Nel 1928 lo scrittore
austriaco Stefan Zweig scrisse una biografia di Casanova visto come
una figura grottesca di avventuriero privo di scrupoli. Il libro, più
romanzo che saggio storico, pur privo di sostanza (che ben altra fu
la profondità di quel mondo caratterizzato dall'emergere di una
nuova sociabilità intellettuale di derivazione massonica) resta
comunque una piacevole lettura e, come sottolineato dalla
recensione che riprendiamo, più che un quadro di un'epoca, la spia del disagio profondo dell'autore (“chi scrive non vive”)
travolto dalla fine del mondo asburgico.
Isabella Mattazzi
Ritratto
antipatizzante di Giacomo Casanova gaudente senza colpa
Mai nessun secolo come il
Settecento si è dimostrato più rigido nella divisione dei ruoli
sociali. La corte di Luigi XV sembra fare dalla propria elitarietà
il fondamento su cui legittimare, di fatto, la sua stessa esistenza.
Versailles è regolata, in ogni pratica del quotidiano, secondo
regole di comportamento che rimandano sempre e ossessivamente alla
posizione il rango, ai gradi di parentela, alla vicinanza al re. Non
c’è gesto, non c’è momento della giornata che non ricordi al
cortigiano la granitica fissità della propria condizione. Per non
parlare del limite invalicabile che divide la corte dall’universo
borghese o da quello popolare. A ognuno il suo vestito. A ognuno suo
destino.
Eppure proprio il
Settecento conosce tutta una serie di personaggi che sembrano
completamente ignorare questa stessa rigidità e si muovono con
leggerezza attraverso l’Europa, andando di corte in corte, sedendo
a tavola con re, cardinali, principi del sangue pur non avendo
neppure una goccia di quello stesso sangue nelle vene e sperperando
ricchezze che nella maggior parte dei casi non sono neppure loro.
Uomini di bell’aspetto, nati dal nulla, venuti fuori dalle campagne
polacche o da qualche paesino degli Appennini improvvisamente
appaiono a Vienna o a Parigi, con nomi fasulli, ricoperti di oro, e
altrettanto improvvisamente scompaiono. Il principe Castrioto (ovvero
un certo Stjepan Zannovich) fedele amico della baronessa d’Oberkirch,
il conte di Saint-Germain che si diceva fosse immortale e che più di
una volta aveva fabbricato dal nulla diamanti e pietre preziose per
il Delfino, Giuseppe Balsamo altrimenti detto il Conte di Cagliostro
animano i cabinets scientifici, vanno all’opera di Corte,
portano dispacci della massima segretezza da una capitale all’altra
senza che nessuno mai si chieda nulla della loro nascita. Una masnada
di bari, affabulatori, alchimisti che sembra non trovare alcuna porta
sbarrata, nessun divieto, nessun guardiano chiamato a proteggere il
regno di Sarastro con un semplice “Zurück!”.
Tra loro, un uomo in
particolare sembra godere del favore di tutte le corti d’Europa. È
un veneziano, si fa chiamare Cavaliere di Seingalt, ma il suo vero
nome è Giacomo Casanova.
Casanova, che
nell’universo del nostro immaginario contemporaneo è legato
indissolubilmente a un’idea di serialità erotica e di seduttività
portate al parossismo, dal punto di vista storico è qualcosa di
molto più articolato e complesso. Tra le sue qualità, di pari passo
con la capacità di sedurre un’infinità di donne, ci sono
l’abilità al gioco delle carte, l’arte di raccontare aneddoti
divertenti, la padronanza di una decina lingue, la capacità di
praticare incantesimi e un’infarinatura enciclopedica tale da
sostenere una conversazione erudita su qualsiasi argomento ritenuto
di un qualche interesse dall’Académie des Sciences. Giacomo
Casanova, figlio di Gaetano Casanova e di Zanetta Farussi, attrice di
teatro, ancor prima di essere il seduttore che tutti conosciamo, è
un mago, un giocatore d’azzardo, un ladro, una spia. In poche
parole, un avventuriero.
Così lo descrive Stefan
Zweig nel suo Casanova del 1928 riproposto oggi dopo un
lungo silenzio editoriale da Castelvecchi (pp. 90, 12,50 euro) nella
storica traduzione di Enrico Rocca. È curioso che Zweig abbia scelto
di raccontare un personaggio così lontano da sé. Di lì a poco, nel
’33, le sue opere saranno bruciate dai nazisti sulla pubblica
piazza, e un anno dopo lascerà l’Austria per quel lungo periodo di
esilio che di fatto finirà con il suo suicidio in Brasile nel ‘42.
