14 dicembre 2015

J. P. SARTRE IN ITALIA



Dagli anni '40 all'incontro con Togliatti, alla collaborazione con gli intellettuali italiani, alla partecipazione a numerosi convegni e la vicinanza con i movimenti della sinistra. Un ampio stralcio della comunicazione di Luciana Castellina al Convegno su Sartre tenuto all’Università di Roma III. Un articolo interessante, anche se, come sempre nel caso dei “vecchi” del Manifesto, viziato da una totale incapacità di fare i conti con Togliatti maitre dello stalinismo in salsa italiana.

Luciana Castellina

Sartre in Italia

(…) La prima volta che seppi di Sartre in Italia fu quando arrivò nel nostro paese anche Ridgwey, capo delle Forze armate americane, e dunque della Nato, che noi chiamavamo «il generale peste». Perché aveva minacciato l’uso delle armi chimiche nel caso la guerra da fredda fosse diventata calda. Ci stupimmo che il già assai celebre filosofo francese esternasse in quella occasione il suo giudizio sull’importante ufficiale ricorrendo a toni quasi simili a quelli delle nostre grida nelle manifestazioni di protesta.

Doveva aver appena scritto I comunisti e la pace, un testo che gli costò, con grande dolore, l’amicizia di Camus e di Merlau-Ponty. Anche a lui non piaceva né il PCF e tanto meno l’Urss, ma rifiutava di unirsi al coro di chi denunciava lo stalinismo perché in un momento in cui così alta e rischiosa era la tensione causata dall’aggressività americana bisognava — diceva — schierarsi.

E lui si schierò con i comunisti. Con quelli francesi, tuttavia, non era facile; molto più naturale con quelli italiani che veniva conoscendo grazie a quei suoi primi viaggi in Italia. Perché erano diversi. (Non tutti diversissimi, comunque: basti leggere la prefazione di Mario Alicata al libro del ’65 — Il filosofo e il politico, che raccoglie molti saggi dell’intellettuale francese — per trovare non poche tracce della supponenza tipica anche di molti quadri italiani e in particolare di Alicata.

Quanto scrive Sartre, dice Alicata, è spesso «sbagliato», «sgradevole» e persino «offensivo» per i sentimenti dei nostri militanti. E si potrebbe chiedermi perché dunque abbiamo pubblicato i suoi saggi, per di più presso una Casa Editrice popolare come gli Editori Riuniti. Perché — conclude — è bene riflettere sugli altri, ma anche su sé stessi. Farlo, in particolare sulla storia delle società socialiste — aggiunge — è urgente».

In quegli anni c’era già stato il rapporto su Stalin, Kruscev, prime aperture. E tuttavia un libro come quello nessun altro PC lo avrebbe proposto. Anche questo un segno della diversità del comunismo italiano, anche se Alicata, allora responsabile della commissione culturale del partito, ci teneva a conservare le distanze rispetto alle critiche al PCUS, un atteggiamento che poi condusse come è noto alla radiazione del gruppo promotore del Manifesto. (Un ritardo che al PCI costò non poco).

Sartre era arrivato in Italia già alla fine degli anni 40, via Milano, e segnatamente del Politecnico di Vittorini che, assieme ad altri intellettuali di quella città, costituivano il motore del rinnovamento culturale, l’ala moderna e cosmopolita dell’intellighentia italiana, rimasta molto chiusa e provinciale per via del lunghissimo periodo fascista. Centro del dibattito comunista milanese era la Casa della Cultura, all’epoca ancora in un prestigioso palazzo requisito che si dovette poi restituire per trasferirsi in una cantina a Via Borgognona.

A dirigerla un filosofo marxista molto importante, Antonio Banfi, direttore della prestigiosa rivista Studi filosofici. È qui che arrivano per la prima volta intellettuali d’oltreconfine e l’eco della sociologia d’oltreoceano. E però si giunge presto alla rottura con Roma. È noto l’attacco, peraltro di insolita rozzezza, che Togliatti stesso porta a Vittorini su Rinascita e che si conclude con l’ allontanamento dal PCI dello scrittore, e con la chiusura del Politecnico, che aveva nel frattempo stabilito un organica collaborazione con la rivista fondata da Sartre nel 1945, Les Temps Modernes. Lo scontro culturale ha riflessi anche sul rapporto con Antonio Banfi (casus belli è un attacco di Studi Filosofici a uno scritto di Kanepa, responsabile cultura del PCF, un fatto imbarazzante per la difficile diplomazia comunista.(…)

Milano tuttavia non demorde. Lo scantinato di via Borgognona diventa, e resterà a lungo, sotto la direzione di Rossana Rossanda, il vivacissimo centro del rinnovamento culturale italiano. Non solo: nel 1962 è proprio Togliatti che nomina Rossana, pur animatrice di quella semi-dissidenza, responsabile della Commissione culturale nazionale, prestigiosissima collocazione in un’epoca in cui cultura e politica erano ancora strettamente intrecciate. A un anno dalla morte di Togliatti, agosto 1964, Rossana scrive ricordando il trauma della rottura con Vittorini: a motivare Togliatti — dice — fu certamente la sua estraneità all’orizzonte culturale che a Milano era stato aperto.

