11 gennaio 2019

LA SEROTONINA DI UN AUTORE DI MODA NEL NICHILISMO ODIERNO

Michel Houellebecq

“Serotonina” di Michel Houellebecq: l’amore al tempo delle passioni tristi

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Dopo aver scoperto che la compagna giapponese con cui conviveva da due anni si divertiva – tra le altre cose – a farsi penetrare da cani di varie razze, Florent-Claude Labrouste, 46 anni, agronomo al ministero dell’Agricoltura, decide volontariamente di sparire dalla circolazione abbandonando sia il lavoro che il tetto coniugale per andare a vivere, all’insaputa di tutti, in un hotel parigino – rigorosamente dotato di stanze per fumatori.
Fin qui, il protagonista di “Serotonina” (La Nave di Teseo), l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, ricorda molto da vicino altri storici personaggi della letteratura francese, dal protagonista de “Il presentimento” di Emmanuel Bove all’“Uomo che dorme” di Georges Perec. Più o meno come loro, infatti, Labrouste – che di se stesso detesta perfino il nome – decide di eclissarsi nel momento in cui si rende conto che la donna con cui vive (terribilmente viziata e molto più giovane di lui) non aspetta altro che il vecchio brontolone tiri le cuoia e che il suo lavoro, cioè ratificare a suon di inutili resoconti il progressivo annientamento dell’agricoltura francese ad opera delle politiche liberiste dell’Unione europea, tradisce gli ideali in cui credeva quando era uno studente alla facoltà di Agraria: “privilegiare la qualità, consumare e produrre locale, utilizzare fertilizzanti animali” e via dicendo. Nient’altro che un’utopia, dunque, in una società come quella odierna in cui il libero scambio è ancora un dogma imprescindibile.
Riassumendo con le parole di Houellebecq: “Le ragazze sono delle puttane, se vogliamo, ma la vita professionale è una puttana ben più ragguardevole, e che per giunta non vi dà nessun piacere”.
Ma non è tutto, ovviamente. Si tratta pur sempre di un romanzo che più houellebecquiano di così non si può. Florent-Claude Labrouste, infatti, oltre ad essere cinico, disilluso e a dir poco ossessionato dal sesso, soffre di una pesante patologia depressiva che non gli permette neanche di lavarsi (“la prospettiva di avere un corpo di cui prendersi cura diventava sempre più insopportabile”) e che potrebbe condurlo al suicidio. Così il dottor Azote, un medico di base piuttosto stravagante, gli prescrive un antidepressivo di nuova generazione, il Captorix, in grado di stimolare la produzione di serotonina, l’ormone della felicità. Sarebbe un farmaco miracoloso, se solo la serotonina non inibisse – per motivi che neanche i medici sanno spiegare – la sintesi del testosterone, causando la perdita totale del desiderio sessuale e condannando chi ne fa uso all’impotenza.
La solitudine estrema, la consapevolezza di aver fallito nella vita e l’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia – condizione resa ancora più tangibile dallo stato di impotenza causato dal Captorix – spingono il protagonista a ripercorrere in maniera tanto nostalgica quanto insolente le storie d’amore – e di sesso – più importanti della sua vita. Proprio come quelli che stanno per morire e che organizzano una cerimonia in occasione del loro trapasso – scrive Houellebecq -, “io cercavo di organizzare una mini cerimonia di addio al mio cazzo; volevo rivedere tutte le donne che l’avevano onorato, che l’avevano amato a loro modo”.
E così Labrouste, quasi fosse Don Johnston in “Broken Flowers”, ci racconta i momenti intensi e fugaci vissuti con Kate, una bella ragazza danese, ai tempi dell’università; la convivenza con Claire, un’attrice fallita che vorrebbe recitare nei cinepanettoni e invece le fanno interpretare noiosissimi testi di Bataille o di Blanchot; ma soprattutto la storia d’amore con Camille – una stagista di 19 anni – gettata alle ortiche a causa di “qualche scopata senza importanza” con un’altra donna. Il fantasma di Camille attraversa praticamente tutto il romanzo e tortura senza pietà la già fragile psiche di Labrouste, configurandosi come la sola e unica felicità possibile. In definitiva – come si scoprirà nelle ultime battute del romanzo, prima del finale tragico -, un’occasione persa per sempre a causa dell’impulsività tipica dei vent’anni, “i soli anni in cui l’avvenire sembra aperto, in cui tutto sembra possibile”. Ma quella libertà – sembra volerci dire Houellebecq -, quella voglia di prendere tutto, l’avidità di cogliere tutte le opportunità che ci si presentano davanti, prima o poi si paga. A caro prezzo.
“Serotonina” è quindi – come già annunciato quasi due anni fa dallo stesso Houellebecq – un romanzo d’amore e un romanzo sull’amore e sul suo potere terapeutico e salvifico, quasi mistico. “Il mondo esterno era duro – scrive l’autore -, spietato nei confronti dei deboli, non teneva quasi mai le sue promesse, e l’amore restava la sola cosa in cui si potesse ancora, forse, avere fede”. E probabilmente sono proprio i genitori di Labrouste, nel romanzo, a rappresentare l’esempio perfetto di questo amore puro, archetipico; un legame primario e fondatore la cui intensità non è seconda neanche a quella che unisce madre e figlio. Non a caso la madre finisce per suicidarsi assieme al marito dopo aver scoperto che quest’ultimo era stato affetto da un cancro al cervello.
