Federico Vercellone
L’artista di Morin è
uno sciamano che ci aiuta a conoscere noi stessi
L’estetica non riguarda soltanto le modalità secondo le quali gli uomini si relazionano consapevolmente all’opera d’arte in quanto creatori o fruitori. Sarebbe troppo poco ritenere che essa concerna solo la riflessione sul prodotto artistico già ultimato e già disposto nelle sedi che gli sono deputate, che si tratti della galleria, del museo, della biblioteca o della sala da concerto. Un atteggiamento di questa natura non riesce infine a rispondere al quesito fondamentale circa il perché abbiamo a che fare con l’arte e non possiamo farne a meno.
Se delle profondissime
motivazioni estetiche non si annidassero nelle radici dell’essere
umano, ecco che all’arte potremmo in fondo tranquillamente
rinunciare. Quando ci si dimentica di questo, come oggi troppo spesso
avviene, l’arte finisce per diventare un nobile brand, un «bene»
culturale ed economico. E questo coincide con una cultura nella quale
l’estetizzazione dei prodotti, il loro design va di pari passo con
la loro forza sul mercato.
Su questa base non si capirebbe per altro perché l’umanità abbia da sempre creato opere d’arte. Proprio di qui si avvia la riflessione estetica di uno dei grandi filosofi ed epistemologi del nostro tempo, Edgar Morin del quale Cortina pubblica ora Sull’estetica. Morin rileva che la necessità di un’espressione caratterizzata esteticamente, e cioè non finalizzata ad altro che a produrre il proprio splendore percorre non solo la vicenda umana nella sua interezza, ma anche, quantomeno a tratti, quella degli animali. Il dispiegarsi delle penne del pavone non può per esempio essere ridotto a un’esibizione rivolta alla conquista della femmina. Si tratta piuttosto di una manifestazione dotata di una portata autonoma che si può legittimamente definire come estetica. Il grande bacino della poesia e della poetizzazione della vita è ben più ampio di quello dell’arte soltanto, e contempla – secondo Morin - tutti i momenti di partecipazione empatica e intelligente del mondo che aprono la via alla sua comprensione.
L’atteggiamento estetico è, per Morin, quello con cui si vengono a oltrepassare i limiti della soggettività, la quale conosce così una condizione estatica. L’artista è, in altri termini, un soggetto che cade in una sorta di trance controllata. Quell’irrazionalità dell’arte di cui si è sin troppo parlato, non è in fondo che questa minaccia di aprire le porte dell’io asserragliato su sé stesso. L’atteggiamento estetico, in breve, mette in questione il carattere schermato e chiuso del soggetto moderno. L’artista, tornando a Morin, è una sorta di sciamano che viaggia fuori di sé facendo provare sensazioni analoghe ai suoi fruitori. L’estasi è in breve condivisa sia dal creatore sia dal fruitore. Né potrebbe essere diversamente poiché altrimenti l’opera d’arte risulterebbe muta e incomprensibile. L’arte, in breve, produce, in chi la crea e in chi la fruisce, una sorta di reincantamento empatico del mondo disincantato dalla razionalità tecnologica.
L’arte inaugura da
questo punto di vista, in tutte le sue forme, una diversa relazione
del soggetto con il mondo. Si tratta di un surplus vitale che
accompagna la relazione estetica con il mondo. Questo vale per la
letteratura, per le arti figurative nella loro mutevole
configurazione, e soprattutto per la musica che incarna il linguaggio
affettivo più intimo e toccante, e dunque più prossimo a questa
dimensione di esteriorizzazione dell’Io. La quale per altro non è
enfatica: per esempio siamo posseduti da una musica anche,
semplicemente, quando una canzone o un ritornello continuano a
tornarci in mente e, letteralmente, non riusciamo a prender congedo
da loro.
In ogni caso grazie
all’arte veniamo a contatto con il nostro io profondo, ci
conosciamo meglio trasferendoci nello spazio dell’opera e della sua
trama, dei suoi personaggi e dei loro sentimenti. Un atteggiamento di
questa natura fa sì che l’estetica preceda l’arte per fondare
quest’ultima antropologicamente, e consente per altro di allargare
lo sguardo sull’arte di massa, dalla fotografia, al fumetto, sino
ai serial televisivi.
Esemplare è la difesa
che Morin fa proprio dei serial che producono una partecipazione
empatica più intensa rispetto ad altri generi proprio in quanto ci
rimandano allo specchio la nostra quotidianità e ce ne rendono
partecipi negli spazi intimi e quotidiani della nostra vita che si
tratti di una sala d’aspetto, di una cucina o di una camera da
letto. Proprio qui si rivela in tutta la sua portata l’estrema
originalità e plausibilità dell’approccio di Morin. In tutte le
sue forme, senza distinzione tra high and low, l’arte - secondo
Morin- ci aiuta a conoscere la nostra identità, a sapere chi siamo,
ed è dunque sempre ben più che una mera forma dell’apparenza.
La Stampa/TuttoLibri –
19 gennaio 2019
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