Osso
oracolare del periodo Shang (II millennio a.C.)
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La
Cina nel flusso della lunga durata. La mentalità fissata dagli ideogrammi
Renata Pisu
Ho la strana impressione che ormai
si viva in un'epoca dove è di moda raccontare favole, nel senso che spesso si è
costretti a cominciare con un “c'era una volta”. La colpa è del tempo che è
come se fosse diventato più “breve”: come durata, guardandoci alle spalle,
appare breve, per esempio, il secolo che si è appena concluso, il XX, a causa
dell'accelerazione degli eventi e delle trasformazioni a ritmo vorticoso che si
sono succedute in appena cent'anni. Così, il “c'era una volta” di oggi si situa
appena ieri, non secoli fa, decenni fa, ma ieri, proprio ieri, il tempo di
schioccare le dita. Se ciò trova riscontro quasi ovunque e per le più diverse
situazioni, è per quanto riguarda la Cina che la mutazione lascia esterrefatti.
C'era una volta la Cina,
quintessenza dell'esotismo, terra di miseria e carestie. Non c'è più. C'era una
volta la Cina della rivoluzione trionfante. Sparita. C'è invece oggi la Cina
dello sfrenato sviluppo economico, delle megalopoli, delle ardite
infrastrutture, del turbocapitalismo, del sogno di un benessere promesso e non
ancora concesso ai più. È questo il finale della storia, un “e vissero per
sempre felici e contenti”? Potrebbe anche darsi, se si volesse continuare a
raccontare favole sulla Cina, ignorandone le specificità culturali, valutandone
le diverse fasi con superficialità, come se il grande paese fosse nato ieri. e
in tal caso forse si correrebbe il rischio, fra qualche anno, di dover raccontare
un'altra favola: “C'era una volta la Cina del super sviluppo economico”... Per
carità, mai vorremmo dover constatare che quella Cina non c'è più, però sono le
incognite, le continue variazioni, il gioco delle probabilità nel contesto
globale che suggeriscono di affrontare la questione della Cina in una
prospettiva di più ampio respiro, tentando di capire quali sono le radici
profonde da cui si è formata da oltre due millenni l'identità culturale di una
civiltà che è “altra” rispetto alla nostra; e per la quale vale la pena di
raccontare che la Cina che c'era una volta c'è ancora, visto che cento anni di
certo non possono bastare a cancellarne duemila.
Alessandra Lavagnino e Silvia Pozzi,
entrambe docenti universitarie, con Cultura cinese. Segno, scrittura e
civiltà (pp. 243, € 18, Carocci, Roma 2013) si sono proposte di
rintracciare gli elementi fondanti e peculiari dell'identità culturale della
Cina di ieri che ancora oggi determinano il modo di essere e di pensarsi della
Cina di oggi, dalla scrittura ai vari generi letterari che di questa
particolare forma di fissare la memoria si sono serviti. I caratteri cinesi
sono infatti i mattoni con cui è stato edificato un tessuto culturale tanto
ricco, dando forma a un pensiero filosofico, poetico, storico e religioso e
impregnando anche la cultura popolare, quella che si esprime nel romanzo e nel
teatro. Sono delle forme che perfettamente aderiscono ai contenuti e questi si
adattano a fatica alla trasposizione in un'altra forma, quella alfabetica, come
è il caso soprattutto della scrittura poetica. Ma anche tutte le altre
scritture (perché è di una civiltà grafocentrica che qui si tratta) mantengono
un qualcosa di arcano, di non perfettamente traducibile, che deriva dal segno
scritto, un'invenzione culturale che dalla Cina si è irradiata presso altri
popoli dell'estremo oriente come il Giappone, la Corea e il Vietnam.
Così, mantenendosi costantemente
aderenti al filone della scrittura in tutte le sue manifestazioni,
identificando, grazie al segno, scrittura e civiltà, Lavagnino e Pozzi
presentano non una storia fattuale della Cina con il classico succedersi di
date e dinastie, ma qualcosa di inedito e di veramente prezioso: uno strumento
complesso e quanto mai sofisticato per comprendere l'identità culturale della Cina
di ieri e di oggi. Che si tratti di uno strumento sofisticato è un bene, siamo
giunti ormai fortunatamente a un punto di svolta in cui è indispensabile
liberarsi dalle mistificazioni dei sublimi semplificatori, accettando sì la
divulgazione purché sia una divulgazione colta, che renda cioè partecipi tutti
coloro che non si considerano specialisti in materia del meglio di quanto è
stato scritto e pensato nei circoli chiusi delle accademie.
