Con «Il ponte delle
spie» Spielberg riflette criticamente sul presente americano (e non solo)
perchè il film afferma al tempo di Guantanamo e dell'ISIS che la
lotta al “nemico” (ieri l'URSS oggi il terrorismo) deve essere
condotta nell'assoluta difesa dei valori democratici e dei diritti
umani, pena diventare uguali a chi si combatte. Un film rigoroso,
senza effetti speciali, girato con tempi e inquadrature tipici della
grande stagione hollywoodiana degli anni Cinquanta. Per spettatori
non frettolosi. Da vedere.
Giulia D'Agnolo Vallan
Un eroe da Guerra
Fredda
Thriller da Guerra fredda
alla John Le Carré, un eroe che ricorda le collaborazioni tra Frank
Capra e Jimmy Stewart, il gusto per l’assurdo dei fratelli
Coen e un finale inscenato come la decostruzione, nella neve, di
un duello all’OK Corral. È l’ultimo film di Steven
Spielberg . Ai discordanti ingredienti di sopra, il regista di E.T.
e Indiana Jones aggiunge la passione per la Storia che, sempre
di più, attraversa il suo cinema, da regista (L’impero del sole,
Schindler’s List, Il soldato Ryan, Amistad, Munich, War Horse
e Lincoln) e non (basta pensare a Flags of Our
Fathers e Lettere da Iwo Jima diretti da Clint
Eastwood o alle due serie televisive sulla seconda guerra
mondiale, Band of Brothers e The Pacific). Al suo
meglio, come per esempio in Lincoln, la Storia vista da Spielberg,
è passato per illuminare il presente e questo dialogo con
l’attualità è particolarmente vitale in Il ponte delle
spie, che è ispirato da fatti e personaggi realmente
esistiti.
L’azione - su
sceneggiatura dell’inglese Matt Charman poi però rivista
e speziata da Joel ed Ethan Coen — si svolge a partire
dal 1957. L’esecuzione dei Rosenberg, avvenuta quattro anni prima,
è ancora nell’aria quando, in un soleggiato pomeriggio
newyorkese, incontriamo Rudolf Abel (l’attore teatrale Mark
Rylance), anziano, solitario, signore che passa il tempo libero
dipingendo autoritratti e viste del Manhattan Bridge, e che
di professione fa la spia per i russi. Alternando a un
frenetico pedinamento per le strade e la metropolitana di
Brooklyn, alla tranquilla routine di Abel, ripresa con splendido
gusto hitchcockiano della suspense, Spielberg suggerisce subito la
tensione nell’aria di quel particolare momento storico
e l’indiscutibile colpevolezza del vecchio signore.
Quando la Cia irrompe in
casa sua e lo arresta senza troppi convenevoli, ma anche senza
trovare nulla per incriminarlo, il pubblico sa che Rudolf Abel non
è un malcapitato innocente. L’eventualità della sua
innocenza non entra nemmeno nel discorso quando i vertici della
Cia si rivolgono a uno studio legale newyorkese perché assegni
uno dei suoi migliori avvocati alla difesa di Abel.
L’idea è di un
processo veloce, che salvi la apparenze del sistema legale di un
paese democratico, e trovi il suo lieto fine con l’imputato
sulla sedia elettrica. Ma la scelta del difensore cade su James B.
Donovan (Tom Hanks), specializzato in polizze assicurative, che non
è entusiasta dell’incarico ma crede nei diritti civili del
suo cliente. «Un uomo di principio» dice di lui — in russo e con
sarcasmo — il signor Abel. Spia o non spia, l’imputato ha
diritto alla migliore difesa possibile, sostiene Donovan, citando la
costituzione americana ma alienandosi colleghi, superiori, tutta
l’opinione pubblica e persino la famiglia. E le cose non
migliorano — quando, una volta che Abel viene decretato colpevole–
riesce ad evitargli la condanna a morte.
Cosa che poi però torna
utile quando l’agente russo diventa merce di scambio per un giovane
soldato americano, Francis Gary Powers, precipitato su suolo
sovietico con il segretissimo prototipo di un aereo spia U2. Da New
York, a Washington fino a una Berlino di rovine, in cui si
stanno mettendo gli ultimi mattoni al muro che la dividerà per quasi
quarant’anni, Donovan — inviato informalmente e a suo
rischio e pericolo per negoziare lo scambio — è il
libero battitore in un intrigo diplomatico/thriller di scarti
continui, burocrati inaffidabili e priorità sbagliatissime.
Equivoci avvocati che trattano per conto della Germania dell’est,
insidiosi rappresentanti dei Cremlino, agenti Cia che sono quasi
peggio di entrambi, ai posti di blocco militari tedeschi ancora
aleggianti di nazismo, un’automobile sportiva bianca che sfreccia
tra le strade innevate, un gruppo di persone che tenta di scavalcare
«il» muro e viene falciato al suolo.
Sullo sfondo insidioso
dell’Europa del dopoguerra, Hanks dà al suo paladino della
costituzione (nella tradizione dei personaggi di Stewart e Gary
Cooper o dell’avvocato Atticus Finch nel classico
antirazzista To Kill a Mockinbird ovvero Il buio oltre
la siepe) un piglio, uno humor e un’ostinazione palpabili.
Spielberg, che era un teen ager negli anni in cui è ambientato
il film, ha detto in parecchie interviste di averlo fatto in omaggio
a suo padre, che visitò l’Unione Sovietica quando i rottami
dell’aereo spia di Powers erano esposti sulla Piazza rossa,
a riprova dell’ostilità americana.
Ma è difficile, in
questa finestra aperta sul passato, non vedere (anche) la guerra solo
un po’ meno fredda con la Russia di Putin, gli errori enormi,
anticostituzionali, fatti nel nome della guerra al terrore, i passi
falsi della politica estera americana di oggi e il loro
riflettersi sull’opinione pubblica del paese.
In Il ponte delle
spie James Donovan (che Kennedy avrebbe poi mandato a Cuba
a trattare il rilascio di prigionieri americani dopo la Baia dei
porci) non è un eroe delle Guerra fredda, ma dei nostri tempi.
Il manifesto – 17
dicembre 2015
Nessun commento:
Posta un commento