13 dicembre 2015

MARIO DONDERO: UNA VITA ALL'ALTEZZA DELLE MARGHERITE.

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Ieri a 87 anni è morto Mario Dondero, uno dei più grandi fotografi del 900. VIVERE ALL'ALTEZZA DELLE MARGHERITE era uno dei suoi motti preferiti. Ci piace ricordarlo stamattina  con un articolo ed alcune sue foto pubblicate su Alfabeta qualche mese fa.



Sono un franco tiratore, un freelance, dice di sè Mario Dondero. È la professione del fotogiornalista: calma e gesso, come i giocatori di biliardo, attende il suo istante. Poi il fotografo scatta, mentre il giocatore di biliardo colpisce la palla, carambola, buca.
Questa professione di sè, declinazione dell’identità di un fotografo e del saper fare di un mestiere (la fotografia è sempre un mestiere per Dondero), si ascolta nel video-ritratto di Marco Cruciani Calma e gesso - in viaggio con Mario Dondero, autofinanziato grazie ai contributi raccolti sulla piattaforma di crowdfunding Produzioni dal basso, e in parte proiettato nella mostra alle Grandi Aule delle Terme di Diocleziano a Roma fino al 22 marzo. Dondero l’ha disseminata qui e lì. Nelle interviste, in brevi e luminosi scritti, poi nelle monografie a lui dedicate, infine nel libro con Emanuele Giordana Lo scatto umano.
Due sono gli elementi che spiegano la sua “fotografia sociale”: la guerra e la ricerca di libertà. Elementi che si trovano intrecciati in questa definizione del freelance come franco tiratore. La tradizione del fotogiornalismo che l’ha ispirata è quella degli ungheresi André Kertész, Brassaï, László Moholy-Nagy, Martin Munkácsi, Simon Guttmann che nel 1928 creò la “Dephot”, l’agenzia berlinese madre di tutte le agenzie fotografiche, Stefan Lorant fondatore del «Picture Post». Più di tutti Robert Capa – Endre Ern Friedmann. Reporter di guerra che ha inventato il reportage di guerra, con foto diventate mitiche. Capa raccolse l’istante della morte del miliziano repubblicano caduto nella battaglia di Cerro Muriano nel 1936 per un colpo dei fascisti di Franco.

