Cent’anni fa
l’antropologo Malinowski scoprì una società aborigena fondata
sulla generosità. Per noi una grande utopia: il dono, o se vogliamo
l'atto gratuito privo di ogni motivazione utilitaristica, come
scardinamento della società delle merci e del profitto. Non a a caso
Debord e i giovani lettristi rivoluzionari chiamarono Potlatch il
loro foglio di battaglia.
Marino Niola
Quando il dono diventò la base dell’economia
Chi fa regali alla fine ci guadagna sempre. E non solo in gratitudine. Perché il dono è un investimento sul futuro. Un contratto a lungo termine. E a insegnarcelo non è stato nessun guru dell’economia ma gli aborigeni delle isole Trobriand, che del dare a piene mani hanno fatto un’arte della convivenza, nonché la base della loro dottrina politica. Anticipando, e di fatto ispirando, le teorie contemporanee del convivialismo e dell’antiutilitarismo.
A scoprire i segreti di
questa economia della generosità è stato, giusto un secolo fa,
Bronislaw Malinowski, il celebre antropologo polacco, professore alla
London School of Economics. Che, per uno scherzo del destino, si
trovava in Australia per studiare gli aborigeni, quando scoppiò la
prima guerra mondiale. Come suddito dell’impero austroungarico, e
quindi cittadino di un paese nemico, gli sarebbe toccato
l’internamento in un campo.
Ma il giovane Bronislaw
riuscì a convincere le autorità australiane a confinarlo
nell’arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina, dal quale non
c’era pericolo che fuggisse. Ma in compenso avrebbe potuto
continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di questi
atolli corallini che si trovano nel Pacifico occidentale, tra la
Nuova Guinea e le isole Salomone.
Il 1915 fu un annus horribilis per l’Europa, ma per l’antropologia fu un anno fortunato. Perché appena mise piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski fu subito colpito da un’usanza che ai suoi occhi di occidentale nutrito di economia politica, sembrava priva di qualsiasi logica. Gli indigeni affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli a bordo delle loro piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile e un coraggio ai limiti dell’incoscienza, visto che a viaggiare su quelle acque tempestose e infestate di squali era una bigiotteria senza valore. Collane e braccialetti di conchiglia.
Cose futili e non beni
necessari. E, come se non bastasse, questi monili da poveri venivano
regolarmente rigirati da coloro che li avevano ricevuti agli abitanti
dell’isola più vicina. Che a loro volta li indossavano un po’ di
tempo per farsi belli e poi prendevano il mare per andare a farne
omaggio agli abitanti di altre terre. Creando così un circuito di
scambi che chiamavano kula.
Apparentemente un circolo
vizioso per cui il cadeau, prima o poi, finiva per tornare nelle mani
del primo proprietario. Un po’ come certi regali, riciclati di
Natale in Natale, che alla fine tornano al mittente come un
boomerang. Ma per i Trobriandesi questa sorta di sbolognamento
sistematico era un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano in
mano caricava il dono di prestigio. Per dirla con parole nostre, ne
impreziosiva il pedigree. Che stava in buona parte in un plusvalore
relazionale. Come certi diamanti leggendari di cui si sciorina
sistematicamente la cronologia di coloro che li hanno posseduti.
Il caso trobriandese, raccontato da Malinowski nel suo capolavoro Gli argonauti del Pacifico occidentale, divenne subito un rompicapo per gli economisti che non riuscivano a trovare senso in un comportamento tanto irrazionale. Così alla fine molti esponenti di questa scienza che noi moderni ci ostiniamo a ritenere esatta – e che i Greci, con maggior prudenza, definivano semplicemente “governo della casa” (da oikos abitazione e nomia regola) – conclusero che si trattava di un’assurdità.
Un comportamento da tribù
primitiva, economicamente immatura che, incapace di calcolare costi e
benefici, sprecava il tempo a fare regali, per di più senza
guadagnarci nulla. Ma l’imperturbabile polacco non fece una piega e
restituì colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la
soluzione del rebus, l’algoritmo segreto che governava quella
strana giostra di regali e regalini. In realtà la ragione di quella
fatica, apparentemente inutile, non stava nel valore d’uso degli
oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fondava
soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito di
reciprocità.
Il dono insomma
funzionava come un contratto sociale, facendo di tante popolazioni
straniere, lontane e potenzialmente nemiche, un vero e proprio
sistema. Ordinato e coordinato. Una federazione che metteva in moto
una rete di relazioni sovralocale. Dalla quale non si usciva mai.
Infatti i Trobriandesi dicevano con orgoglio che «l’appartenenza
al kula è per sempre».
Questa sorta di mercato globale primitivo era insomma capace di connettere genti e paesi separati da migliaia chilometri di mare, a dispetto dei loro fragili mezzi. Basti pensare che nelle capanne dei cacciatori di teste della Nuova Guinea indonesiana e delle isole Molucche sono state trovate preziose porcellane cinesi d’epoca Ming. Insomma lo scambio di doni era una pensata geniale per fare uscire quelle isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago.
Il che in fondo vale anche per noi, utilitaristi disincantati, quelli che “nessuno ti regala niente per niente”. E si vede chiaramente in momenti come il Natale. Con la sua girandola di doni e controdoni, che non a caso gli americani chiamano big swap, il grande scambio. Un circuito cerimoniale che tiene in equilibrio reciprocità e gratuità, generosità e socialità, obbligo e piacere.Col risultato di riaffermare il principio dell’utile, ma proiettandolo su un piano più generale, e soprattutto meno egocentrico.
Perché quel che
regaliamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli
interessi. E non necessariamente da chi ha ricevuto. Come dire che il
dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché
è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario,
incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e
lo lega agli altri in una rete che assicura scambio protezione,
solidarietà. E di conseguenza anche guadagno.
Non è un caso che le
religioni nascano tutte da un dono fatto al dio. E che il dio
ricambia. Ecco perché, perfino il nostro Natale consumistico,
continua ad essere animato da quell’energia collettiva messa in
moto dallo spirito del dono. Che anche se per pochi giorni all’anno,
fa di quelle isole che noi siamo un solo arcipelago.
La Repubblica – 17
dicembre 2015
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