Quest’anno si celebrano i 40 anni dalla morte di Pasolini e i 750 anni dalla nascita di Dante, due autori accumunati dall’interesse per il valore politico della lingua e della rappresentazione. A chiusura di questo periodo di anniversari pubblichiamo l’anticipazione di un libro di Emanuela Patti, Pasolini After Dante. The ‘Divine Mimesis’ and the Politics of Representation in uscita presso Legenda (Oxford),. Le pagine che seguono riprendono, per frammenti e in traduzione, alcune delle questioni trattate nel volume.
Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione
di Emanuela Patti
I
Mimesi.
“Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva
Daniele Giglioli qualche settimana fa in apertura di un suo contributo
su Réné Girard pubblicato su LPLC. E questo è anche il punto di partenza
del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi della
rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla
“realtà rappresentata” (mimesis), Dante ha avuto di fatto un
ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha preso la
forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia
pasoliniana, a partire dall’esempio di oggettività, sperimentalismo e
plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco Contini del
1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il
plurilinguismo sarebbe diventato per lui un modello per ripensare la
rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della loro
realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della
lingua” e del “nazional-popolare”. Nei primi
anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un
certo “realismo figurale” nel cinema pasoliniano a partire dai concetti
di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach – come
emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va
da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964).
In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione
di pittura, musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito
associazioni semiotiche piuttosto radicali tra cultura alta e cultura
bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del
sottoproletariato. Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo
libro è che Pasolini abbia trovato in Dante — e più precisamente in
alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle
di Contini ed Auerbach) — un modello con cui rispondere, in ambito
artistico, ad una domanda estetico-politica di grande rilevanza per il
suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa
significa “popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo
dell’intellettuale/poeta che vuole rappresentare il popolo in modo
realistico?
In questo
discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra
l’esempio di Dante e quello di Cristo, in quanto entrambi rappresentano,
come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di radicale
contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la
carne. Attraverso la tradizione cristiana a lui disponibile, Dante
riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio ruolo di auctor/actor
che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione
di un reale viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il
paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta della realtà” ad offrire
a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano
linguistico ed autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno
clima ideologico post-crociano. Eppure, per Pasolini, come l’autore
scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo
di Dante rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo
realismo, gli parrà ad un certo punto problematica in letteratura.
L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà
rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il
merito di mettere in evidenza il divario esistente tra il cuore
idealistico del discorso etico-politico delle culture realiste del suo
tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina Mimesis, il cui corpus principale
è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 — con un momento di brusca
interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel
1965 — si colloca in un momento di svolta nella carriera pasoliniana e
costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale,
misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana
della Divina Commedia non prenderà mai forma compiuta e resterà
nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note o
frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore
quest’opera, proprio nel suo stato incompiuto e frammentario, pochi
giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina Mimesis verrà
pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più
significative dichiarazioni poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere
in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto
stabilisce con l’attività poetica, narrativa e saggistica di Pasolini
negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla “nuova
questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di
Dante in Pasolini viene qui affrontata come un fenomeno complesso e
stratificato di appropriazione creativa che va interrogato a diversi
livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel
dopoguerra italiano: quale modello di Dante è stato diffuso nelle
letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è
appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante
per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in relazione
ad altri modelli culturali come quello gramsciano?
II
Realismi.
Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra — tipicamente
associate all’impegno ideologico del neorealismo o del realismo
socialista di raccontare le condizioni di vita del popolo o dei
socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare —
risultavano a Pasolini insufficienti e con non poche contraddizioni.
Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di “reale”
esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza
di restituire rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. Nel
volume resta infatti sottesa la questione — recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi (2015) — che riguarda i limiti di alfabetizzazione e
di potere delle classi subalterne nell’auto-rappresentarsi in
letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali,
normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”.
Questo è un punto che Pasolini solleva già nel 1952 anche per la poesia
dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e
dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che
Fortini chiamava la “coltivazione artificiale dei dialetti”. In secondo
luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che
veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua
tipicamente borghese per rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo
linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra contraddizione
emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti
del medium letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione
all’esperienza emozionale e fisica di una determinata realtà. Come
imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il
principio guida della sua sperimentazione narrativa attraverso vari
media artistici, in particolare nel passaggio dalla letteratura al
cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità
delle rappresentazioni egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la
parola, letteralmente, in carne.