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Senza nazione, né passaporto
Nato con la guerra, questo reporter freelance rinasce - e incarna una certa origine della fotografia - in una delle figure più irregolari, pericolose, e ambivalenti del conflitto corsaro, banditesco, terrorista. Infine della guerra partigiana. Definirsi come franco tiratore significa questo. Il contenuto dell’immagine trasforma dunque l’identità di chi la scatta. E, del resto, coglie l’atmosfera propizia di una stagione creativa del fotogiornalismo mondiale che Dondero non smette di rivendicare quando racconta il suo lavoro.
Nella fotografia, dice Dondero, c’è una venatura tzigana, uno spirito vagabondo, zingaresco, nomade. Tutto il contrario di come il fotogiornalista è stato inteso in Italia: vieni qua a fotografare l’onorevole, l’impresario, l’attore. Questa idea servile della fotografia deriva, probabilmente, dall’idea che un bravo fotografo in fondo non ha nemmeno una nazione, o non si sente legato a un passaporto. Questo induce i nativi, o i dominanti, al disprezzo. Perché non ha un lavoro, i suoi prodotti sono un contorno della pietanza principale. Per il fotografo l’articolo che illustra. Per i precari il lavoro salariato, o dipendente, che servono. Ma cosa succede quando sono milioni di persone a trovarsi nella posizione del freelance, fino ad oggi considerato come un’isola in un mare di normalità?
Storia di una lancia libera
“Un fotografo libero che preferisce la categoria dei freelance perché non lega la fotografia a una testata di appartenenza e lascia libero anche lo sguardo di poter vagare su ciò che più lo colpisce”. Così Dondero spiega l’allegoria del franco tiratore: colui che colpisce o viene colpito. Questa teoria del “colpo”, allo stesso tempo attivo e passivo, richiama lo “choc” percettivo di Walter Benjamin sul flâneur o sulla fotografia. Qui non c’è solo un’assonanza, ma una linea di continuità. Tutto torna nella carta di identità presentata dal fotogiornalista. Il franco tiratore colpisce, e viene colpito. Dalla vita, dalle immagini, dalle persone.
A questo si può aggiungere la traduzione letterale dell’espressione. Il freelance è una “lancia libera”. Lo è sin dall’origine, visto che questa parola, diventata di uso comune anche in Italia, indica il fante che dava la carica nello scontro tra gli eserciti. Il suo compito è di andare avanti, sostenendo solo la sua lancia. Anzi, il fante è la sua lancia. Come il fotografo è il suo scatto, prima ancora di essere la sua fotografia.
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Sergio Bologna ha allargato, e attualizzato, il significato: la lancia libera è il lavoratore autonomo contemporaneo a partita Iva.Tale lavoratore può essere inteso come l’antico “soldato di ventura”. Assoldato da un committente, come il fotogiornalista lo è da una redazione, da un capitano di ventura, un signore, un monarca alla ricerca di un esercito personale. In questa condizione si sono ritrovati tutti i lavoratori indipendenti fino alla nascita dell’industrialismo e della manifattura capitalistica. Al termine di questa lunga, e travagliata stagione, è ormai chiaro che la condizione del lavoro torna ad essere quella dei “soldati di ventura”.
Lo choc della vita
Quando Dondero parla di sè come franco tiratore parla di un futuro che riguarda tutti. Certo non tutti possono essere considerati freelance - cioè puri lavoratori autonomi come i fotogiornalisti avventurieri e nomadi che aspirano a percepire un reddito dignitoso esclusivamente dalle loro attività di lance libere. Ma moltissimi oggi si trovano nella posizione precaria di cercare una committenza, una corvée, un contatto, un’occasione per potere mettere insieme il pranzo con la cena. Non è il ruolo che qui ci interessa, ma la condizione che raccoglie una molteplicità di ruoli.
