14 dicembre 2015

IL RITORNO DI CASANOVA


Nel 1928 lo scrittore austriaco Stefan Zweig scrisse una biografia di Casanova visto come una figura grottesca di avventuriero privo di scrupoli. Il libro, più romanzo che saggio storico, pur privo di sostanza (che ben altra fu la profondità di quel mondo caratterizzato dall'emergere di una nuova sociabilità intellettuale di derivazione massonica) resta comunque una piacevole lettura e, come sottolineato dalla recensione che riprendiamo, più che un quadro di un'epoca,  la spia del disagio profondo dell'autore (“chi scrive non vive”) travolto dalla fine del mondo asburgico.

Isabella Mattazzi

Ritratto antipatizzante di Giacomo Casanova gaudente senza colpa

Mai nessun secolo come il Settecento si è dimostrato più rigido nella divisione dei ruoli sociali. La corte di Luigi XV sembra fare dalla propria elitarietà il fondamento su cui legittimare, di fatto, la sua stessa esistenza. Versailles è regolata, in ogni pratica del quotidiano, secondo regole di comportamento che rimandano sempre e ossessivamente alla posizione il rango, ai gradi di parentela, alla vicinanza al re. Non c’è gesto, non c’è momento della giornata che non ricordi al cortigiano la granitica fissità della propria condizione. Per non parlare del limite invalicabile che divide la corte dall’universo borghese o da quello popolare. A ognuno il suo vestito. A ognuno suo destino.

Eppure proprio il Settecento conosce tutta una serie di personaggi che sembrano completamente ignorare questa stessa rigidità e si muovono con leggerezza attraverso l’Europa, andando di corte in corte, sedendo a tavola con re, cardinali, principi del sangue pur non avendo neppure una goccia di quello stesso sangue nelle vene e sperperando ricchezze che nella maggior parte dei casi non sono neppure loro. Uomini di bell’aspetto, nati dal nulla, venuti fuori dalle campagne polacche o da qualche paesino degli Appennini improvvisamente appaiono a Vienna o a Parigi, con nomi fasulli, ricoperti di oro, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Il principe Castrioto (ovvero un certo Stjepan Zannovich) fedele amico della baronessa d’Oberkirch, il conte di Saint-Germain che si diceva fosse immortale e che più di una volta aveva fabbricato dal nulla diamanti e pietre preziose per il Delfino, Giuseppe Balsamo altrimenti detto il Conte di Cagliostro animano i cabinets scientifici, vanno all’opera di Corte, portano dispacci della massima segretezza da una capitale all’altra senza che nessuno mai si chieda nulla della loro nascita. Una masnada di bari, affabulatori, alchimisti che sembra non trovare alcuna porta sbarrata, nessun divieto, nessun guardiano chiamato a proteggere il regno di Sarastro con un semplice “Zurück!”.

Tra loro, un uomo in particolare sembra godere del favore di tutte le corti d’Europa. È un veneziano, si fa chiamare Cavaliere di Seingalt, ma il suo vero nome è Giacomo Casanova.

Casanova, che nell’universo del nostro immaginario contemporaneo è legato indissolubilmente a un’idea di serialità erotica e di seduttività portate al parossismo, dal punto di vista storico è qualcosa di molto più articolato e complesso. Tra le sue qualità, di pari passo con la capacità di sedurre un’infinità di donne, ci sono l’abilità al gioco delle carte, l’arte di raccontare aneddoti divertenti, la padronanza di una decina lingue, la capacità di praticare incantesimi e un’infarinatura enciclopedica tale da sostenere una conversazione erudita su qualsiasi argomento ritenuto di un qualche interesse dall’Académie des Sciences. Giacomo Casanova, figlio di Gaetano Casanova e di Zanetta Farussi, attrice di teatro, ancor prima di essere il seduttore che tutti conosciamo, è un mago, un giocatore d’azzardo, un ladro, una spia. In poche parole, un avventuriero.

Così lo descrive Stefan Zweig nel suo Casanova del 1928 riproposto oggi dopo un lungo silenzio editoriale da Castelvecchi (pp. 90, 12,50 euro) nella storica traduzione di Enrico Rocca. È curioso che Zweig abbia scelto di raccontare un personaggio così lontano da sé. Di lì a poco, nel ’33, le sue opere saranno bruciate dai nazisti sulla pubblica piazza, e un anno dopo lascerà l’Austria per quel lungo periodo di esilio che di fatto finirà con il suo suicidio in Brasile nel ‘42. Apparentemente Zweig non ama Casanova. Lo descrive come un uomo senz’anima, senza alcuna profondità spirituale o sentimentale, un fantoccio in balìa della propria fisicità, dotato di una bellezza non comune che al suo sfiorire si porterà lentamente via con sé ogni dono, lasciando il proprio servo alla fine rugoso e secco come un uccello impagliato, disprezzato dalle donne e deriso dal popolino, a scrivere le sue memorie (l’Histoire de ma vie in 13 volumi) nelle stanze umide e fredde di un castello in Boemia.

