27 dicembre 2015

IL PONTE DELLE SPIE: Un altro film da vedere.


Con «Il ponte delle spie» Spielberg riflette criticamente sul presente americano (e non solo) perchè il film afferma al tempo di Guantanamo e dell'ISIS che la lotta al “nemico” (ieri l'URSS oggi il terrorismo) deve essere condotta nell'assoluta difesa dei valori democratici e dei diritti umani, pena diventare uguali a chi si combatte. Un film rigoroso, senza effetti speciali, girato con tempi e inquadrature tipici della grande stagione hollywoodiana degli anni Cinquanta. Per spettatori non frettolosi. Da vedere.
Giulia D'Agnolo Vallan
Un eroe da Guerra Fredda
Thriller da Guerra fredda alla John Le Carré, un eroe che ricorda le collaborazioni tra Frank Capra e Jimmy Stewart, il gusto per l’assurdo dei fratelli Coen e un finale inscenato come la decostruzione, nella neve, di un duello all’OK Corral. È l’ultimo film di Steven Spielberg . Ai discordanti ingredienti di sopra, il regista di E.T. e Indiana Jones aggiunge la passione per la Storia che, sempre di più, attraversa il suo cinema, da regista (L’impero del sole, Schindler’s List, Il soldato Ryan, Amistad, Munich, War Horse e Lincoln) e non (basta pensare a Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima diretti da Clint Eastwood o alle due serie televisive sulla seconda guerra mondiale, Band of Brothers e The Pacific). Al suo meglio, come per esempio in Lincoln, la Storia vista da Spielberg, è passato per illuminare il presente e questo dialogo con l’attualità è particolarmente vitale in Il ponte delle spie, che è ispirato da fatti e personaggi realmente esistiti.
L’azione - su sceneggiatura dell’inglese Matt Charman poi però rivista e speziata da Joel ed Ethan Coen — si svolge a partire dal 1957. L’esecuzione dei Rosenberg, avvenuta quattro anni prima, è ancora nell’aria quando, in un soleggiato pomeriggio newyorkese, incontriamo Rudolf Abel (l’attore teatrale Mark Rylance), anziano, solitario, signore che passa il tempo libero dipingendo autoritratti e viste del Manhattan Bridge, e che di professione fa la spia per i russi. Alternando a un frenetico pedinamento per le strade e la metropolitana di Brooklyn, alla tranquilla routine di Abel, ripresa con splendido gusto hitchcockiano della suspense, Spielberg suggerisce subito la tensione nell’aria di quel particolare momento storico e l’indiscutibile colpevolezza del vecchio signore.
Quando la Cia irrompe in casa sua e lo arresta senza troppi convenevoli, ma anche senza trovare nulla per incriminarlo, il pubblico sa che Rudolf Abel non è un malcapitato innocente. L’eventualità della sua innocenza non entra nemmeno nel discorso quando i vertici della Cia si rivolgono a uno studio legale newyorkese perché assegni uno dei suoi migliori avvocati alla difesa di Abel.
L’idea è di un processo veloce, che salvi la apparenze del sistema legale di un paese democratico, e trovi il suo lieto fine con l’imputato sulla sedia elettrica. Ma la scelta del difensore cade su James B. Donovan (Tom Hanks), specializzato in polizze assicurative, che non è entusiasta dell’incarico ma crede nei diritti civili del suo cliente. «Un uomo di principio» dice di lui — in russo e con sarcasmo — il signor Abel. Spia o non spia, l’imputato ha diritto alla migliore difesa possibile, sostiene Donovan, citando la costituzione americana ma alienandosi colleghi, superiori, tutta l’opinione pubblica e persino la famiglia. E le cose non migliorano — quando, una volta che Abel viene decretato colpevole– riesce ad evitargli la condanna a morte.
Cosa che poi però torna utile quando l’agente russo diventa merce di scambio per un giovane soldato americano, Francis Gary Powers, precipitato su suolo sovietico con il segretissimo prototipo di un aereo spia U2. Da New York, a Washington fino a una Berlino di rovine, in cui si stanno mettendo gli ultimi mattoni al muro che la dividerà per quasi quarant’anni, Donovan — inviato informalmente e a suo rischio e pericolo per negoziare lo scambio — è il libero battitore in un intrigo diplomatico/thriller di scarti continui, burocrati inaffidabili e priorità sbagliatissime. Equivoci avvocati che trattano per conto della Germania dell’est, insidiosi rappresentanti dei Cremlino, agenti Cia che sono quasi peggio di entrambi, ai posti di blocco militari tedeschi ancora aleggianti di nazismo, un’automobile sportiva bianca che sfreccia tra le strade innevate, un gruppo di persone che tenta di scavalcare «il» muro e viene falciato al suolo.
Sullo sfondo insidioso dell’Europa del dopoguerra, Hanks dà al suo paladino della costituzione (nella tradizione dei personaggi di Stewart e Gary Cooper o dell’avvocato Atticus Finch nel classico antirazzista To Kill a Mockinbird ovvero Il buio oltre la siepe) un piglio, uno humor e un’ostinazione palpabili. Spielberg, che era un teen ager negli anni in cui è ambientato il film, ha detto in parecchie interviste di averlo fatto in omaggio a suo padre, che visitò l’Unione Sovietica quando i rottami dell’aereo spia di Powers erano esposti sulla Piazza rossa, a riprova dell’ostilità americana.
Ma è difficile, in questa finestra aperta sul passato, non vedere (anche) la guerra solo un po’ meno fredda con la Russia di Putin, gli errori enormi, anticostituzionali, fatti nel nome della guerra al terrore, i passi falsi della politica estera americana di oggi e il loro riflettersi sull’opinione pubblica del paese.
In Il ponte delle spie James Donovan (che Kennedy avrebbe poi mandato a Cuba a trattare il rilascio di prigionieri americani dopo la Baia dei porci) non è un eroe delle Guerra fredda, ma dei nostri tempi.

Il manifesto – 17 dicembre 2015

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