L’ambivalenza che il freelance deve affrontare sta nel suo nome: free, infatti, può significare in inglese sia libero che gratis. Il problema di chi è, o si ritrova in questa condizione, è il pagamento delle prestazioni. Nel lavoro contadino, dove si è sofferto per secoli il problema dell’intermediazione delle attività attraverso la mezzadria, questo problema è stato il motivo scatenante delle rivolte. Nella crisi attuale, la fine dell’intermediazione ha generato il problema opposto: il rapporto personale con il committente è degenerato a tal punto da rendere universale il ricorso al lavoro gratuito o volontario. Dalla violenza di questo trattamento, il freelance di Dondero rifugge. Perchè ha il mondo a sua disposizione.
Vita dura, quella del franco tiratore. Il fotografo è un individuo fragile, è protetto pochissimo, assai meno del giornalista come categoria (non certo come freelance, la maggioranza degli apolidi che la costituiscono, ormai). Come i banditi è esposto alle peggiori sanzioni - l’essere bandito dalla città - senza avere spesso nemmeno la solidarietà delle testate per cui lavora. Ma la sua è una vita virtuosa. Il virtuosismo si spiega nella metafora sul giocatore di biliardo.
Per Dondero la fotografia è un gioco di abilità, un’affinamento della grazia, capace di carambolare tra angoli e traiettorie sbilenche, per centrare imprevedibilmente - ma immancabilmente - la buca-bersaglio-fotografia. Tutto questo è la vita del freelance, cioè dell’apolide senza nazione, né passaporto. Nella città assediata del lavoro salariato e della retorica lancinante della competizione e della meritocrazia, quella che abbonda anche nel campo dell’informazione ed è l’espressione dell’egemonia del capitale finanziario.
Virtuosismo
Approfondendo la metafora militare, il freelance - inteso come franco tiratore - è un soggetto senz’altro attivo in un conflitto, e non solo un’operaio di giornata. Egli difende, ed afferma, il suo virtuosismo, la sua grazia. L’espressione franco tiratore è presente nella lingua italiana sin dal 1870 e sembra sia stata importata dalla Francia dalle cronache giornalistiche sulla guerra franco-prussiana. In origine, questa espressione indica la guerra partigiana e, più tardi, il terrorismo urbano. I Franc-Tireurs operarono nella regione dei Vosgi nel 1792, nel 1815 e nel 1870 secondo le modalità della guerriglia, individuale o per piccoli gruppi, contro gli eserciti regolari.
Rispuntarono nella Francia di Vichy negli anni Trenta e Quaranta e tra le loro schiere c’erano molti italiani emigrati e fuggiaschi dal fascismo. In seguito, questo modello è stato riadattato in Italia, a partire dall’esperienza dei Gap. Per tutto il secondo Dopoguerra, questo modello di combattimento è stato adottato nelle guerre di liberazione anticoloniale. Per tornare a essere adottata in Europa negli anni Settanta. In questi stessi anni - potenza del linguaggio e dell’immaginario politico - il franco tiratore viene declinato sia come terrorista urbano che come cecchino parlamentare. Da eroe a nemico della nazione, e del consesso civile, in 150 anni. Il freelance, cioè la figura contemporanea del lavoro indipendente, si trova nel mezzo. Ed esprime un divenire.
Caccia alla Bestia
Ad arricchire ulteriormente l’allegoria del fotografo in quanto franco tiratore è un ultimo, e decisivo, significato. Viene dalla letteratura, e in particolare dalla poesia di Giorgio Caproni. Nella raccolta poetica Il franco cacciatore, da leggere insieme alle successive Il conte di Kevenhüller e Res Amissa, il poeta italiano elabora la figura del franco cacciatore. La sua origine viene dall’opera romantica in tre atti Der Freischutz, scritta da Johann August Apel e Friedrich Laun e musicata da Carl Maria von Weber nel 1821.
Nella poesia di Caproni il franco cacciatore va alla caccia di Dio, la cosa mancante. Il dramma è teologico, ma la poesia ha il merito di aprire i significati di questa caccia (effettuata tra il bosco e un’osteria). Ad essere cacciata è la Besta innominabile di cui parla il poeta francese René Char, tradotto da Caproni. E di cui parla anche il filosofo francese Maurice Blanchot, conosciuto da Caproni. In questo caso, la caccia alla Bestia diventa un’allegoria del linguaggio, di una “parola che dona voce all’assenza” . La Bestia è anche assassina: “che nessuno mai vide. / La Bestia che sotterraneamente / – falsamente mastina – / Ogni giorno ti elide. / La Bestia che ti vivifica e uccide… / Io solo, con un nodo in gola, / sapevo. / È dietro la parola”. (Conte di Kevenhüller).

