seppia (intitolati dapprima Rottami)
è al tempo stesso solenne e disincantato: pur denunciando le false
altezze dei «poeti laureati», non cade nella trasandatezza quotidiana di
certi crepuscolari. Dice benissimo Luperini: «È vero tuttavia che il
fermo richiamo a una dimensione chiusa e tradizionale del metro, che
veniva da Pianissimo di Sbarbaro, permette ora al giovane poeta
di calare la tematica moderna (ed “europea”) dell’uomo fallito,
spaesato ed esiliato in accenti di una perentorietà cristallina.
All’“indecisione” del carattere corrisponderà, di qui in avanti, la
“decisione” dello stile» (Storia di Montale, Laterza 1986, pp. 16-17).
Troppo filosofo per credere che la
realtà esista e sia permeabile al suo povero Io moderno, e troppo carico
viceversa di doveri compensatori en artiste, Montale diventa
uno stilnovista roccioso, un Cavalcanti eliotiano che davanti al muro
del mare, della donna o di altri misteri universali eseguirà copiosi
spartiti musicali, mescolando abilmente arie operistiche ottocentesche e
stridori avanguardistici non troppo gesticolati, in omaggio a una
misura appunto borghese, a una vigilanza arguta e dignitosa. Gli
capiterà, occasionalmente, di celebrare brevi vittorie. Negli Ossi
il miracolo quotidiano avviene, ma scavato in un presente imploso, a
colpi di piccone o col frinire di una lima. «Arremba su la strinata
proda»; «A vortice s’abbatte / sul mio capo reclinato / un suono d’agri
lazzi»; «O rabido ventare di scirocco / che l’arsiccio terreno
gialloverde / bruci»; «Aggotti, e già la barca si sbilancia / e il
cristallo dell’acqua si smeriglia»: in Montale sembra che, rimbalzando
scoraggiato dal Mondo inaccessibile, il moto dell’Io lasci spesse tracce
sonore sulla cronaca verbale del tentativo infruttuoso: versi rigati,
rumorosi, di un’eleganza dissonante, segno di una seduzione esibita
proprio nel suo fallimento amoroso.
Insomma, Montale è della «razza / di chi rimane a terra», a registrare incaponito i graffi e i gracchi del proprio lavorìo.
(Fra parentesi: anche Caproni batterà
inutilmente contro il muro della terra, da poeta assai più montaliano
che sabiano, come invece è stato detto. Ma Caproni intonerà le sue
canzonette portando all’estremo quanto di operistico è già in Montale, e
avrà una vecchiaia più brillante, una metafisica concreta, una
dissociazione più storica e dunque più narrativa, una lingua al tempo
stesso più luminosa e molata, scegliendo l’essenziale).
Negli incipit che ho citato, tutto
avviene al presente: la bocca del cantore esplode di inarcati stupori e
sonanti scoppiettii, che vorrebbero corteggiare l’esperienza mimandola,
ripossederla e insieme misurarne in decibel il moto intransitivo e
respingente. Tuttavia, se il presente è una testuggine refrattaria, e se
«alberi case colli» non sono che proiezioni su uno schermo, allora
Montale può capitalizzare poeticamente sia la fragranza dell’ora sia la
tradizionale postura dell’elegia. È il massimo che si può ottenere! Il
mar ligure ti affronta, ti scuce da dosso i suoni prodotti dalle sue
percosse; ma già non è più, è cieca essenza, nucleo d’atomo
incommensurabile. Ecco appunto la lunga seduzione timbrica, ecco la
sintassi tentacolare e ricomposta, ecco lo spumeggiare frastornante
delle sensazioni immediatamente approfondite dalla loro seriosa
insensatezza. Arsenio (questo Eugenio riarso) seguita «un ritornello di
castagnette» come fosse «il segno d’un’altra orbita», approdando
purtroppo al «cenno d’una / vita strozzata» e alla «cenere degli astri»:
ma è certo che una parte della materia bruciata era costituita da
incensi dannunziani, accesi un po’ ad arte, quasi che la fiamma, in sé,
fosse bella.
