Italo Calvino,
scrittore universale: già dai primi scritti la sua Liguria è il
mondo. Questo, secondo Asor Rosa, il filo rosso che da senso a tutta
la sua opera.
Alberto Asor Rosa
Da vicino e da lontano
il racconto del mondo
Il più grande scrittore
italiano del secondo Novecento, e cioè Italo Calvino, presenta, se
lo si guarda con attenzione, due diversi e, almeno apparentemente,
assai contrastanti modi di osservare la realtà: o la guarda molto da
vicino o la guarda molto da lontano. Si potrebbe dire che, per vedere
meglio, usa alternativamente il microscopio e il telescopio. Se è
così, nell’uno come nell’altro caso si tratta di un diverso uso
dello sguardo.
Lo sguardo, ossia il modo
di guardare, ossia l’occhio, ossia tutte le forme possibili, le
attitudini, i movimenti dell’occhio, sono fondamentali
nell’approccio al mondo, anche nell’approccio concettuale al
mondo, da parte di Calvino. E, naturalmente, l’occhio condiziona il
cervello, e cioè interessi e stile dell’osservazione, e ne fa in
lui un organo di tipo nuovo, senziente e comprendente allo stesso
modo.
Naturalmente, per
giustificare queste affermazioni, bisognerebbe seguire passo passo
l’intera ricerca e produzione letteraria di Calvino, da Il sentiero
dei nidi di ragno a Se una notte d’inverno un viaggiatore e a
Palomar. Basteranno qui poche, essenziali citazioni testuali.
Lo sguardo da vicino, il
microscopio. Mi riferisco prevalentemente, ma non solo, a due
spettacolari campioni di poetica autobiografica o, se si preferisce,
di autobiografia poetica, come La strada di San Giovanni (1963) e
Dall’opaco (1971).
Sanremo. anni '30. La Strada di S. Giovanni
Nel primo il motivo di
maggior rilievo è il ritorno al passato: la Liguria primigenia e
protostorica; l’infanzia e l’adolescenza dello scrittore. La
strada di San Giovanni è quella che porta dalla villa dei Calvino,
ai margini di San Remo (peraltro mai nominata), alle loro proprietà
terriere in alta collina. Per il padre di Calvino, agronomo e
possidente, “il mondo era di là in su che cominciava, e l’altra
parte del mondo, quella di giù, era solo un’appendice”. Per il
giovanissimo Calvino, tutto il contrario: “Per me il mondo, la
carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era uno
spazio bianco, senza significati…”.
Stesso ragionamento in
Dall’opaco. L’”opaco” , com’è ovvio, è il contrario
dell’”aprico”: l’ubagu e l’abrigu, nel dialetto ligure di
Ponente, che si fronteggiano, fra mare, costa e collina, nello spazio
ben delimitato di un golfo, che va da un promontorio all’altro, e
che lì dentro e da lì in fuori confina e definisce il resto del
mondo, come le due rispettive metà di una conoscenza che rischia di
non diventare mai un’unità se non si assume la posizione giusta
dello sguardo da cui dipende poi tutto il resto.
E come? Ce lo spiega lo
scrittore stesso: “’D’int’ubagu’, dal fondo dell’opaco io
scrivo, ricostruendo la mappa di un aprico che è solo un
inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo
geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno
per sapersi me stesso, l’io che serve solo perché il mondo riceva
continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui
il mondo dispone per sapere se c’è”. L’adolescenziale spinta
all’”in giù”, che non può prescindere, perché altrimenti
neanch’essa ci sarebbe, dalla paterna spinta all’”in su” , è
la precondizione per cui lo sguardo maturo si sollevi un giorno al di
sopra delle teste circostanti e guardi, invece che verso il basso,
verso l’alto.
E dunque: lo sguardo
verso l’alto e da lontano. A far da spartiacque fra l’una e
l’altra fase della ricerca calviniana sta La giornata di uno
scrutatore (1963). La scoperta, dolorosa e traumatica, ma anche,
in un certo senso, liberatoria, che oltre il mondo della coscienza e
del sapere s’apre la voragine dell’incoscienza, dell’inabilità
e del non-sapere: l’universo, in un certo senso concentrazionario,
del gigantesco ospizio torinese del Cottolengo.