Per quanto riguarda la Cina, che è
diventata ormai una stella fissa del nostro firmamento, la svolta è
indispensabile per proteggersi da frettolosi giudizi e previsioni prive di
costrutto, luoghi comuni che si affastellano e che nell'era della
globalizzazione hanno trovato terreno più che mai fertile. Prima della sua folgorante
entrata in scena come potenza economica, cioè fino a pochi anni fa, la Cina
veniva intesa o come un fossile vivente o come una speranza di riscatto per una
futura umanità. Ma il bello era che non se ne sapeva niente o, per lo meno, chi
la studiava e frequentava aveva difficoltà a inserirne la specificità in un
contesto ancora vivente e tale da sollecitare feconde riflessioni. Infatti il
fossile puzzava di muffa, il sogno della futura umanità era svanito nei gulag
dei socialismi reali, i ripetuti fallimenti autorizzavano a ignorare la
vitalità ancora operante di una cultura che era stata soffocata e avvilita
negli anni del “secolo breve”.
A questo volume sulla cultura cinese
che dovrebbe leggere chiunque intenda occuparsi di Cina, si affianca un interessante
studio di Christopher Bollas (La mente orientale. Psicoanalisi e Cina,
ed. orig. 2012, trad. dall'inglese di Maria Paola Nazzaro, pp. 199, € 14,
Raffaello Cortina, Milano 2013), non dedicato unicamente alla Cina ma alla
“mente orientale” in generale, della quale, come lo stesso Bollas riconosce, la
mente cinese è magna pars. Il sottotitolo è infatti Psicoanalisi e
Cina e Bollas, noto scrittore e psicoanalista, tenta di creare dei
collegamenti tra alcuni aspetti della pratica psicoanalitica e la mente
orientale. Riconosce che la Cina di oggi è al centro dei pensieri della
comunità globalizzata ma sottolinea come i cinesi, anche di fronte ai fulminei
sviluppi della loro crescita economica, non possano fare a meno di portare con
loro, quantomeno nell'inconscio collettivo, quei testi e quegli assiomi etici
che hanno costituito la base della loro civiltà.
Come Lavagnino e Pozzi nel loro
libro mettono in stretta correlazione scrittura e civiltà, anche Bollas si
sofferma a lungo sulle particolarità uniche del cinese scritto, sostenendo che
ogni segno ha acquisito molte altre associazioni rispetto alle originarie e si
è aperto a molteplici significati. Ma come psicoanalista va oltre e scrive:
“Tenendo presente che ogni carattere è ideografico e carico di emotività, il
semplice atto di imparare a scrivere è simile a una identificazione psichica,
di solito inconscia, con l'intera storia di quel frammento di vita emotiva di
una nazione”.
Gli argomenti trattati in questo
testo, che sicuramente segna una svolta nel modo di avvicinarsi alla mente
orientale, inducono a riflessioni sulle differenze evidenti tra oriente e
occidente, soprattutto per quanto riguarda il sé individuale che in Cina si è
sviluppato con un forte senso della forma della vita umana (l'importanza dei
riti), mentre nel mondo occidentale manca un tale senso della presentazione
formale del sé. Ne deriva che attraverso il linguaggio la mente orientale non
riesce a rappresentare la vita interiore, il discorso non riesce a deviare da
norme accettate per secoli, mentre invece, per la psicoanalisi occidentale, è
l'enfasi sul discorso libero che rivela i pensieri rimossi e dà importanza al
significato del sé.
Sembrerebbero due tipi di
comportamento inconciliabili ma, dal momento che oggi oriente e occidente tentano
sempre più di incontrarsi, la psicoanalisi potrebbe essere uno dei possibili
ponti. Questa almeno è la speranza espressa da Bollas, il quale ritiene che la
lingua cinese classica possa aggiungere una dimensione nuova alla libera
associazione freudiana in quanto, scrive, “la catena di immagini svelate dal
cinese equivale a un processo libero associativo più esistenziale, composto da
esperienze toccanti (...) essa mette in giustapposizione le immagini con tale
forza intelligente da formare un nuovo oggetto emotivo”. La speranza è dunque
quella di un processo libero associativo “sino-freudiano”, in un futuro che si
spera prossimo dove tante altre categorie orientali e occidentali andranno
ripensate. Così si spera.
“l'Indice”, Luglio-Agosto 2014
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