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La Bestia è quella che Dondero definisce l’irraccontabile. “I concerned photographers, i fotografi di impegno civile - racconta - spesso hanno una vita difficile: vogliono raccontare l’irraccontabile, quello che non si può o non si deve raccontare. Devono affrontare censure e resistenze, sia quelle delle istituzioni politiche sia quelle che esistono in seno alle stesse redazioni dei giornali. Questo è il fotogiornalismo cui mi sento più vicino e di cui mi piace parlare”.
Ciò che è fondamentale per la comprensione del nuovo soggetto del lavoro contemporaneo è la reversibilità dei ruoli. L’allegoria la spiega benissimo: per Caproni è quella tra il cacciatore e il guardacaccia: da un lato, colui che vuole sparare a Dio, dall’altro lato colui che vuole impedire la caccia di frode. Nella poesia di Caproni questi ruoli si confondono, sino al punto di sovrapporsi in un’unità da cui sfuggire. Tale reversibilità rispecchia la condizione del freelance in una zona grigia tra il lavoro autonomo e lavoro eterodiretto dove il singolo può ricoprire, a volte contemporaneamente, il ruolo di datore di lavoro e di lavoratore, cioè di controllore e di controllato.
Scattare la vita
Per il freelance contemporaneo questo significa essere un lavoratore autonomo, ma anche dipendere da un committente, a seconda degli incarichi o dei progetti commissionati. Non solo: il freelance è anche libero. Come lo è, con grazia, Mario Dondero. A livello individuale sperimenta il virtuosismo, come si è detto. La sua fotografia tuttavia produce una relazione. O meglio, sta nella relazione tra gli uomini e le donne: “A me le foto interessano come collante delle relazioni umane - aggiunge Dondero - e come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”. Da qui nasce una teoria della cittadinanza fatta dall’apolide-freelance-fotografo: “Sono un cittadino che guarda e un essere umano solidale con altri che racconta la vita”.
Il fatto dell’esistere. Scattare la vita. La vita che scatta. Da qui l’espressione: lo scatto umano. Lo scatto è quello della macchina fotografica. Ma è anche lo scatto della vita, come slancio, energia, partenza, ritorno. Avventura picaresca. Questa è la libertà di cui parla Dondero e in essa si riconosce un bergsonismo naturale, intuitivo. Ma se ripensiamo questa libertà in termini politici, torniamo a riflettere sulla potenza inquietante del freelance come franco tiratore. Nel suo porsi, con grazia, nella vita Mario Dondero indica una libertà inaccessibile al cittadino-lavoratore: la reversibilità dei ruoli sociali.
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Di questo parla la poesia di Caproni, in cui abbiamo trovato il riferimento filosofico della definizione di Dondero. La reversibilità tra cacciatore e guardiacaccia, così come tra la preda e il franco cacciatore, in Caproni arriva al punto da smaterializzare la caccia, oltre che il viaggio nel bosco necessario per cacciare. “Se non dovessi tornare/ sappiate che non sono mai partito/Il mio viaggiare/è stato tutto un restare/qua, dove non fui mai” (Il Franco Cacciatore).
Anche questa condizione ritorna anche nell’esperienza del lavorare oggi. Il lavoro, in sè, è smaterializzato, come la Bestia. Non è più, solo, una cosa, ma è una relazione. Una relazione con un oggetto assente o sfuggente, che cambia continuamente. Come la vita che il fotografo rappresenta. L’oggetto in questione è il tempo: il tempo delle relazioni, il tempo necessario per eseguire un incarico; il tempo pagato o non pagato di una vita messa al lavoro. Questo è il lavoro, oggi: assente, o in ritardo, desiderato e cacciato. E chi lo cerca, resta nello stesso posto. E riparte. Come un partigiano in guerra. All’attacco in un territorio che Caproni definiva disabitante, cioè che si svuota progressivamente e si ripopola.
Spatriato
Ancora più interessante è la caratterizzazione del franco cacciatore come spatriato. Scrive Caproni: “Lo hanno portato via/ dal luogo della sua lingua/ Lo hanno scaricato male/ in terra straniera./ Ora, non sa più dove sia/ la sua tribù. È perduto/ Chiede. Brancola. Urla/ Peggio che se fosse muto”. “È la condizione dell’uomo d’oggi - aggiunge Caproni in una nota - sradicato dalle proprie origini e perduto nella massiccia società metropolitana”. Lo spatriato, in questo caso, è il poeta.
Questa, oggi, è la condizione di tutti i lavoratori indipendenti, e precari. E di un fotografo come Mario Dondero. Lo spatriato non riesce a nominare più il suo lavoro. Non solo perchè è in atto da almeno vent’anni un opera di continua deregolamentazione del lavoro, ma perchè il lavoro in quanto attività produttiva non riesce più garantire uno scambio equo e un reddito per la sopravvivenza a chi presta la sua forza lavoro.
Anche questa è l’esperienza del franco cacciatore sulle tracce della bestia metafisica. Giorgio Agamben ha segnalato come il cacciatore per eccellenza nella Bibbia sia il gigante Nemrod, lo stesso cui la tradizione attribuisce il progetto della torre di Babele, la cui cima doveva toccare il cielo. Nel libro della Genesi Nemrod viene definito “robusto cacciatore di fronte a Dio” e per questo Dante nella Commedia lo punisce facendogli perdere il linguaggio. Nemrod è un artigiano che ambisce a costruire una lingua perfetta per attribuire alla ragione un potere illimitato. Per questo viene punito.
Nella stessa condizione si trova il freelance la cui unica colpa è ambire ad essere autonomo in un mondo dove vige solo il lavoro salariato, e la sua povertà. A questa condizione viene sottratto anche il nome. Per definirla si ricorre a vuoti neologismi - come precarietà - o aggettivi banali ispirati a dati di fatto - la maggioranza invisibile. Ciò che sfugge a queste rappresentazioni, ispirate sia alla teologia (“San precario”) e comunque ad un’antropologia negativa tipica dell’austerità (“debitori” ad esempio) è che il freelancing è una caratteristica - non l’unica- della vita operosa di tutti e di ognuno.

Articolo pubblicato il · in AlfaDomenica 

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