Da quel momento, restare
e guardare dove si è, non basta più a Calvino. E il suo sguardo si
alza, e si volge lontano. Il mondo diviene il mondo delle cento città
— Torino, Parigi, New York, San Francisco, Roma — l’una
trasmutabile nell’altra, e pure ognuna ancorata alla sua
imperdibile e inconfondibile identità, come in un gioco
caleidoscopico di specchi. E la letteratura diventa anch’essa un
gioco caleidoscopico di infinite possibilità di combinazioni ed
esperimenti: solo per citare i titoli più significativi, Le
città invisibili (1972) e Se una notte d’inverno un viaggiatore
(1979).
Dunque, un Calvino prima
e un Calvino diverso poi, lungo un percorso rettilineo che porta dal
più semplice al più complesso, e lì si ferma, perché il complesso
è meglio del più semplice?
1933. Calvino e il fratello nelle campagne di S. Giovanni
La mia tesi invece è che
in Calvino, sempre, nel vedere da vicino c’è il vedere da lontano
e nel vedere da lontano c’è il vedere da vicino. Se ne
potrebbero citare decine di prove e di riprove. Ma io mi limiterei ai
testi già chiamati in causa, e perciò ripartiamo, completandola, da
una citazione già fatta. La strada di San Giovanni, Calvino
adolescente:
“Io no, tutto il
contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa
nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati…”;
e però, prosegue
Calvino,
“i segni del futuro mi
aspettavo di decifrarli da quelle vie, da quelle luci notturne che
non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città
appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili”.
Capite? Siamo ancora nel
’60. E già Calvino, anticipando i tempi — anche i suoi tempi, di
sicuro i nostri — scopriva che in ogni minuscolo ritaglio del mondo
c’è il mondo e che, forzando un po’ il gioco, nelle luci della
piccola e appartata San Remo c’è il nocciolo di cento altre
potenziali città, visibili e “invisibili” .
Stando così le cose si
capisce meglio perché Calvino possa essere considerato, diversamente
da quasi tutti gli altri scrittori italiani del suo tempo, uno
scrittore italiano, che sia però al tempo stesso spontaneamente
cosmopolita. Se “il mondo” per lui “andava da casa mia in
giù” , fare a meno di andare “in giù” ma, anche al tempo
stesso, di essere tentato di andare “in su” sulle orme antiche di
suo padre; e se nella modesta realtà della sua cittadina, che
addirittura lui non riesce neanche a nominare, e tuttavia è “ la
città” , ci sono potenzialmente tutte le città del mondo, e se
l’”opaco” e l’”aprico” sono sempre le due metà del
mondo, dell’universo mondo, allora diventa più facilmente
comprensibile che Calvino sia, o diventa, cittadino al tempo stesso
di San Remo e di Parigi, di New York e di Roma, e parli la lingua
delle cento, delle mille città.
Anche l’ultima forma di
osservazione esibita da parte sua, quella di Palomar (1983), si
colloca all’interno di questo profilo. In Palomar, infatti, compare
il terzo Calvino: sguardo e cervello sono ormai indistinguibili, il
mondo visto da vicino (il geco, le tartarughe, gli storni) ha la
stessa valenza del mondo visto da lontano (le onde del mare, le
costellazioni celesti). E — sia caso o causalità — la
prospettiva incombente della morte s’affaccia a dare uniformità al
tutto.
Il mondo, della cui
dissoluzione, personale e universale, in queste pagine ci parla, è
il nostro mondo. Basta volgersi intorno oggi per accorgersene. Del
resto, anche la morte può essere un fattore comunitario formidabile,
pur deprecabile. Nel dirlo la lingua di Calvino è anch’essa
perfettamente universale, non presenta più nessuna gradazione
idiomatica. E pure, nell’ascoltarlo, sappiamo benissimo da dove
viene — e perché.
La repubblica – 13 dicembre 2015
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