15 gennaio 2019

IL TRIONFO DI OVIDIO SUL TEMPO



Ovidio a Roma: il trionfo del poeta sul Tempo

di Chiara Babuin

Sta per chiudere improrogabilmente i battenti (20 gennaio) la meravigliosa mostra Ovidio: amori, miti e altre storie, creata in occasione del bimillenario dalla scomparsa del grande poeta (17-18 a.C). È una rassegna maestosa in cui si susseguono 25 secoli di storia artistica (dall’arte greco-classica del V-IV a.C, fino ai giorni nostri), proprio per dar conto al fruitore dell’importanza nella Storia dell’Arte delle opere ovidiane, ma anche per far capire le origini intellettuali dello stesso poeta. Entusiasmante anche tutto l’impianto di incontri e rassegne collaterali sparsi per la Capitale, volti a far conoscere il mondo del poeta di Sulmona.
Le stanze delle Scuderie del Quirinale sembrano fatte apposta per accogliere una mostra forse senza precedenti: celebrare un poeta, attraverso immagini, spesso postume, alle opere letterarie stesse.
L’appassionata curatrice Francesca Ghedini ha infatti costruito la mostra sull’assioma: “la parola che si fa immagine e l’immagine che si fa parola”. Da ciò, lei e la sua squadra di collaboratori hanno selezionato temi fondamentali e miti ovidiani per poi chiedere ai musei di tutto il mondo le opere più rappresentative ispirate a Ovidio o su cui Ovidio si è ispirato. L’eccezionalità della rassegna sta anche e proprio nel fatto che tutte le 250 opere in mostra sono state prestate da 80 musei diversi.
Lo si vuole subito dire forte e chiaro: è così che si fanno le mostre d’arte: anni di studio, presentazione di un progetto chiaro, un allestimento pedissequamente ragionato e tanta, tanta passione e competenza.
Ogni sala è contrappuntata dalle parole di Ovidio (nelle didascalie, sull’alto perimetro delle pareti, nell’audioguida): ogni verso ha la sua immagine e ogni immagine ha il suo verso. La prima sala infatti ospita un piccolo sacrario che custodisce al centro un ritratto (presunto) di Ovidio di epoca rinascimentale, circondato da una decida di codici miniati delle sue opere (il principale ponte tra antico e moderno), realizzati da pazienti monaci amanuensi. Tra questi spicca il primo codice illustrato delle Metamorfosi risalente all’XI-XII secolo.
Fuori da questo sacello, c’è l’omaggio ovidiano al neon di Joseph Kosuth, che introduce alla seconda sala, in cui si affronta il primo dei tre temi della mostra: amore, erotismo, bellezza, seduzione, insomma gli Amores ovidiani. Il letterato latino di origine abruzzese inizia la sua carriera proprio come poeta d’amore, quando l’elegia amorosa sembrava già aver prodotto le sue opere migliori.
Nicola Gardini, uno dei massimi studiosi di letteratura antica, a tal proposito ricorda che Ovidio “è un poeta retrospettivo. Guarda moltissimo a chi è venuto prima e a chi ha fissato qualcosa in una versione ultima, legittima, avendo sempre la voglia e l’urgenza di dare un’ultima versione”. In questa seconda sala ci si lascia dunque sedurre dalle forme dei corpi delle statue greco-romane, dall’erotismo di affreschi pompeiani raffiguranti baci e abbracci tra amanti mitici e non e da tutto ciò che ha a che fare con la cura del corpo, come manufatti di bellezza, oggetti della quotidianità femminile, preziosi monili.
E proprio questo allestimento introduce invero al secondo, grande e cruciale tema della rassegna: il conflitto con l’imperatore Augusto. Nella terza sala il fruitore viene infatti accolto dalle rigide, paludate e morigerate raffigurazioni statuarie dell’imperatore Ottaviano Augusto e della moglie Livia, promotori di un severo recupero del mos maiorum, ovvero dei fondamenti morali della civiltà romana. Tra le leggi promulgate dall’imperatore c’è quella contro l’adulterio e considerando che gli amori celebrati da Ovidio nelle sue elegie sono tutti extraconiugali, ciò metteva subito il poeta in cattiva luce agli occhi dell’imperatore. Ma è sul piano religioso che il contrasto tra il regime augusteo e la vivacità e l’acume ovidiano diviene scontro destabilizzante: Augusto è l’imperatore che affida a Virgilio il compito di creare una mitologia sull’origine di Roma, decretando che i progenitori del popolo romano sono Venere e Marte: la prima madre di Enea, il secondo padre di Romolo. Augusto e Livia sono in terra ciò che Giove e Giunone sono in cielo: padri/madri e padroni.
Un posto speciale nella politica augustea avevano anche i gemelli Apollo e Diana, protettori della casa dell’imperatore, che, assieme alla loro madre Latona, dal tempio a loro dedicato sul Paladino, vegliano sulla serenità del popolo di Roma. Quelli di Augusto sono divinità sagge, senza mai una scalfittura morale, prive di azioni egoistiche, rette e morigerate.
