Si è inaugurato ieri a Napoli il XIII Convegno Compalit, Chi ride ultimo. Parodia satira umorismo, dedicato a Giancarlo Mazzacurati e curato da Francesco De Cristofaro. Pubblichiamo in anteprima, grazie al sito ,uno stralcio della relazione su Riso e compassione, che Thomas G. Pavel terrà oggi pomeriggio. La traduzione è di Ornella Tajani
Riso e compassione
di Thomas G. Pavel
«Ride ben chi ride ultimo». Il proverbio
ha tutte le ragioni di raccomandare a chi ride la prudenza, o persino
l’astensione, tanto è difficile, se non impossibile, prevedere chi
riderà per ultimo. Il detto prende di mira il riso beffardo, il riso che
proclama l’inferiorità del bersaglio, ridicolizzandolo semplicemente
perché questo rappresenta chi ha perso. Ora, come ricorda il proverbio,
chi ha perso oggi forse domani vincerà, acquisendo così il diritto di
ridere ancora più forte, segnando a dito i nuovi perdenti, la cui
recente vittoria e l’orgoglio suscitato saranno durati soltanto un
istante.
In questo genere di situazione lo humour
è messo al servizio del disprezzo: il riso afferma una gerarchia di
meriti e biasima chi, contrariamente alle proprie aspettative e pretese,
si ritrova in fondo alla scala. In Molière, l’avaro Arpagone vuole
sposare la giovane Marianna, organizza il matrimonio del figlio Cleante
(innamorato di Marianna) con una vedova, vuol dar in moglie la figlia
Elisa (senza dote) a un vecchio, tutto questo per conservare il tesoro
nascosto in fondo al giardino e, inoltre, far sua la bella Marianna.
Quando tutti questi progetti impossibili finiscono in fumo, il riso
provocato da Arpagone sancisce la sconfitta: il padre di famiglia –
posizione in sé rispettabile – è vittima della propria dismisura.
Pensava di poter disporre di chi lo circonda e invece sono loro a
disporre di lui, e a renderlo inoltre perfettamente ridicolo. In Les Précieuses ridicules e Le Bourgeois gentilhomme il
riso prende di mira la fallita ambizione sociale dei protagonisti, i
cui sogni di promozione hanno poco a che fare con la realtà. In modo
simile, in La dodicesima notte (Twelfth Night) di
Shakespeare, il vanitoso Malvolio finisce per essere l’oggetto del riso e
del disprezzo generali. È quel che Flaubert riserva più tardi ai due
protagonisti del suo ultimo romanzo Bouvard et Pécuchet. Ciononostante,
a dispetto del disprezzo suscitato dai personaggi, alla fine dello
spettacolo gli altri attori testimoniano loro comunque una certa
simpatia, come se, una volta resi inoffensivi, l’avaro, il borghese
gentiluomo, le preziose ridicole e forse lo stesso Malvolio ottenessero
di nuovo il diritto di partecipare alla vita comune.
Esistono tuttavia situazioni in cui il
perdono finale non viene concesso: si tratta di opere letterarie che
denunciano difetti talmente irrimediabili che è più comodo attribuirli
ad animali piuttosto che a esseri umani, come nelle favole. È quel che
succede in Le Roman de Renart, in cui la stupidità del Leone,
la corruzione dei diversi animali e i trucchi inqualificabili di Renart
(che, lui sì, ride sempre per ultimo) suscitano nel lettore un’ilarità
irrefrenabile, a volte un senso di disgusto, e di tanto in tanto un
istinto di ribellione davanti all’idea che certe cose siano possibili,
visto che sono immaginabili.