Quella cultura la sentiva come un corpo estraneo che aveva sedotto solo alcuni intellettuali del nord. Il partito si identificava invece nel filone storicista di De Santis e Labriola, e in quella «cultura nazionale» si installò. C’è, in questa scelta, anche il riflesso di una non sanata differenziazione fra nord e sud; e non è un caso che proprio il contrasto fra un meridionalismo allineato sull’idea di una Italia premoderna, e chi nello stesso partito considerava invece il paese ormai segnato dalle nuove contraddizioni delle società capitalistiche mature, sia pure intrecciate alla persistente arretratezza, diventi il centro dello scontro politico. Quello fra ingraiani e amendoliani che infuoca l’XI congresso del PCI; e che poi diventerà uno dei temi di fondo della rottura del Manifesto.

E però, nota acutamente Rossana, con il suo storicismo Togliatti creò una sorta di ammortizzatore che aiutò ad assorbire senza traumi eccessivi i processi involutivi del movimento comunista internazionale, a relativizzarli.«Proprio quel filone aiutò il PCI a trovare in sé gli anticorpi». Naturalmente anche e soprattutto per via di Gramsci, il cui pensiero Togliatti si impegnò a diffondere, così aiutando il partito a sottrarsi al tentativo di una sua ala di reclutarlo alla più piatta tradizione storicista. Ed infatti, in contrasto con quella stroncatura zdanoviana del ’48, il PCI finisce per aprirsi alla cultura europea: il rapporto con Sartre è stato, da questo punto di vista, esemplare.

Un rapporto con il Partito, ma anche molto personale con Togliatti. Tant’è vero che quando il segretario del PCI muore Sartre scrive una lunghissima lettera al partito italiano che l’Unità pubblica per intero a tutta pagina (e Temps Modernes riprende col titolo «Il mio amico Togliatti»). «Sono uno straniero — scrive Sartre-e tuttavia sento il lutto dell’Italia come il mio lutto. La singolarità del vostro partito saltava agli occhi. Lo amavamo. Ho capito alla fine che quanto amavo sopratutto in quel partito era Togliatti».

«Non è lui che ho conosciuto per primo — scrive ancora. Ho conosciuto prima altri, al Congresso di Vienna per la pace, e questi si distinguevano per libertà di parola, lucidità, pensiero, autoironia leggera, che però mai metteva in discussione l’appartenenza. Attorno a loro c’era molto Marx. Ma loro non lo citavano, applicavano i suoi principi. Il marxismo con loro diventava ciò che deve essere: un immenso e paziente sforzo di ricerca, che intrecciava teoria e pratica, una permanente riflessione su sé stessi. Pensavo dipendesse dall’Italia. Ma il PCI era l’Italia. Poi, quando ho conosciuto Togliatti, mi sono detto: l’Italia è lui».
Dopo aver riferito molti anneddoti, in cui racconta di Togliatti senza guardie del corpo né stuoli di accompagnatori come gli altri leader importanti, della sua leggerezza, normalità, della sua non separatezza, curiosità intellettuale, continua scrivendo: «Per questo in Italia ci sono tanti intellettuali comunisti, pochissimi di destra. E i migliori giornali di sinistra, i peggiori della destra. Per questo il Pci non è solo il partito degli operai, ma dell’intellettuali, è il più intelligente dei partiti. L’amavo. Togliatti lo ritrovavo in tutti i comunisti che incontravo. Come se un gigante si fosse insinuato per magia nel piccolo corpo di un professore di liceo. Questo era il mio amico Togliatti».(…)
La lettera è molto significativa del rapporto che Sartre ebbe con il PCI: fondato più che sulla sostanza teorica o politica, sul tratto che di questo partito l’aveva entusiasmato: la sua unicità. Quello che faceva dire a Togliatti stesso che il PCI era «una giraffa». Un animale del tutto anomalo, che non ha altri riscontri in natura, con quel suo collo e quelle sue gambe lunghissime, per l’appunto anormali. Fu, infatti, un rapporto caro al filosofo perché ispirava il suo essere un intelletuale engagé, militante.