III
1951. Realismo dantesco. La
lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso
la sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli
scrittori del dopoguerra un modello linguistico-letterario
post-crociano. Nel suo saggio, “Preliminari sulla lingua del
Petrarca” (1951), contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al
plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva corrispondere lo stile
linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido,
sperimentale ed aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In
linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva
all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico
nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso
questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a
Contini — vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a
riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima
raccolta poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942). Non a
caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative — lo sperimentalismo,
la contaminazione dei linguaggi — sarebbero state conciliate da
Pasolini con la vocazione ideologica di rappresentazione delle classi
subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava
uno scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante.
L’italiano era principalmente la lingua letteraria dell’élite, mentre la
maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente
un’affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile
era il divario tra lingua istituzionale “alta” del potere, della
scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare. Come
Dante, Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per
Dante che per Pasolini era dunque fondamentale la questione di come
tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del
dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura
nazional-popolare, o meglio popolare-nazionale, in altre parole, in che
modo fare entrare il popolo nella scena della rappresentazione
letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore impegnato si
trovava quindi a svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e
popolo che aveva come obiettivo proprio la rappresentazione. Non troppo
distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di “rappresentanza”
nei Quaderni del carcere:
Se il
rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti –
tra governanti e governati – è dato da una adesione organica in cui il
sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non
meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di
rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra
governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la
vita di insieme che solo è la forza sociale; si crea il “blocco
storico”.
Se è vero,
come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura
nazionale e realtà sociale era enorme in Italia, tuttavia il pensatore
sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come.
Come può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso
dai suoi personaggi e dalla loro realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente
la propria lingua, dunque visione del mondo? Il paradigma continiano
che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco
offriva una risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni
principali nell’opera pasoliniana: (1) un’espansione della lingua
poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico
in poesia (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un
approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha portato,
specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel
parlante” (una sorta di uso performativo del linguaggio, messo in atto
per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi subalterne). Su
questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del
linguaggio in alcune delle sue principali opere poetiche, narrative e
saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e l’attività di Officina.
In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da Pasolini
come il miglior modello letterario di performatività attraverso il
quale colmare il divario tra la teoria e pratica del “realismo” negli
anni Cinquanta. Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis,
per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del
peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e,
attraverso l’empatia, dare
voce alla vita degli altri. Per quanto si tratti di un’esperienza
virtuale, quella che Pasolini ha definito come l’opera più realistica
della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto evoca
intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in
affinità con queste considerazioni che Pasolini formula progressivamente
il suo concetto di “regressione nel parlante” e di “intellettuale
mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma
emersi più esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e su Dante del
1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva ancora Gramsci qualche
riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il
messaggio che compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di un viaggio agli Inferi?
IV
Realismo figurale.
Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un
momento storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse
essere rinnovata attraverso la letteratura, la sua appropriazione della
“contaminazione degli stili” — un concetto chiave della lettura di
Auerbach della Divina Commedia — è stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale]
e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo troviamo già i primi
riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis, sermo piscatorius,
e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione
degli stili” (1957) di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo
di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione letteraria italiana
per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto
nel cinema che Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione
del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi e più significativi
riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione con Fellini a Le notti di Cabiria: “Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io,
gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca
Auerbach”. I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo
figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo
stile cinematografico in quelle sue prime esperienze accanto a Fellini.
Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto traduce
la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media
artistici (pittura, musica, letteratura e cinema), usando il concetto di
figura per creare interconnessioni semiotiche tra i protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi.
La contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia
estetica per redifinire i confini gerarchici della rappresentazione
sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come
un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima
solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio,
attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pomtorno), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo.
Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto
‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di
rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali e
rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini
raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso
la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la
scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta
segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla
fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale,
quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza
al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la
definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello
capitalistico/consumistico e quello comunista – che in entrambi i casi
rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’Odio. A
quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione:
auto-esclusione come salvezza dall’omologazione culturale. Giorgio
Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe scritto in Homo Sacer.
