La moglie di Cesare e il padre di Maria Elena Boschi
di Roberto Saviano
Molti si sono preoccupati di dare
ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui
il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento
anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno
sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che,
salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano
politico. Ma non è così.
Perché la Banca sia fallita – dopo essere
stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni – è compito
degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso
moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi
del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un
esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può
sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per
molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di
centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o
addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non
risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo
è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo
poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il
Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà
principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.
Quando è iniziata la paura di aprire un
serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo
ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto
per dimenticarlo del tutto il mese successivo?
Proviamo a immaginare per un attimo
che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è
suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria,
fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto
un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi
di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli
altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni.
Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai
politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?
All’alba della Terza Repubblica un
ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una
vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione
principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise
di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il
Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria,
aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare
la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la
sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello
icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della
Libertà era solo un luogo dove ognuno – e i potenti ancor di più –
facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi
ad hoc.
Si torna sempre a Berlusconi, ma del
resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il
presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai
particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere
annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori,
giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono
sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla
politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile
rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire
il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono
stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di
Erdoğan o la Russia di Putin – amici dichiarati del nostro ex Presidente
– perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul
supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza
per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e
giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano Repubblica un maestro
indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò
il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta,
poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il
dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e
quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio
dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di
Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello
che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato
nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra
capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo
di governo?
Perché era giusto sotto Berlusconi
chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta
che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e
tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava
a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma
si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri
zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione cosi
importante e oggettiva?
Se Berlusconi, che per anni abbiamo
considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica
conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la
stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna
caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce
dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità,
ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci
l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di
politici senza passato. Banalmente – questa la narrazione dei media di
centrodestra – potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre,
si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono
più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri
dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il
centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato
il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.
O forse le ragioni della attuale
timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti
prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo
prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia
spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso
improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.
Del resto come si comunica contro gli
hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente
cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo.
Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue
forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e
per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un
modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.
Ma non cadiamo nella trappola: la
felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui,
non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è
insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e
considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che
il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto
il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e
ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.
Fonte: http://www.ilpost.it/2015/12/11/saviano-boschi/
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