Direttamente Togliatti Sartre l’aveva incontrato solo nel ’61, grazie a Rossana. Il filosofo era andato a chiederle, a Botteghe Oscure, se il PCI avrebbe obiettato a che in Italia venisse rappresentata la sua opera teatrale Le mani sporche, che lui stesso, nel 1952, aveva proibito che andasse in scena nel timore venisse strumentalizzata in senso anticomunista. Adesso decide di consentirlo in Italia, perché — dice — «si fida dell’Italia e del PCI». (E infatti verrà rappresentata a Torino, e Sartre lo annuncerà in una conferenza stampa a Parigi in cui dice che il permesso vale solo per l’Italia e che si tratta di «un gesto di fiducia verso l’Italia e in particolare verso i comunisti italiani che sono quelli che hanno spinto più avanti il dibattito sui problemi della cultura e sul rapporto intellettuali e partito»).

Quando Rossana riferì a Togliatti della richiesta di Sartre lui si incuriosì e chiese di conoscerlo. E così — mi raccontò già allora Rossana — il segretario del PCI lo invitò a cena in un ristorante di via Mario dei Fiori, a tavola anche Nilde Iotti e Simone de Bauvoir. A quel punto i rapporti fra il filosofo e il PCI erano diventati organici, importante il primo convegno promosso nel 1961 dall’Istituto Gramsci, sulla «soggettività», i cui atti già pubblicati su Aut Aut in Italia e poi su Temps Modernes nel 1993, sono stati riediti in Francia l’anno scorso e ora vengono ridati alle stampe in Italia. «È passato un anno dalla pubblicazione della più importante opera filosofica di Sarte — Critica della Ragione dialettica — e i due prefatori dell’edizione francese si chiedono come mai questa conferenza si è tenuta a Roma e non, come sarebbe stato normale, a Parigi. Spiega lo storico francese Marc Lazard: «Il PCF riservava agli intellettuali tutt’al più il ruolo di esperti, il PCI favoriva invece il loro intervento nella definizione della politica». Per questo Sarte aveva scelto l’Italia.

Sono andata a cercare nel faldone conservato all’Istituto Gramsci e debbo dire che ancor più che il merito degli interventi — molto vivaci e polemici l’uno con l’altro, molte le interruzioni — si coglie il senso di quell’iniziativa guardando la lista dei partecipanti: sono tutti militanti, filosofi anche, naturalmente, ma molti membri del Comitato centrale, funzionari, parte viva del dibattito e del lavoro politico del Partito. Non si tratta di un appuntamento accademico, insomma, anche se i professori sono tanti: Paci, Luporini, Lombardo Radice, Colletti, Della Volpe, Valentini, Semerari, Guttuso, Alicata e, curiosamente, uno scrittore non comunista, Guido Piovene. (Mi è venuto da piangere per la nostalgia di quella politica).

Negli anni successivi i convegni con Sartre si sono susseguiti numerosi, dal più importante «Morale e Società», nel 1964, cui assiste lo stesso Togliatti, ad altri anche non nella capitale. Che continuano a discutere di Sartre anche dopo la sua morte (l’ultimo, credo, organizzato negli anni ’80 dalla nostra compagna Sandra Teroni e promosso dal Comune (ancora) rosso di Viareggio!). Sartre è diventato «autore di casa» anche sull’Unità: a sfogliare il giornale del decennio ’60 ogni pochi giorni si trovano pagine scritte dal filosofo o a commento di quello che dice e che fa a Parigi, persino una lunghissima lettera inviata al direttore che il giornale pubblica per intero, in cui Sartre polemizza con i critici cinematografici dell’Unità perché hanno stroncato il film L’infanzia di Ivan di Tarkovskij, pur premiato a Venezia con il Leone e che lui, Sartre, considera invece, una delle più belle pellicole mai viste. Solo in URSS, l’unico paese dove la parola «progresso» ha oggi un senso — scrive — poteva farsi questo film sul prezzo che il progresso e la storia fanno pagare agli uomini.
Il filosofo frequenta molto l’Italia. A Roma alloggia all’hotel Nazionale, di fianco a Montecitorio, ed è facile trovarlo con Simone, intento a leggere i giornali o a scrivere, nei bar delle piazze adiacenti. Capita anche a noi dell’«area ingraiana» che comincia a configurarsi di fermarsi a chiacchierare. Fin dall’inizio Sartre, attraverso Temps Modernes, comincia infatti anche a impicciarsi del dibattito politico interno al PCI. Lo fa la prima volta dedicando un intero numero della rivista ad un convegno del 1962 dell’Istituto Gramsci che ebbe allora molto rilievo: «Tendenze del neocapitalismo».