E la donna, allora? È l’occasione per
eccellenza. Sempre letterariamente trasfigurata, sempre accuratamente
recintata da un soprannome (Clizia, Volpe, Mosca), sempre rifiutata
preventivamente nella sua falsa vivibilità, la donna gli concederà
visitazioni, plananti discese, perigliosi e momentanei atterraggi,
epigrammatiche elegie “latine”. Ma va conservata nella sua intonsa
alterità: è impossibile raggiungere in piroscafo Irma Brandeis senza
abbandonare posture stilistiche e nicchie conquistate nel museo della
più alta convenzionalità. L’Ermetismo di Montale è stato in buona parte
il tentativo di occultare l’oggetto amoroso “per purissima cortesia”.
Ecco perché Montale ha avuto così
straordinaria fortuna accademica e in generale critica. È l’Eliot
italiano, che eleva a sistema l’irresolutezza o inettitudine sveviana,
con il ricorso massiccio al nesso di Stile e tradizione (così
il titolo di un saggio del 1925), che può trasformare l’atteggiamento
decadente, la sprezzatura avanguardistica e ribellistica in struttura.
Montale ha l’abilità di presentarsi come il culmine novecentesco di una
lunga storia letteraria, che potrei mettere sotto il titolo generale
dell’Amore e l’Occidente, per alludere a Denis de Rougemont. Le
tessere citazionistiche, sempre immerse nella densa concretezza
nominale di un Pascoli prosciugato, ligure, contribuiscono a fare di
Montale l’alfiere di una tradizione diroccata e allusa, terreno di
coltura per innumerevoli esercizi di lettura continiani, per
sondaggi soddisfatti dalla gemma del ritrovamento, seppure ogni reperto
sia stato correttamente distorto dalla intervenuta disarmonia storica.
Montale non getta via né parodizza scapigliatamente la tradizione (anzi,
la Tradizione con la maiuscola, quella occidentale della perdita
platonizzante, dello iato fra noumeno e fenomeno), ma saggiamente la
porta con sé, come bagaglio risonante, schioccante, che si avverte a
distanza come una sonagliera. La forza di Montale è proprio nel non
cadere nell’illusionismo astratto del Grande Simbolismo: la sua poesia è
seria, cospicua, corrugata: il male di vivere s’incontra per strada, le
ombre tanto amate dai decadenti si stampano su un muro scalcinato, e
lui riesce a cantare in rime ricche e nascostamente sovrabbondanti
persino quando gli oggetti, tutto intorno, “ragliano” la loro chimica
estraneità di abbaglio, muraglia, bottiglia. La lettura di Pascoli (che
forse molti francesizzanti mallarmeani non hanno compiuto davvero) gli
ha infoltito e insieme raffinato i mezzi di rappresentazione del reale:
anche se l’essere rimasto al di qua del muro che lo separa
dall’esperienza ha inaridito in lui la lacrima che Pascoli ha sempre
pronta sul ciglio, giustificando filosoficamente in Montale un
congenito, bramoso sdegno per il poverume o la buona ingenuità («Ah
l’uomo che se ne va sicuro…»). Lì è intervenuto Gozzano, con la sua
sovrana, arsiccia ironia: lo stesso amore per il canto lirico induce
Montale a coltivare sornionamente la grazia goffa e incredibile, ma
rigogliosa, della parola ottocentesca, con un sarcasmo un po’ più
turbato e partecipe, rispetto al poeta di Torino (che muore nel 1916 di Meriggiare).