Al di fuori della coppia, al di fuori della famiglia, insomma, si salva poco o niente. E Houellebecq – attraverso il suo personaggio – non perde una sola occasione per sottolinearlo a suon di provocazioni.
Ecco una breve ricognizione: “l’Olanda non è un Paese, ma al massimo un’impresa” e “gli olandesi sono delle puttane, una razza di commercianti poliglotti e opportunisti”; gli inglesi sono “quasi più razzisti” dei giapponesi; gli argentini sono dei “bastardi” che inondano l’Europa con i loro prodotti geneticamente modificati; “Niort (città della Francia centro-occidentale, ndr) è una delle città più brutte che abbia mai visto”; Parigi è “un inferno”, “una città ripugnante, infestata da borghesi eco responsabili”. Senza parlare degli elogi al generale Franco (“autentico gigante del turismo” di lusso e di massa), dei riferimenti anti ecologisti (“gli ecologisti radicali sono degli imbecilli ignoranti”, “sabotavo sistematicamente i contenitori della raccolta differenziata”, “non avrò fatto granché nella mia vita, ma almeno avrò contribuito alla distruzione del pianeta”), dell’apologia della caccia, del pedofilo tedesco, dei cliché omofobi, dell’opinione sui giornalisti (“cretini” e “conformisti”), dell’Unione europea che sarebbe una “gran troia” a causa della soppressione delle quote latte, delle cosiddette “famiglie ricomposte” che sarebbero “una disgustosa presa per i fondelli” e della lista di donne qualificate come “puttane” – di professione e non.
Niente di nuovo, tutto sommato. Anzi, questa volta le polemiche sono cominciate presto, in netto anticipo rispetto alla pubblicazione del romanzo:  prima c’è stata l’intervista al mensile americano Harper’s, nella quale lo scrittore francese ha dichiarato che “Trump è uno dei migliori presidenti americani che abbia mai visto” e poi i titoli scandalistici sugli abitanti di Niort – “una delle città più brutte che abbia mai visto” – che minacciavano di boicottare il libro – in realtà, invece, “Serotonina” sta spopolando dappertutto, anche a Niort.
Ciò che non smette di sorprendere, piuttosto, è che alcuni giornali di sinistra come Libération (massacrato nel libro, tra l’altro), Les Inrocks o l’Obs, giornali cioè che fanno dell’ecologismo, del Parigi-centrismo e della lotta ai vari Trump, Putin, Bolsonaro e via dicendo il loro orgoglio, non possano fare a meno di elogiare – le recensioni sono state praticamente un plebiscito in suo favore – l’autore più reazionario della letteratura francese.
Al di là delle provocazioni, infatti, “Serotonina” contiene anche una tesi politica che non dovrebbe piacere affatto alle testate appena citate. Quando Aymeric d’Harcourt-Olonde, l’unico amico di Labrouste, un nobile che ha scelto di diventare agricoltore e che – strozzato dai debiti e afflitto dai sempre più frequenti suicidi dei suoi colleghi – decide di manifestare contro il governo sfidando la Polizia con tanto di fucili e taniche di benzina, Houellebecq è dalla sua parte. L’autore, quindi, non solo appoggia la causa degli agricoltori francesi – una sorta di gilet gialli ante litteram -, facendo per giunta esplicitamente l’occhiolino al partito di Marine Le Pen, ma elogia anche l’aristocrazia terriera. Per lui Aymeric è un eroe che difende i contadini francesi, “cosa che – si legge nel romanzo – era stata da sempre la missione della nobiltà”.
Sembra essere opposta, invece, la sua opinione nei confronti dei politici – Houellebecq è da tempo un partigiano della democrazia diretta -, dei giornalisti e della classe media urbana globalizzata (i “borghesi eco responsabili” di cui sopra). È la Francia a cui paradossalmente lo stesso Houellebecq appartiene, la Francia dell’odiato Macron, dalle cui mani ha peraltro appena ricevuto la Legion d’onore.
Ecco, forse è proprio per questo motivo che Houellebecq riesce a rimanere impermeabile alle critiche dei cosiddetti “radical chic”, perché sotto sotto hanno capito che perfino lui è ormai uno di loro. È altrettanto possibile, però, – ammesso che lo si legga per davvero – che la qualità di un testo letterario goda ancora di una qualche rilevanza agli occhi di chi è pagato per scriverne. Questa sì che sarebbe una buona notizia, un motivo in più per sperare, nonostante tutto.

Pezzo ripreso da  http://www.minimaetmoralia.it/

1 commento:

  1. Franco Mimmi: Ho letto con piacere sul Messaggero una stroncatura a Houellebecq. Dico "con piacere" perché il personaggio mi sembrò fin dalle "Particelle elementari" un furbastro espedientista, di quelli che non hanno altre risorse letterarie, e lì lo abbandonai.


    Francesco Virga: Sono questi, purtroppo, i "maestri" dei nostri tristi giorni...E i risultati li possono vedere tutti ogni giormo!

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