Riprendo dal nuovo numero di DIALOGHI MEDITERRANEI - accessibile gratuitamente da tutti in rete http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/humanitas-e-indiscrezione/ - questo bellissimo articolo di uno dei pochi maestri del nostro tempo:
HUMANITAS E INDISCREZIONE
di Maurizio Bettini
La storia della humanitas romana
si lega in particolare a un verso del commediografo Terenzio più volte
ricordato dagli autori latini che – come Cicerone e Seneca – hanno
insistito sul valore di questa virtù [1]:
homo sum, humani nihil a me alienum puto.
«Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo»
Si tratta di un verso celeberrimo, che ha assunto nel tempo il valore di una vera e propria gnóme,
una sentenza piena di saggezza. Come abbiamo visto, per Seneca il verso
di Terenzio costituiva addirittura la massima che deve guidare chiunque
intenda comportarsi secondo le leggi della “umanità”: «E quando mai
riuscirò a esporre tutto ciò che si deve fare per gli altri e ciò che si
deve evitare?» si chiedeva il filosofo. Dopo di che, quasi ad offrire
la sintesi di tutto il ragionamento che aveva svolto fino a quel punto,
concludeva:
«sempre sia nel nostro cuore e sulle nostre labbra quel verso famoso: ‘Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo’. Questo dobbiamo pensare: siamo nati nel vincolo di obblighi reciproci».
Ma in che cosa consiste l’occasione in
cui queste celebri parole vengono recitate in Terenzio? Vale la pena di
porsi questa domanda perché a volte le parole dei poeti, quando assumono
il valore di sentenze o di proverbi, si distaccano a tal punto dal
contesto che le ha generate da perdere (paradossalmente) di significato,
invece di guadagnarne.
Nello Hautontimoróumenos (il Punitore di se stesso) il vecchio Menedemo lavora accanitamente il proprio campo, dalla mattina presto alla sera tardi [2].
Non riesce a perdonarsi di aver impedito le nozze di suo figlio,
Clinia, con la ragazza di cui è innamorato. In conseguenza del rifiuto
paterno il figlio se ne è andato in Asia a combattere come mercenario,
ed è di questo che Menedemo intende punirsi sottoponendosi a una fatica
incessante. Il suo vicino Cremete, un altro vecchio, vorrebbe conoscere
il motivo di questo comportamento, soprattutto vorrebbe aiutare
Menedemo. Abitiamo vicino, gli dice, e questo è già qualcosa che
rassomiglia molto all’amicizia e alla confidenza. Ma Menedemo lo liquida
seccamente [3]:
«Cremete, hai così tanto tempo libero da poterti occupare dei fatti
altrui, che non ti riguardano per nulla?». Menedemo accusa dunque
l’altro di essere indiscreto, e sostanzialmente lo invita a occuparsi degli affari suoi.
A questo punto Cremete replica al vecchio scontroso con il verso che già conosciamo: homo sum, humani nil a me alienum puto
«Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo». Come si vede,
piuttosto che un elogio dell’essere uomo, o della umanità, come di
solito viene interpretato, questo verso costituisce un elogio della indiscrezione
fra uomini. Cremete rivendica per sé la possibilità di “eccedere” nella
comunicazione interumana sulla base del principio che gli uomini
possono, anzi debbono, occuparsi di tutto ciò che è umano. Ciò che
definiamo “indiscrezione” infatti corrisponde per l’appunto a un
“eccesso” di comunicazione con gli altri: tanto quanto il “malinteso”
consiste inversamente in un difetto della medesima comunicazione [4].
Questo verso paradigmatico, che tante volte, nel corso della nostra
storia culturale, ha fondato la caratterizzazione stessa di ciò che è
“umano”, nasce dunque come invito non solo alla comunicazione fra gli
uomini, ma piuttosto al suo eccesso, alla indiscrezione: al superamento
delle barriere in nome della comune “umanità”.
Questo dialogo fra Cremete e Menedemo ci
mette di fronte a un tema che è fondamentale, ancora oggi, nella
definizione dei rapporti fra gli uomini. Qual è la misura, il metodo
secondo cui occorre procedere quando si viene posti di fronte a qualcuno
la cui ‘stranezza’, per motivi diversi, ci colpisce o ci inquieta?