Alla lunga, tuttavia il poeta fa fatica a
portare questo basto, che gli pesa sempre più sulle spalle fino a
diventare troppo gravoso: e questo esattamente dopo il 1956, quando
neorealismo e seconda avanguardia prendono a prosaicizzare, abbassare,
rinnegare apertamente la sua compensatoria “struttura”. In un’intervista
televisiva del 1959 concessa a Leone Piccioni, Montale si fa riprendere
sulla terrazza del proprio appartamento milanese mentre dipinge su
cartone un vaso di fiori. E afferma: «Io ho cercato dipingendo di
ritrovare una certa ingenuità primitivistica dentro di me che
naturalmente avevo perduto scrivendo versi, credo di averla trovata,
ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto
forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere». La stanchezza è
infatti, molto presto, la sua musa: stanchezza di dover architettare
quella struttura artificiosa, quell’articolata dissimulazione del
proprio semplice eccesso emotivo, di dover dimostrare ardua coerenza nei
confronti di un immaginario presto emblematico e infine astringente,
con la sua rigogliosa negatività. Cerco di immedesimarmi in Montale e di
capirlo fraternamente: dal 1925 in poi è stato assunto rapidamente nel
cielo della poesia comme il faut, aggredito da una critica entusiasta e demanding,
indagato, forzato come una porta blindata a metà, preso a misura. Cosa
avrà pensato il Montale poco più che quarantenne leggendo queste e altre
simili frasi dell’agguerrito filologo che già anni prima, ventenne, gli
aveva dedicato un saggio e che altri gliene dedicherà, nella sua lunga
fedeltà?
Il nucleo della lirica di Montale è pertanto un’immagine tipica, un’immagine essenzialmente non irrelata: sia pure poi di difficile o disperata interpretazione; nell’alone poetico di quell’immagine è involto il possibile
significato, tutto il travaglio esegetico. Nell’ultima
testimonianza-limite codesta forma eccezionale di conoscenza è
accettata, si può dire, quasi una nuova convenzione. (Gianfranco
Contini, Dagli «Ossi» alle «Occasioni», 1938, in Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi 1974, p. 36)
Come non sentirsi vezzeggiato, quasi
imbonito, ma anche scassinato e ricattato, dall’acerrimo Gianfranco
Contini, lo stesso che pochi anni prima, nel 1933, aveva scritto (in Introduzione a Eugenio Montale):
Già, il nominare e
nominare le cose, un vero delirio di nominare; quell’impressione di
gremito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto da intero il
libro, corrispondono a una velleità di esercitare la conoscenza del
mondo; a una presa di possesso dolorante, perciò ancora virtuale. (Una lunga fedeltà, pp. 11-12)
Non c’è dubbio: essere il frontman
della nuova poesia ha i suoi oneri. E onerosa, appunto, mi sembra
essere tutta la produzione poetica del “grande Montale”, così come la
sua gestione pubblica. Di qui, dicevo, la stanchezza: che tuttavia non
si traduce nel silenzio, ma piuttosto (e finalmente) nel suo contrario.
Bisogna ricordarsi delle letture palazzeschiane dell’irriverente
Montale: «Il poeta si diverte / pazzamente / smisuratamente…». Dopo
alcuni anni di scritture in prosa e di repulsiva mutazione, Montale si
libera. Alla produzione modernistica (tre soli libri in sessant’anni di
vita, per un totale di 260 pagine di poesia: contando da un’età di
vent’anni, sono 6 pagine di poesia all’anno), che giocava appunto fra la
corposità degli esiti e la ritrosa rarefazione delle apparizioni, fa
riscontro quella pletorica degli ultimi venti (Satura, Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi, per un totale di 440 pagine circa).
Montale ha compreso, a un tratto, che la
sua stessa poetica stava avallando operazioni terminali. Il gioco non
poteva perpetuarsi: i nuovi realismi, il dibattito su letteratura e
industria, la cultura di massa e la lingua televisiva, l’emergere dei Laborintus,
ovvero dei “laboratori labirintici” dei nuovi linguaggi dello
sconquasso e della deriva, stavano per così dire eseguendo la sentenza
che in lui era rimasta allo stadio di alta formulazione giuridica, di
stilnovistico trobar clus. In più, sul piano della lirica pura,
ecco Zanzotto, con il disturbo psico-motorio della sua lingua, la sua
radicale nostalgia senza più oggetto plausibile. Nel 1969 Montale legge La beltà
e in una celebre recensione decreta perfidamente che la poesia del
futuro è in quella disperata schizofrenia: dichiarazione di morte del
più grande medico legale.