Sebbene sia spesso l’alleato della
disapprovazione e del disprezzo, il riso non si è mai limitato alla
satira. Esiste un riso energico, vera e propria esplosione di gioia e
vitalità – come ad esempio quello dell’illustre Gaudissart in Balzac,
molto vicino al fou rire di burloni come il Panurge di Rabelais. Non dimentichiamoci neanche del riso complice dei simil-clown che riescono a superare tutti gli ostacoli e a schivare ogni tranello – come Charlot in Tempi moderni o in Il Dittatore -, né del sorriso ora beffardo, ora indulgente, ora estatico dei personaggi di Come vi piace (As you like it)
di Shakespeare, sorriso il cui compito consiste nel sottolineare il
passaggio dalla farsa all’amore pastorale e da difficoltà inverosimili
alla più radiosa felicità. La satira che prende di mira i costumi e i
caratteri è di certo più severa della farsa, delle carnevalate, i giochi
da circo, le acrobazie o le buffonerie, che sono, a loro volta, più
vivaci delle quadriglie da ballo in maschera e, in generale, degli
svaghi eleganti e colti. Queste tipologie di riso – il riso sprezzante,
il fou rire, il riso complice e, infine, il riso, o meglio il sorriso, gentile – si ritrovano nella letteratura di tutte le epoche.
Ciò che a me pare che cambi, a partire dal XIX secolo, è l’importanza crescente di un riso, o di un sorriso, compassionevole,
che, pur prendendosi gioco dell’inadeguatezza dei personaggi e delle
situazioni, contiene sin da subito una certa comprensione, un moto di
pietà e un pizzico di compassione. Un esempio della fine del XVIII
secolo è quello di Cherubino in Le Mariage de Figaro di
Beaumarchais, mirabilmente messo in musica da Mozart. Cherubino,
adolescente innamorato di tutte le donne che lo circondano, maldestro,
imprudente, al limite della stupidità, resta però in qualche modo
toccante nella sua ingenuità, e nell’assenza di qualsiasi cattiveria nei
gesti e nelle azioni che compie. Il suo personaggio suscita negli
spettatori (ma anche in Figaro, nell’aria «Non più andrai, farfallone
amoroso» alla fine del primo atto dell’opera) un miscuglio di
divertimento e pietà, come se si volesse, al tempo stesso, scuotere il
ragazzo, ridendo, per farlo uscire dalle sue fantasie, ma al tempo
stesso si volesse proteggerlo, nasconderlo e sottrarlo ai pericoli che
incombono su di lui. Ridicolo ma non privo di grazia, i sentimenti che
Cherubino ci ispira sono, fino a un certo punto, simili a quelli che
proviamo di fronte ai personaggi da commedia pastorale, per esempio
Rosalinda e Celia nella già citata Come vi piace.
Questo sorriso compassionevole ha
un’evoluzione nel corso del XIX secolo e prende come oggetto non
soltanto esseri eleganti e, bisogna dirlo, perlopiù di finzione – come i
giovani innamorati delle commedie pastorali, disorientati e sempre
pronti a mascherarsi – ma si rivolge ormai a personaggi dall’indubbia
verosimiglianza sociale e storica. Quando ad esempio Emma, il
personaggio eponimo del romanzo di Jane Austen, dà prova di una
sicurezza in se stessa al contempo ingenua e tutto sommato
insopportabile, e, in particolare, quando immagina di poter indirizzare
le scelte amorose di chi la circonda, i lettori da un lato si divertono a
sue spese, dall’altro sperano che lei finirà per capire i propri
errori. Hanno voglia di ridere di Emma e della sua incapacità di
cogliere quel che succede nei cuori dei suoi amici e, soprattutto, nel
suo. Resta il fatto che, per tutto il romanzo, provano una certa
simpatia per le buone intenzioni della protagonista, insieme a un
briciolo di bonaria pietà per la sua cecità. Quanto alla conclusione,
alla mini-catarsi finale, questa li rassicura, perché dimostra che Emma
ha meritato sin dall’inizio la loro simpatia, non priva di uno sguardo
divertito. E io mi chiedo se al termine del romanzo i lettori pensino al
già citato proverbio («Ride ben chi ride ultimo») o se non si dicano
piuttosto: «Prima di ridere aspetta di vedere» oppure «Meglio un sorriso
alla fine che un sogghigno all’inizio».