V
1965. Centenario dantesco. In
occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva
rilasciato un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita
fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’edizione Meridiani
Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo
testo, “Dante e i poeti contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle
interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di Gramsci, il lavoro di Officina, “In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo)
e gli scritti coevi sulla lingua. Tutti questi documenti hanno in
comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso
il quale, come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo
significato alla nozione di “plurilinguismo” prima, e “contaminazione
degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla
base del suo progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e
“cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’occasione:
C’è stata
negli anni Cinquanta, presso un gruppo di addetti ai lavori, molto
impegnati in questo, sulla scorta di un ormai famoso saggio di Contini,
una specie di assunzione di Dante a simbolo. Il suo plurilinguismo, le
sue tecniche poetiche e narrative, erano forme di un realismo che si
opponeva, ancora una volta, alla Letteratura. Sicché io, nel mio operare
di quegli anni, avevo in mente Dante come una specie di guida, la cui
lezione, misconosciuta o mistificata nei secoli, era ricominciata ad
essere operante con la Resistenza. Ora quell’idea di realismo degli anni
Cinquanta pare ed è superata e con essa si stinge l’interpretazione
dantesca della ‘compagnia picciola’ che dicevo. (Pier Paolo Pasolini,
‘Dante e i poeti contemporanei’, 1965)
Il testo
critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del
Petrarca” (1951); il gruppo di addetti ai lavori – la cosiddetta
“compagnia picciola” – erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina,
nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini,
che Dante era stato preso come modello linguistico, stilistico, ma anche
ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale,
decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la
“Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è tuttavia retrospettivo: come
afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una
certa lettura dantesca.
Sempre in
occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna
Banti, direttrice insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone,
a contribuire ad un numero speciale in occasione del centenario.
Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere
poeta” (1965), che metteva infatti in discussione proprio
quell’interpretazione di Dante che tanto formativa era stata per lui
negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra
riportata. In sintesi, svelando per la prima volta l’archeologia di quel
modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo dantesco
mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e
il ruolo dell’auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto
infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e Cesare
Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante
nella critica accademica, un intervento intellettuale inappropriato e
fuori luogo — “una danza astratta sulla superficie di qualche
“auctoritas” con le carte in regola” (Segre) —, e persino irritante.
Scriveva infatti Garboli: “questo tipo di critica oracolare,
divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, sempre
affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di
scoprire l’America, magari prendendo per nuove rive territori
marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda
repulsione”. Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la
polemica si estese per diversi articoli pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua riscrittura della Divina Commedia
venne di fatto interrotta nel 1965 — le aggiunte successive hanno lo
scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta
alla polemica con il Gruppo ’63 (“Per una “Nota all’editore”, 1966),
all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione
(1975). Oggi risulta chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti
altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso
dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro
perché La Divina Mimesis giaceva ancora in un cassetto e i
riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari
documenti artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece
chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” essere poeta” non era che un
frammento di un grande intertesto.
VI
1975. “La Divina Mimesis”.
Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto
Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile
nel titolo dell’opera pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis (1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è
tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, imitazione divina,
indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale
che aveva animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni
Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente compromesso a causa di quella
che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni
Sessanta. “Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato
alla figura materna, equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella
Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura della Commedia:
““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente
come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che
serba viventi ed allineate in una reale contemporaneità tutte le
stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione
della lingua”, presentato alla conferenza dell’Associazione Culturale
Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava Pasolini in
quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni
era una lingua creata dall’alto, dai mass-media e dal potere economico,
diametralmente opposto era invece il progetto linguistico-culturale a
cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero
quello di una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo
popolare, della realtà quotidiana. Almeno nelle prime intenzioni,
dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la linea di Ragazzi di vita (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959),
un primo abbozzo di riscrittura della discesa infernale di Dante,
impersonato da una prostituta che si avventurava per le borgate romane.
Eppure, la riscrittura pasoliniana non si presenta come l’“ultima
opera scritta nell’italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha
dato alle stampe “come un “documento”” si limitano a raccogliere
testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente
incompiuto. Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis
rappresenta piuttosto la morte del realismo dantesco — una morte che
Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento
letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In
morte del realismo” — e il passaggio ad un nuovo ideale mimetico in
poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il Pasolini
‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere […] vengo con te”.
Articolo pubblicato il 24 dicembre 2015
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