A lui non rimane che gettare la
maschera. Ora che la moglie è morta, può essere assunta nel cielo
ribassato della sua poesia, come prima altre figure rigorosamente
mancanti. Ecco gli Xenia. Per il resto, il poeta si scatena, si
disarticola, e quell’abbassamento è il suo sollievo. Ha dettato i tempi
della poesia italiana per decenni, è riuscito a vincere la lunga guerra
contro Ungaretti sul suo stesso terreno, quello del post-simbolismo e
dell’Ermetismo. E questo grazie alla sua musa più complicata e nutrita,
più scandita e severa. È stato evasivo, sfiduciato, scettico, inetto al
mondo, lontano dalla politica, deraciné: ma in maniera
astutissima, da ricco possidente verbale. Ora però il suo caratteristico
“rigoglio negativo” sta andando fuori corso.
A questo punto smetti
dice l’ombra.
[…]
Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l’inutile tua scorza. […]
T’ho ingannato
ma ora ti dico a questo punto smetti […].
dice l’ombra.
[…]
Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l’inutile tua scorza. […]
T’ho ingannato
ma ora ti dico a questo punto smetti […].
C’è poco di più chiaro: la soma della
Poesia, di Clizia, del Negativo, del Moderno, del suo roccioso
provenzalismo ligure è ormai insopportabile e si stacca dal poeta, come
un’ombra, un inganno. Nelle centinaia di versi che si appresta a
produrre ancora nel suo ultimo decennio di vita, Montale fa passare per
poesia una prosa sentenziosa e tagliata con esattezza, con secca
autoparodia: in lui c’è come una nuova leggerezza e insieme
un’esasperazione sorda nei confronti dei propri lettori autorevoli, che
quell’ombra, quell’inganno hanno preso sul serio, costruendo sistemi e
carriere per sé e per altri. Tutto spinge Montale, ora, ad annoverare i
propri emblemi sminuiti, ripuliti d’ogni unguento magico o d’ogni
responsabilità platonica. Alleviato d’ogni pesante velatura, Montale
esprime la sua verbosa, felice delusione, ci ammannisce i propri shorts
amari e domestici con l’aria di chi voglia rifornire i filologi degli
ultimi enigmi quotidiani, retrattili e autodenigratori, insieme stufi e
compiaciuti della propria ripetitiva banalità.
Da sempre allocutiva, fin da quando
voleva denunciare gli altrui «bossi, ligustri o acanti», la tarda poesia
di Montale smette di metterci sull’attenti, a origliare gli effetti
sonori della sua bufera di simboli, e ci chiama dentro una villa ormai
gozzanianamente spogliata «da gli antiquari». C’è poco thè nella teiera o
nelle tazze spaiate, poche zollette nella zuccheriera e la
conversazione di salotto è fatta di vecchi aforismi mondani ben
conservati nella credenza o tirati fuori dalle tasche, scritti su fogli a
quadretti, per zittire gli ingenui, i creduloni (ovvero i critici
accademici) e soprattutto (guai!) gli altri poeti, pensando ai quali
neanche adesso Montale riesce a sentirsi secondo. Ormai è un vecchio
maestro che ogni santo giorno o quasi ripete a pappagallo che la scuola è
finita: «non esistono più i grandi uomini / ne restano inattendibili
biografie / nessuno certo scriverà la mia» (da Soliloquio, Quaderno di quattro anni).
O ancora, riferendosi alla «tediosa bisava, l’Ispirazione»: «troppe
volte ha mentito, ora può scendere / sulla pagina il buio il vuoto il
niente» (Il fuoco e il buio, sempre dal Quaderno). Svestito il grave manto della finzione, il nichilismo diventa fastidio, liquidazione, quasi gestaccio (dal Diario del ‘71):
Non mi stanco di dire al mio allenatore
getta la spugna
ma lui non sente nulla perché sul ring o anche fuori
non s’è mai visto.