È come se il progresso del realismo e
della società borghese prosaica e sprovvista di eroismo, che le opere
appartenenti a questa corrente sapevano dipingere così bene,
incoraggiasse la scelta di un riso alleato dell’empatia, senza
chiaramente escludere le altre forme del comico. Perché? Ci sono almeno
due motivi alla base della diffusione di questo genere di humour. Uno è
lo sviluppo dell’arte della prossimità, che pone l’accento
sulla realtà familiare dei personaggi e delle situazioni presentate al
pubblico. Piuttosto che di principi ed eroi grandiosi, inaccessibili,
che hanno vissuto in epoche lontane e che popolano i romanzi e le
tragedie neoclassiche, e piuttosto del riso sprezzante che in queste
condizioni prende di mira persone normali, il realismo parla di
individui che avrebbero potuto vivere non lontano dai loro lettori o che
i lettori avrebbero potuto facilmente incontrare per strada. Una certa
uguaglianza, portatrice di empatia e completamente diversa dal trasporto
suscitato dall’arte classica della lontananza, si instaura tra i
lettori e i personaggi del romanzo realista. Può capitare, così, che lo
humour si giovi della prossimità e dell’empatia che moderano
l’inclinazione al disprezzo e mettono in sordina il fou rire. Ne offrono esempi eloquenti i primi romanzi di Dickens, Il Circolo Picwick, Le avventure di Oliver Twist e Nicholas Nickleby.
Il secondo motivo è, a partire dal XIX secolo, la ricerca di una nuova complessità psicologica e al contempo sociale. Per quanto riguarda la psicologia,
sappiamo che i migliori scrittori si sono imposti di indagare le
tendenze contraddittorie nell’animo dei loro personaggi, così complicate
da essere difficilmente immaginabili nei secoli precedenti. Così, in
Stendhal, Julien Sorel è al contempo ambizioso e scriteriato,
perseverante e impulsivo, ipocrita e follemente sincero. Come diceva
molto bene Hugo nella prefazione al Cromwell, la nuova arte
(che lui chiamava romantica, ma che in seguito avrebbe preso altre
forme) combina elementi diversissimi e opposti. La complessità
psicologica dei personaggi può renderli contemporaneamente trasparenti e
misteriosi, come Pip in Grandi speranze di Dickens, la
crudeltà a volte ha radici nella sofferenza, come nel caso di Estella
nello stesso romanzo, e la generosità nella ferocia, come nel caso del
padre di Estella, l’ex forzato Abel Magwitch. È in questo contesto che
un personaggio come Herbert, l’amico di Pip, riesce a essere buffo e al
tempo stesso commovente.
Quanto alla complessità sociale del
nuovo sistema borghese e commerciale, essa è dovuta, fra l’altro,
all’ideale della mobilità, sempre accompagnato dal rigore di norme che
dovrebbero garantire una società omogenea, e dall’ipocrisia che esse
generano. In tale contesto, come avrebbero mai potuto gli scrittori fare
a meno di interrogarsi sul senso di mediocrità generale e sulla
difficoltà che gli individui provano nel comprendere se stessi e
nell’orientare i propri desideri? Nel registro serio, questa difficoltà è
incarnata dai giovani che soffrono del «male del secolo», i René, i
Childe Harold, i Pečorin. Si tratta di personaggi che appartengono
all’aristocrazia, ma poco a poco il «male» interesserà anche i
rappresentanti delle classi medie; ne è la prova Frédéric Moreau,
protagonista di L’Éducation sentimentale di Flaubert.
Disorientato e maldestro tanto quanto Cherubino nel secolo precedente,
la sua perplessità, lungi dall’essere quella di un adolescente turbato
dalla pubescenza (e ancor meno quella di un Pečorin divorato dalla
malinconia), corrisponde alla complessità di una società che offre ai
suoi membri molteplici strade possibili, ognuna retta da norme la cui
vacuità diventa prima o poi tangibile. A differenza di René e di
Pečorin, Frédéric è spesso ridicolo, ma senza mai suscitare nel lettore
un vero disprezzo. Dinnanzi alle sue goffaggini sorridiamo e proviamo
pietà.