E che cosa può fare un colto letterato davanti a una tale mistificazione e strumentalizzazione della religione pagana? Ridere a crepapelle e presentarla mirabilmente e ironicamente per quella che è: un pantheon con degli dei fallaci, egoisti, preda delle proprie passioni. Ovidio dunque indulge a raccontare il tradimento fedifrago di Venere con il dio della Guerra, sottolineando implicitamente che quelli che Augusto faceva passare come i valorosi progenitori del popolo romano, altro non erano che due divinità piuttosto allegre dal punto di vista della morale, che tanto interessava all’imperatore. Sul padre degli dei, Giove, il poeta latino si diverte a descriverlo come un maniaco sessuale, sempre proprio a deflorare una bella ragazza, in qualsiasi modo: voleva essere così anche Augusto in terra? Per quanto riguarda il particolare culto di Apollo, Ovidio descrive la ferocia cieca del dio e dalla sorella durante l’episodio della strage dei Niobidi, in cui le due divinità compiono un vero e proprio massacro di innocenti. Anche qui, la sferzata ad Augusto è chiara: se è questo il Dio che protegge la casa augustea, allora questa è priva di compassione e feroce come lui.
Tutte le rimanenti sale del primo piano sono allestite per raccontare questi episodi mitologici attraverso un dialogo costante tra statue (copie romane), dipinti (Botticelli, Camassei), codici miniati, monili, anfore greche: un’installazione di opere eterogenea che ha come unico filo rosso i versi di Ovidio che in esse trovano origine e compimento.
Lo scontro, per Ovidio intellettuale, per Augusto politico, ha il suo apice e la sua fine con l’ordine imperiale di esiliare il poeta ai confini del mondo: Tomi, l’attuale Costanza, che al tempo non era neppure romanizzata. Mai, in tutto l’impero di Augusto, fu dato un tale ordine. Le vere ragioni che lo scaturirono sono tuttora ignote. Gli storici ipotizzano che Ovidio potesse aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto, né voluto. Infatti l’accostamento con uno dei suoi personaggi, Atteone, anch’esso raccontato in mostra, sbranato dai cani di Diana per aver visto per puro caso la nudità della Dea, non sembra nemmeno del tutto peregrino. In una lettera di Ovidio dall’esilio infatti si legge: “la mia colpa è quella di aver avuto gli occhi”. Ma che cosa ha realmente visto, nessuno lo sa.
Lo spettatore intraprende così le scale per giungere al secondo piano della mostra con questo quesito in mente, percependo anche la sofferenza di un poeta che amava Roma, ma che non l’avrebbe mai più vita per il resto dei suoi giorni.
Arrivati al piano di destinazione, quasi ci si commuove di fronte all’immenso trionfo del poeta sul Tempo: le stanze superiori sono completamente dedicate a Le Metamorfosi, l’opera che il poeta ha finito di comporre nel suo ultimo anno nell’Urbe. Ci si muove quindi sfiorando la tragedia di Venere e Adone, che tanta fortuna ebbe nel ‘600; le donne amate da dei e divenute dee come Arianna e Proserpina; gli amori sofferti come Piramo e Tisbe e il dramma di Narciso; l’affascinante creazione di Ermafrodito; le ingiuste morti di Ippolito e Meleagro; Icaro e Fetonte, sconsiderate vittime di sé stessi, e, in conclusione, la glorificazione benigna di Ganimede: l’uomo che è riuscito ad avere un felice posto tra gli dei.
Un susseguirsi poetico e frenetico di cambiamenti di corpo, di stato, di forma. Perché Ovidio, come ricorda Gardini, “è stato un poeta del Tempo: poeta fisico, poeta del corpo, poeta delle forme. Sempre in movimento”. La sua più grande colpa agli occhi occhi di Augusto, e il suo più grande pregio nei confronti della Storia, è stata quella di essere un intellettuale troppo orientale, nella concezione stessa della vita. Proprio ne Le Metamorfosi si legge: “Tutto muta, nulla muore. Lo spirito è errabondo…. e dagli animali passa al corpo umano e il nostro negli animali. E non si consuma nel tempo e come la duttile cera si plasma in nuove figure”: sono parole che esprimono una potente e sentita visione, potremmo dire, inconsapevolmente yogica.
E assieme a questa c’è la consapevolezza dell’eternità della Parola e dell’Arte, come la stessa mostra ha dimostrato con tutte le opere d’arte esposte, nate dalla lettura di Ovidio. Consapevolezza che il poeta usa per concludere lo scritto che lo consacrerà per sempre: “Ho ormai ho compiuto un’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che tutto rode potranno cancellare. Quando vorrà, venga pure il giorno fatale[…] e ponga pure fine allo spazio (quale sia io non lo so) della mia vita. Ma con la parte migliore di me, io volerò in eterno più in alto delle stelle, e il nome mio rimarrà indelebile. E ovunque si estende, sulle terre domate, la potenza Romana, le labbra del popolo mi leggeranno, e per tutti i secoli grazie alla fama, se qualcosa di vero c’è nelle predizioni dei poeti, io vivrò”.
A questo riguardo, ringraziando la curatrice Francesca Ghedini per il suo immenso e appassionato lavoro, ci accodiamo alle sue parole, per la conclusione: “Ovidio ha vinto la sua battaglia sulla Storia, anche se ha perso la sua battaglia sulla Vita”. E per questo sempre vivrà.

Pezzo ripreso da   

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