Nella sua descrizione a contrario, nel suo raccontare di Casanova il baro, il superficiale, costretto da un’esuberanza senza controllo a cambiare continuamente donna, paese, lingua, Zweig ne fa una sorta di specchio rovesciato di sé. Lo paragona a Goethe (paradigma dello Scrittore per eccellenza) che a questa sovrabbondanza di vita oppone un’esuberanza di linguaggio, pagando il pegno del proprio talento con una condizione di sostanziale inazione. In poche parole, per Zweig chi scrive non vive, “chi si pone degli scopi, manca le occasioni: ogni artista dà forma solo a ciò che ha trascurato nella vita”.

Lo scrittore, del resto, vive secondo le leggi di una temporalità di ampio respiro (fatta di memoria e proiezione) che per Casanova non sono contemplabili. L’uomo in balìa delle sue passioni, il seduttore tutto-volontà non può conoscere né la dimensione storica del proprio passato, né la proiezione futura di una temporalità che non corrisponda all’oggetto immediato del proprio desiderio. Casanova non ha memoria, come non ha capacità di distinguere il futuro. La sua vita amorosa, centrata sull’immediatezza della pulsione, non è in grado di mantenere nel tempo alcun legame relazionale.
Non a caso il matrimonio, cellula prima di un universo sociale organizzato e costruito sulla formula del contratto, è una condizione alla quale non potrà mai apporre la propria firma. La dimensione istintuale del “qui e ora” esclude a priori ogni possibile condizione di stabilità sociale. Come scrive Jean Rousset, a proposito di Don Giovanni “con il continuo disattendere le proprie promesse amorose nei confronti dell’universo femminile è tutta la vita di relazione di Don Giovanni, nella misura in cui si fonda sul contratto – combinazione di avvertimento e impegno – che viene perturbata. Il corpo sociale nella sua totalità viene rifiutato. Don Giovanni è a tutti gli effetti un grande deviante”.

Se quindi le linee trasgressive di un’asocialità senza mezzi termini, non sottomessa ad alcun codice familiare e costruita invece sui cardini del libero determinismo individuale, fanno di ogni seduttore un personaggio del tutto al di fuori da ogni “status” (ed è forse per questo che Casanova riesce così facilmente a muoversi all’interno del rigido scacchiere sociale settecentesco), la “devianza” di Casanova è però del tutto opposta a quella di Don Giovanni. Su questo Zweig è perentorio. La volontà desiderante di Don Giovanni coincide con una pulsione di morte che Casanova non possiede. 
Il godimento di Don Giovanni, costruito su una Colpa di matrice cattolica, “si attua per vie traverse come una fantastica anticipazione della disperazione di ogni donna violata, disonorata in tal modo da lui e smascherata nella sua carnalità bassa da serva”. Più una donna è inavvicinabile, più le difficolta aumentano e più si alza la posta in gioco per Don Giovanni perché più evidente sarà il disonore femminile e più alto il suo trionfo. Per Casanova invece è l’esatto contrario. Fedele servitore della naturalità nella sua più espressione più feconda, il Casanova di Zweig gode senza alcun secondo fine. Per lui le difficoltà sono solo ostacoli, non esiste peccato e non esiste disonore.

Se nel mondo di Don Giovanni non c’è redenzione e l’unico finale contemplato sono le fiamme dell’inferno, in quello molto più laico di Casanova la grazia felice della natura illumina ogni volto di donna e ne fa – anche se solo per un istante – un assoluto. Per lui non esiste nessun inferno ad attenderlo semplicemente perché non ha commesso alcuna colpa. O meglio, quello che lui chiamerà il suo “inferno” – la vecchiaia, gli acciacchi fisici, le stanze gelate del castello di Dux in Boemia – non sarà altro che una semplice trasformazione, un passaggio. Il passaggio dall’azione alla scrittura. Dalla vita alla sua mitizzazione. Dal Cavaliere di Seingalt a Giacomo Casanova.

Il Manifesto Alias - 1 novembre 2015

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