Forse, a suo modo, cerca di salvarmi
dal disonore. Che abbia tanta cura
di me, l’idiota, o io sia il suo buffone
tiene in bilico tra la gratitudine
e il furore.
E ancora, in termini definitivi (dal Quaderno):getta la spugna
ma lui non sente nulla perché sul ring o anche fuori
non s’è mai visto.
Forse, a suo modo, cerca di salvarmi
dal disonore. Che abbia tanta cura
di me, l’idiota, o io sia il suo buffone
tiene in bilico tra la gratitudine
e il furore.
Mezzo secolo fa
sono apparsi i cuttlefishbones
mi dice uno straniero addottorato
che intende gratularmi.
Vorrei mandarlo al diavolo. Non amo
essere conficcato nella storia
per quattro versi o poco più. Non amo
chi sono, ciò che sembro. È stato tutto
un qui pro quo. E ora chi n’esce fuori?
sono apparsi i cuttlefishbones
mi dice uno straniero addottorato
che intende gratularmi.
Vorrei mandarlo al diavolo. Non amo
essere conficcato nella storia
per quattro versi o poco più. Non amo
chi sono, ciò che sembro. È stato tutto
un qui pro quo. E ora chi n’esce fuori?
Ho seguito, ancora recentemente grazie a un convegno appositamente dedicatole, la questione dell’autenticità o meno del Diario postumo. Certo stabilirla è interessante: ma lo è molto di più riflettere perché un simile libro sia stato anche soltanto attribuibile
a Montale. In questo senso, dev’essersi trattato di un vero e postremo
scherzo di Montale ai critici: scrivere un libro (o non scriverlo, ma è
uguale) che potrebbero, ormai, scrivere tutti. Sabotaggio di una poesia
già sabotata dalla sua stessa insostenibile poetica.
E proprio per questo: come immaginare il
Novecento italiano senza Montale? Apparirebbe come una bella casa di
vetro e mattoni rossi, ma priva dell’anima di cemento. L’unica vera
ripartenza dopo il sommesso abbattimento crepuscolare sarebbe stata
quella di Ungaretti, troppo legato al modernismo lirico e soprattutto a
uno stanco equivoco petrarchesco-leopardiano per poter durare davvero. E
saremmo rimasti con Saba e Penna, grandissimi, ma talmente classici,
talmente sovrani di sé stessi da risultare inimitabili, e soprattutto
poco influenti, poco spendibili fuori dai nostri confini, poco
scalabili, poco esemplari. Montale ci ha salvato agli occhi del mondo:
ci ha dato (come Pirandello) quella seria modernità locale-globale che è
sempre sfuggita al nostro regionalismo e alle nostre estenuazioni
cortigiane o accademiche. Quella modernità non avanguardistica che ci ha
iscritto al corso avanzato di letteratura mondiale e ha firmato il
libretto delle giustificazioni per la nostra lunga assenza.
Quanto a me, se dovessi fare un’antologia montaliana, prenderei molto dagli Ossi di seppia, molto meno da Occasioni e Bufera, e sorprendentemente parecchio dai libri finali. Oggi, dei versi come questi del terzo tempo di Notizie dall’Amiata
Questa rissa cristiana che non ha
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porcospini
s’abbeverano a un filo di pietà.
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porcospini
s’abbeverano a un filo di pietà.
destano in me un misto di fastidio e di
sorridente ammirazione per il grande stratega, o forse il grande
tattico, che Montale è stato. La «rissa cristiana» è metafora ben
trovata, sprezzante e distaccata, superiore; e subito – dopo l’ombra e il lamento
di prammatica – l’interrogativo patetico fa appena in tempo a porsi che
viene riassorbito dal supermontaliano emblema della «gora che
s’interra». Se il lamento accennava a una lacrima, il cemento la chiude
in rima con virile, disillusa asciuttezza. Montale è puntiglioso
nell’onorare la missione di maestro “sliricato”, con tutto ciò che di
ancora “lirico” la maestria comporta. Aggiunge immagini («una ruota di
mola, un vecchio tronco», «un cumulo di strame») alla propria galleria
naturistico-zoologica, spendendo persino la moneta finto-realistica dei
porcospini; ma la loro macchia di colore, il loro grumo biologico sono
immediatamente revocati dalla grigia funzione simbolica che rivestono.
