La commedia del popolo
Alberto Asor Rosa
In genere si pensa che la
storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi
opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da
lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche
questo (e anche l´ammirazione da lontano va praticata): ma è anche
una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui
paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime
nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi
viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di
Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito
alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e
straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno
ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per
discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della
Poesia).
In questo testo è in
gioco l´apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un
tantino negativo, - di un'opera come la Commedia, pietra
fondativa, architrave, dell´intero «sistema letterario» italiano.
E per quanto l´occasione possa apparire limitativa, - in fondo una
lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità,
una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta
l'essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all'altro
l'intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni
nostri, di sicuro fino all'altro ieri), la contrapposizione, cioè,
per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i
filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione
della poesia ispirata all'opera e ai precetti teorici di Dante e i
seguaci di una nozione della poesia ispirata all'opera e ai precetti
teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le
premesse, si potrebbe ragionare all´infinito sulle motivazioni,
molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l'occasione
fermerò l´attenzione su di un solo punto, che però, a guardar
bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com'è noto, è
un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca.
Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che
era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone
ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia
aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso).
Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli
risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e
ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo
innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa
di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua
poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell'uso di
una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un
rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il
proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe
inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica
misura, l'elemento popolare.
Le parole di Petrarca
sono di un'inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno
l'insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi
rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il
poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare
Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in
prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i
lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino,
che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano
imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano
(testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega,
nell'esercizio delle loro attività artigianali? Non aver scansato in
tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare
accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria
contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva
provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo
stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale
contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle
balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la
sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di
Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre
Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo
conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non
sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo
particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non
dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s'alza o s'abbassa, in taluni
momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di
questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire
incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima
corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei
«lanaioli» dei loro tempi (con il che, com'è ovvio, intendo
riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali,
che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del
«sistema»).
A questo possibile
diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza
maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d'una condizione
più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la
parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le
classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino.
«Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un'affermazione
d'identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua
«si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la
Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella
memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la
Gerusalemme liberata). È quello che, con la geniale
inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare
Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al
Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è
tutt'altro che casuale.
L'origine ne va cercata
infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo
e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se
avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d'esser detto
o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.
“la Repubblica” 29
dicembre 2008
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