Con l’arrivo del XX secolo, i grandi
maestri del sorriso compassionevole saranno Cechov e Pirandello, il
primo spontaneamente, il secondo nell’intento di moderare con lo humour
il pessimismo del suo maître à penser, Schopenhauer. Di certo è difficile considerare Zio Vanja e Enrico IV come
delle vere e proprie commedie, ma in entrambe le opere non manca una
vena comica. Nella pièce che Cechov definisce commedia, il professor
Serebrijakov è un fallito pomposo e ridicolo, mentre Vanja, suo
cognato, uomo amaro e generoso, comprende e descrive la buffonaggine
che lo circonda. La bontà di Vanja e della giovane Sonia prende però il
sopravvento, perché alla fine della pièce loro continuano, rassegnati, a
occuparsi di Serebrijakov e della sua enigmatica sposa, i quali non lo
meriterebbero affatto. In maniera spettacolare, Enrico IV riserva
allo spettatore la sorpresa di constatare che il personaggio
principale, attore pazzo appassionato di storia che si crede
l’imperatore Enrico IV, si rende conto in realtà di essere soltanto il
buon Di Nolli ma continua a interpretare il ruolo dell’imperatore
obbligando la famiglia e gli amici a far finta di essere i suoi
cortigiani. La farsa che recitano le rispettive parti finisce quando
Nolli ammette di sapere che vive, cosa insopportabile, nel XX secolo.
Dolore e commedia vanno di pari passo ma, quando alla fine Nolli pugnala
l’amante della figlia, il lato tragico prende il sopravvento. Così come
in altre pièce di Pirandello, la compassione c’è ma svanisce quando,
una volta tolte le maschere, scopriamo il volto spaventoso del mondo.
Il riso che nasconde le lacrime, la
commedia intrisa di compassione saranno uno dei tratti più diffusi della
letteratura del XX secolo. Naturalmente lo riscontriamo nelle opere che
raccontano l’Olocausto e i Gulag, come testimoniano alcuni episodi di Le nove valigie di Béla Zsolt e dei Racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. Sono presenti nella letteratura per ragazzi, da Il giovane Holden di J. D. Salinger a Storia di una ladra di libri di Markus Zusak. I grandi romanzi middlebrow, eccellenti e insieme leggibili, di Evelyn Waugh e, in tempi più recenti, Possessione di A. S. Byatt e Il fiore azzurro di Penelope Fitzgerald fanno un uso mirabile di questi elementi.
Per concludere, ho scelto un passaggio di un romanzo meno noto, Il retaggio (A Legacy, 1956)
di Sybille Bedford, esempio di uno humour mordace e distaccato, uno
humour che guarda le cose dall’alto restando però sensibile alla
difficoltà di esistere dei personaggi. L’azione si svolge nella Germania
post 1870, dopo che l’unificazione ha consegnato le province dell’Ovest
al regime autoritario della Prussia. La promozione della burocrazia,
l’idolatria dell’esercito, il fervore del Kulturkampf, tutte
queste novità turbano l’esistenza calma, rilassata, al limite
dell’irresponsabilità, condotta da secoli dalla nobiltà del Baden.
Johannes von Felden, il discendente di una di queste famiglie, viene
reclutato ma, dato che non sopporta la severità del servizio militare,
scappa. Nel momento in cui fa ritorno alla dimora familiare, i suoi
devono decidere se nasconderlo o consegnarlo alle autorità. Clara, la
cognata del ragazzo, fa tornare in segreto padre Hauser, S. J., esiliato
in Svizzera per via del Kulturkampf. Il brav’uomo prova a
convincere il conte Bernin, padre di Clara, a prendere le parti del
disertore. Ora, il conte, che desidera avanzare nei ranghi della
burocrazia imperiale, mostra molto riserbo.
Invece di riportare tutta la
conversazione, Sybille Bedford annota soltanto le battute del conte,
dopo le quali lascia varie righe bianche, che dovrebbero rappresentare
le repliche di padre Hauser, delle quali possiamo facilmente indovinare
il tenore attraverso le parole del conte. Ne vien fuori uno humour
crudele e insieme delicato: Bedford ci lascia intendere che non vale
neanche la pena di ascoltare la voce della carità, perché il conte non
la ascolta e le sue osservazioni bastano al lettore per capire i calcoli
e la viltà del personaggio:
«Poco dopo, il conte Bernin disse: ‘Troppe cose alla volta’»
Qualche riga bianca.