Come al solito, Montale è bravissimo a costruire con materiali di
risulta, a reggerli insieme in architetture compatte, di ferma e chiusa
eco, sempre un po’ anaerobiche, fino a farne l’ennesima versione del
proprio stemma araldico. Se il “tu” è lontano, l’assieparsi degli
oggetti è forse schermo e amuleto, ma di certo specchio diroccato del Sé
indigente e sottratto alla pienezza.
Eppure, non si avverte nessuna mortificazione, nessun understatement:
il meccanismo è ormai un po’ frusto, ma si tratta sempre di “poesia
maggiore”, di un dire che sa di essere al centro del proprio tempo; la
mola e il tronco sono sì materia aliena da ogni reale dialettica o
manipolabilità umana, ma rappresentano pur sempre i «confini ultimi al
mondo». Insomma, ancora una volta non occorrono «bossi, ligustri e
acanti» a chi riesce a costruire la torre di Babele con umili mattoni.
Quelli degli Ossi sembravano appena usciti dal forno che li
aveva cotti, questi sono già di repertorio: sono già la «maschera», o
«l’ombra» da cui Montale si sente pedinato, falsificato.
Meglio quell’ultimo Montale, allora. Chi
non tira un sospiro di sollievo, oggi, passando da «Oh come là nella
corrusca / distesa che s’inarca verso i colli», o da «Il rumore degli
émbrici distrutti / dalla bufera / nell’aria dilatata che non s’incrina»
(primo e terzo incipit della sequenza Tempi di Bellosguardo, in Le occasioni) a «Ascoltare era il solo tuo mondo di vedere. / Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco», quasi un’antonomasia di Satura? Come non riscontrare più libertà, più abbandono, ovvero una più sottile, più onesta letteratura?
Come poeta, ai miei inizi, ho dovuto risalire – come la bellissima anguilla montaliana – alle potenti sculture sonore degli Ossi,
che mi hanno aiutato a trovare il tono giusto, a lavorare di taglio, a
ispessire le sonde interiori. Attorno a me c’erano i guasti procurati
dal Montale prosastico, liquidatorio e vendicativo, ovvero i vari “poeti
dispersi” degli anni Settanta. Montale dava ancora l’impressione di
scrivere sul risvolto dei propri versi “maggiori”, mentre il cronachismo
dei più giovani, nati negli anni Quaranta, non aveva quel background.
Quasi peggiori mi apparivano i pasolinismi e le postreme accensioni
vitalistico-mortuarie; e impraticabile, perché in cattiva fede,
l’avanguardismo. Insomma, i miei padri immediati, o fratelli
primogeniti, avevano combinato un sacco di guai: a rappresentarli,
piccola bandiera da poco vento, potrei chiamare Magrelli e il tono da
colloquio scientifico con cui perimetrava i suoi pensieri sbiaditi. Il
Montale degli Ossi – ma dopo Caproni e il Sereni degli Strumenti umani – è stato un rimedio, la possibilità di riattingere una struttura. In tanta deriva, gli Ossi
soprattutto sembravano una punta di diamante capace di trapassare il
vetro (e il veto) dell’attualità, senza troppe gesticolazioni; e ancora
la dura cote su cui affilare le mie lame.
Mi chiedo se Montale abbia avuto sulla
mia poesia un’influenza pari a quella esercitata dal poeta che più amo,
che è proprio il già citato Umberto Saba: autore più intero e integrato
(a dispetto del cuore «in due scisso»), onesto dall’inizio alla fine,
prosatore affascinante e pungente, maestro di canto e di brevità, fin
troppo impudico per me, che ho ancora da imparare da lui, dal suo
coraggio, dal suo cuore.
(luglio-agosto 2015)
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