Dobbiamo interloquire, intervenire, stabilendo un contatto diretto,
oppure è meglio lasciare l’altro rinchiuso nella propria alterità? Come
si è visto, per ‘impicciarsi’ degli affari di Cremete, il vecchio
Menedemo fa prima appello a una comune appartenenza, diciamo, locale,
ossia il rapporto di vicinato. Dunque possiamo interessarci agli altri,
ai loro costumi, alle loro abitudini, solo se ci sono “vicini”, se sono nostri,
come direbbe Cicerone? Terenzio ci dice di no, perché di fronte
all’ostinato rifiuto dell’interlocutore, Cremete invoca la
caratteristica genericamente umana che li lega, rivendicando il proprio
diritto ad occuparsi della sofferenza altrui (homo sum). Sei uomo, io sono uomo, e per questo voglio sapere.
Ancora
una volta torna in mente l’esortazione che Ilioneo rivolge a Didone
quando ancora teme che lui e i suoi compagni vengano respinti dalle
coste di Cartagine: propius res aspice nostras «guardaci più da
vicino, considera chi siamo». Le parole del naufrago esprimono la
preghiera a osservare “più da vicino” l’altro, a conoscerlo meglio per
superare la barriera delle apparenze o dei pregiudizi, la barriera
dell’ignoranza. Una esortazione a essere “indiscreti”, insomma, verso
chi non si conosce. Ecco perché il celebre verso di Terenzio potrebbe
tornare ad essere cruciale oggi, che il nostro Paese e il mondo
occidentale in genere, sono sempre più popolati (“invasi”, secondo
alcuni) da stranieri, da sconosciuti o da gente il cui aspetto o il cui
comportamento ci colpisce o ci inquieta. Il primo principio della
“umanità” torna ad essere la volontà di conoscere, prima di tutto,
coloro che giungono sulle nostre coste o che valicano i nostri confini.
Penso che il parallelo più interessante che possiamo invocare per questa scena di Terenzio (l’homo sum con
relativo elogio dell’indiscrezione) non ci venga dalla letteratura
greca o latina, come potremmo aspettarci, ma da un pullman che, in
Irpinia, viaggia tra Grottaminarda e Villamaina. Capisco che, dal punto
di vista filologico, proporre un simile parallelo potrà sembrare
decisamente irrituale; ma come dicevo all’inizio, i tempi sono molto
cambiati da quando le letterature classiche potevano, o dovevano, essere
considerate solo un elegante patrimonio di figure poetiche o
letterarie. Dunque siamo su un pullman che attraversa l’Irpinia.
A raccontare la scena è un signore che
si chiama Roberto Buglione De Filippis, e che ha anzi provveduto a farla
conoscere mettendone in rete il resoconto [5].
«Mi siedo e dopo di me entra Omar – spiega Buglione – un giovane
rifugiato che vive allo Sprar di Lacedonia. Sul pullman c’è un gruppo di
signore tra i 75 e gli 80 anni. Guardano Omar e una volta seduto, gli
cominciano a fare domande». «Giovanotto come ti chiami?» Omar si
presenta, spiega che sta andando a trovare un gruppo di amici a
Frigento. Spiega anche che viene dal Gambia, che scappa da una
situazione difficile e che sta da anni in Italia. Il dialogo cresce, le
signore dicono a Omar che anche i loro figli e mariti sono dovuti
emigrare, chi in Inghilterra chi in Germania, «qua è sempre esistito Sud
e Nord, che te pienz’? (…) Si scappa anche da qui –continuano – ma
sembra che questo fatto tutti se lo siano scordato …». Fra una
chiacchiera e l’altra il pullman arriva a Sturno, le signore scendono e
salutano affettuosamente Omar.
Questa storia, accompagnata da una foto
presa all’interno del pullman, ha fatto il giro dei social, lasciando
incredulo colui che l’aveva messa in rete. Non si aspettava di suscitare
tanto interesse. Che cosa hanno mai fatto di così singolare queste
signore irpine? Incontrando lo straniero, l’altro, il diverso, non si
sono voltate dall’altra parte, non sono scese dal pullman o (peggio
ancora) non hanno chiesto all’autista di far scendere l’intruso. Al
contrario hanno “ficcanasato”, come dice il commento della giornalista,
chiedendogli chi era, da dove veniva, raccontando a loro volta di loro
stesse e dei loro familiari. Ficcanaso. Homo sum.
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