Apparentemente Zweig non ama Casanova. Lo descrive come un uomo
senz’anima, senza alcuna profondità spirituale o sentimentale, un
fantoccio in balìa della propria fisicità, dotato di una bellezza
non comune che al suo sfiorire si porterà lentamente via con sé
ogni dono, lasciando il proprio servo alla fine rugoso e secco come
un uccello impagliato, disprezzato dalle donne e deriso dal popolino,
a scrivere le sue memorie (l’Histoire de ma vie in 13 volumi)
nelle stanze umide e fredde di un castello in Boemia.
Nella sua descrizione a
contrario, nel suo raccontare di Casanova il baro, il superficiale,
costretto da un’esuberanza senza controllo a cambiare continuamente
donna, paese, lingua, Zweig ne fa una sorta di specchio rovesciato di
sé. Lo paragona a Goethe (paradigma dello Scrittore per eccellenza)
che a questa sovrabbondanza di vita oppone un’esuberanza di
linguaggio, pagando il pegno del proprio talento con una condizione
di sostanziale inazione. In poche parole, per Zweig chi scrive non
vive, “chi si pone degli scopi, manca le occasioni: ogni artista dà
forma solo a ciò che ha trascurato nella vita”.
Lo scrittore, del resto,
vive secondo le leggi di una temporalità di ampio respiro (fatta di
memoria e proiezione) che per Casanova non sono contemplabili. L’uomo
in balìa delle sue passioni, il seduttore tutto-volontà non può
conoscere né la dimensione storica del proprio passato, né la
proiezione futura di una temporalità che non corrisponda all’oggetto
immediato del proprio desiderio. Casanova non ha memoria, come non ha
capacità di distinguere il futuro. La sua vita amorosa, centrata
sull’immediatezza della pulsione, non è in grado di mantenere nel
tempo alcun legame relazionale.
Non a caso il matrimonio, cellula
prima di un universo sociale organizzato e costruito sulla formula
del contratto, è una condizione alla quale non potrà mai apporre la
propria firma. La dimensione istintuale del “qui e ora” esclude a
priori ogni possibile condizione di stabilità sociale. Come scrive
Jean Rousset, a proposito di Don Giovanni “con il continuo
disattendere le proprie promesse amorose nei confronti dell’universo
femminile è tutta la vita di relazione di Don Giovanni, nella misura
in cui si fonda sul contratto – combinazione di avvertimento e
impegno – che viene perturbata. Il corpo sociale nella sua totalità
viene rifiutato. Don Giovanni è a tutti gli effetti un grande
deviante”.
Se quindi le linee
trasgressive di un’asocialità senza mezzi termini, non sottomessa
ad alcun codice familiare e costruita invece sui cardini del libero
determinismo individuale, fanno di ogni seduttore un personaggio del
tutto al di fuori da ogni “status” (ed è forse per questo che
Casanova riesce così facilmente a muoversi all’interno del rigido
scacchiere sociale settecentesco), la “devianza” di Casanova è
però del tutto opposta a quella di Don Giovanni. Su questo Zweig è
perentorio. La volontà desiderante di Don Giovanni coincide con una
pulsione di morte che Casanova non possiede.
Il godimento di Don
Giovanni, costruito su una Colpa di matrice cattolica, “si attua
per vie traverse come una fantastica anticipazione della disperazione
di ogni donna violata, disonorata in tal modo da lui e smascherata
nella sua carnalità bassa da serva”. Più una donna è
inavvicinabile, più le difficolta aumentano e più si alza la posta
in gioco per Don Giovanni perché più evidente sarà il disonore
femminile e più alto il suo trionfo. Per Casanova invece è l’esatto
contrario. Fedele servitore della naturalità nella sua più
espressione più feconda, il Casanova di Zweig gode senza alcun
secondo fine. Per lui le difficoltà sono solo ostacoli, non esiste
peccato e non esiste disonore.
Se nel mondo di Don
Giovanni non c’è redenzione e l’unico finale contemplato sono le
fiamme dell’inferno, in quello molto più laico di Casanova la
grazia felice della natura illumina ogni volto di donna e ne fa –
anche se solo per un istante – un assoluto. Per lui non esiste
nessun inferno ad attenderlo semplicemente perché non ha commesso
alcuna colpa. O meglio, quello che lui chiamerà il suo “inferno”
– la vecchiaia, gli acciacchi fisici, le stanze gelate del castello
di Dux in Boemia – non sarà altro che una semplice trasformazione,
un passaggio. Il passaggio dall’azione alla scrittura. Dalla vita
alla sua mitizzazione. Dal Cavaliere di Seingalt a Giacomo Casanova.
Il Manifesto Alias - 1
novembre 2015
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