«E poco dopo, ‘Non è colpa mia se il vecchio Felden [il padre del ragazzo] non è stato granché lucido in questa faccenda’.
‘Tra l’altro, è troppo tardi’.
‘Lei non è il mio padre spirituale, dovrebbe saperlo’»
E, tre battute dopo, parlando dei militari che sorvegliano la residenza dei von Felden:
«‘Ah, questa gente.
Sono sempre qui. Non contano. Degli automi. Isolati. Con la loro Nazione
e il Dovere di Stato. Sono dei ciechi che vanno guidati.’
‘Sì, anche, utilizzati. Di tanto in tanto utilizzati’».
Infatti, lo scopriamo presto, il conte Bernin ha grandi progetti:
«‘Ma io sì che posso vedere il futuro. Il presente non mi interessa’
‘Ogni cosa ha il suo prezzo…’»
E subito dopo:
«‘No, penso di non aver mai creduto alla felicità di nessuno’
‘E il mio posto? La mia vita…?’
L’autrice si limita a sfiorare i tasti,
ma ogni volta lo strumento risuona restituendo una strana presenza alle
parole di padre Hauser passate sotto silenzio. Il conte, che crede di
poter organizzare una resistenza cattolica segreta su scala imperiale
(‘Ma io sì che posso vedere il futuro. Il presente non mi
interessa’), risponde poco dopo a una battuta invisibile di padre Hauser
(che era sicuramente ‘E questa è una ragione per abbandonare il giovane
Johannes?’), alludendo ai sacrifici che le grandi cause richiedono:
‘Ogni cosa ha il suo prezzo…’. E, quando padre Hauser gli ricorda con
fermezza l’infelicità che attende il ragazzo nel momento in cui farà
ritorno al reggimento, il conte risponde ‘No, suppongo di non aver mai
creduto alla felicità di nessuno’. Ma pensi alla sua vita, gli dice
probabilmente il padre. Risposta: ‘E il mio posto? La mia vita…?’.
Sul modello dei silenzi del colonnello Bramble nel bel romanzo di André
Maurois, le battute cancellate di padre Hauser evocano la presenza,
impossibile da ignorare, di regole del buon senso e di buona condotta,
che, in questo caso, chiedono alla famiglia di proteggere i propri
membri. La scelta di cancellare certe battute sottolinea quanto queste
regole siano evidenti e rende le parole del conte ancora più penose.
Padre Hauser esprime una verità alla portata di tutti – dunque non c’è
bisogno di ripeterla; invece le frasi del conte, subordinate
all’interesse personale, risuonano tanto vuote proprio perché sono
isolate, separate dal dialogo, trasformate in dichiarazioni solitarie.
Sono di un egoismo schiacciante che sfiora la commedia, mentre la
solitudine del personaggio suscita pena.
Successivamente, Johannes torna
nell’esercito e diventa mezzo pazzo. Per evitare lo scandalo, i suoi
superiori lo lasceranno vivere con i cavalli del reggimento, i soli
esseri che lui riesca a sopportare. Situazione scioccante, che è
anch’essa al limite del comico e ispira pietà.
Concludiamo: l’ideale dell’uguaglianza
di principio tra gli esseri umani attribuisce alle forme più antiche del
comico (il riso sprezzante, il fou rire, il riso complice, il
riso gentile) un nuovo atteggiamento, che guarda ai difetti del nostro
prossimo con humour e compassione. Ci ricorda che nelle società recenti
uno degli effetti dell’uguaglianza consiste nel moderare il disprezzo, e
sfumarlo, riscattandolo attraverso l’empatia e la pietà.
Testo ripreso da LE PAROLE E LE COSE pubblicato il 17 dicembre 2015
[Immagine: Marco Bellocchio, Enrico IV]
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