Si può dire che oltre al rapporto diretto che Sartre ebbe per molti anni con Rossana quel numero di Temps Modernes segna l’incubazione del legame che poi si sviluppò con Il Manifesto. La rivista pubblica infatti — sotto il titolo generale «Fatti e problemi della lotta operaia» — come «documenti» le relazioni tenute da Amendola e Trentin, accompagnate da un dibattito in cui intervengono due notissimi dirigenti, Vittorio Foa e Lelio Basso. E però anche un lunghissimo saggio di un giovane sconosciuto, Lucio Magri, estensione dell’intervento che aveva pronunciato nel convegno e con cui Amendola aveva aspramente polemizzato: «Modello di sviluppo e problemi dell’alternativa proletaria».

Uno scritto che peraltro André Gorz, curatore del numero, riprende ampiamente nella sua introduzione: «Nel momento in cui la produzione potrebbe avere per la prima volta come fine lo sviluppo integrale dell’individuo, cerca invece di estendere la sua dittatura su tutti i terreni, ivi compresi quelli della formazione delle idee». Per la prima volta il dibattito nel PCI viene animato dalla messa in discussione della modernità capitalista, della qualità della crescita, dell’alienazione e del consumismo, tutti i temi che saranno poi al centro delle Tesi del Manifesto. Nel ’66 Temps Modernes ripubblica nuovamente due saggi sui Fronti polari, in polemica fra loro, usciti su Critica marxista: uno di Amendola, «Rileggendo Dimitrov», l’altro di Magri, «Valori e limiti dell’esperienza dei fronti popolari».(…)

Nel frattempo Togliatti è morto, si è tenuto l’XI congresso del PCI con la conseguente emarginazione dell’area ingraiana, ed è scoppiato il ’68. Subito dopo è uscita la rivista Il manifesto. Il rapporto di Sartre con il PCI si è incrinato e si è invece saldato subito quello con il Manifesto. Ancor prima che uscisse il numero 1 della rivista diretta da Magri e Rossanda, Temps Modernes comincia la pubblicazione dell’intero libro scritto da Magri su I fatti di maggio (saranno tre puntate), e poi subito, un primo scritto del Manifesto: un mio lungo «Rapporto sulla Fiat» e, nello stesso numero, uno scritto di Sofri e Luperini «Quali avanguardie? Quale organizzazione?».

Nel primo numero di settembre del 1969 de Il manifesto — quello del famoso articolo «Praga è sola» — escono una serie di scritti sul tema già da allora al centro dell’attenzione della nuova sinistra (tuttora): il rapporto fra masse e partito, fra spontaneità e coscienza. Sotto il titolo comune «Partito e classe» un saggio di Rossana «Da Marx a Marx», uno di Magri e Maone «L’organizzazione comunista», uno di Pintor, «Il partito ’nuovo’». E la preziosa registrazione di una discussione sul tema — «Il rischio della spontaneità e la logica dell’istituzione» — fra direzione della Rivista e Sartre stesso. Si svolse il 27 agosto attorno al grande tavolo verde di Piazza del Grillo, redazione e abitazione comune della rivista.

Il mese successivo Temps Modernes la riprende interamente assieme al saggio di Rossana. Accompagnadoli con un trafiletto: «Nel prossimo numero Temps Modernes darà conto del dibattito che ha portato alla rottura fra il gruppo dirigente del PCI e il gruppo de Il Manifesto e, alla fine, alla sua radiazione». «Che — aggiunge la rivista — non costituisce affatto una sconfitta». L’interesse di Sartre per Il Manifesto, e anche in parte per Lotta Continua, prosegue negli anni ’70. Quando esce il quotidiano Sartre si è già impegnato nella politica militante francese scrivendo On a raison de se revolter e partecipando alla nascita della «Gauche proletarienne» che, a sua volta, darà vita a un quotidiano, Libération. È da noi, al Manifesto, che vennero a vedere come si faceva a fare un giornale senza soldi (come del resto fece poco dopo la Tage Zietung (Tatz)).

La «Gauche Proletarienne» ebbe vita breve e oscillante, continuò solo il giornale, e continua ancora, ma i «vecchi» non ci sono più e Libè ha cambiato natura. Sartre si era nel frattempo già ammalato, era diventato cieco e, via via, sempre più fino alla sua morte nell’80, smise di seguire le vicende italiane. L’unico suo scritto sul Manifesto quotidiano è singolare: un vero reportage da Parigi nel 1972, dal titolo: «Rispunta il razzismo»: «L’assassinio di Mohamed Diab da parte del brigadiere Marquet — si legge– ci ha aperto gli occhi. Non voleva starsene quieto — si è giustificato. Bande misteriose a Parigi e a Lione operano di notte sgozzando e annegando gli arabi. In dieci anni il razzismo si è ricostituito».


Il manifesto – 5 dicembre 2015

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