J. P. Sartre negli anni sessanta del secolo scorso sosteneva che il marxismo era l' orizzonte culturale del nostro tempo, "insuperabile fino a quando le condizioni materiali che l' hanno generato non fossero esse stesse superate" (Critica della ragione dialettica).
Credo ancora che avesse ragione Sartre e, ancora di più di quest'ultimo, il nostro Antonio Gramsci che aveva persino anticipato il francese nel rilevare la storicità del pensiero di Marx. Anche per questo non mi sorprende che, in piena egemonia neoliberale, venga pubblicata una nuova « storia del marxismo».
Pubblichiamo di seguito un brano dell’introduzione scritta dal curatore.
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Stefano Petrucciani
Una teoria che non fa scuola
L’impatto che Karl Marx
ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così
forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro
pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno
lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente
e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma
per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla
storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere
a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la
singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il
fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un
organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in
entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le
sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico,
ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto
che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del
Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima
Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.
Certo, una duplice
dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può
anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da
Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le
dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della
visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi
pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica
dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo
e attraverso complesse mediazioni, i partiti
socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così
largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece,
Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una
parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
La forza degli inediti
Un aspetto di questa
duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole
definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si
designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare
perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una
corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari
ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento
«statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste
o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso
si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso
sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi
all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti.
Ma che rapporto c’è
tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che
deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo
punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di
Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo
immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si
potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di
contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un
«ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una
certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto
decisamente molto critico e problematico.
Molti dei suoi scritti,
Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li
scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni
dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può
essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali
si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni
Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica
della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel
1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti
economico-filosofici del 1844.
Non solo, abbandonò in
soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni
tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello
che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione
dell’amico Engels,L’ideologia tedesca; un testo non certo
trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia
delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che
costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda
del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti
concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò
pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867,
e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione
delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia
politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così
importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del
Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che
uscì in Germania orientale nel 1953.
Come Engels giustamente
osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx
tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di
militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure
la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della
storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un
rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto
con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi
hanno combattuto».
Una visione politica
In tutta la sua vita,
anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante
e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un
combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista
sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui
era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa
visione della lotta e della emancipazione della classe operaia,
che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti
leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta
politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.
La più netta delle
opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi
è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale
dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la
negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà
privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni
e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria
Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri
socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue
acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista
o migliorista.
Al testamento spirituale
di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi
anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della
socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai
leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel
settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato
dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti,
a darne una lettura riformista o «revisionista».
Ma torniamo al processo
di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che
l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un
significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale
(fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx,
e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come
«marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di
«mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si
rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.
Le accuse di settarismo
I «marxisti» sono visti
dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria
che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei
lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per
certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882
nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le
marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il
libello è quello del confronto interno al socialismo francese
tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx
e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in
riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di
osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa,
che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse
d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo».
La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato,
dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che
viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al
socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al
leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che
non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente
francese che al suo nome veniva accostata.
Sta di fatto, comunque,
che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico
e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente
fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei
socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx
in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che
non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio
a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò
alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien
Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).
Fu così che anche
Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine
che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del
movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo
e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una
parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato
Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di
Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una
interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue,
Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero
mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata
a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo
opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il
termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia
tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante
e talvolta anche ossessivo.
Il rischio del fideismo
Ma il punto più
importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di
Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo».
Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che
Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale
si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che
trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di
pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco
con rischi di dogmatismo e di fideismo.
Si annida qui un
problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di
fermarsi per un momento a riflettere. La storia degli effetti
del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe
voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta:
l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che
ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri
percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare
l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare
la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una
teoria che potesse anche diventare una operativa forza di
trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui
nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni
politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento
ideale.
Questo processo comportò
però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il
riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il
pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo
di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica
e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi
criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una
«dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile
con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
Il manifesto - 8 dicembre
2015l
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