PPP, l'apprendista poeta
nella bottega di Rafael Alberti
L'inedito. Un dattiloscritto con correzioni a mano svela lo stupore e la venerazione dello scrittore per l'amico esule
Quando leggo un poeta
non mi viene mai in mente che scrivo io stesso delle poesie, è perciò che lo
leggo come un critico, come un filologo, come un linguista; sento questo
ingenuamente, come un dovere. Con Rafael Alberti non riesco ad applicare questo
dovere, abbastanza umile, ma anche difensivo. Credo che non ci sia razza di
poeta più diversa da me di quella di Rafael Alberti; di fronte a tanta
diversità, riesco forse di nuovo a trovare il diritto di leggerlo come poeta,
come un poeta apprendista. Tutto quello che so della poesia, non vale infatti
per conoscere Alberti. Tutto quello che so l’esaurisco per fare poesia io
stesso, e per farne esperienza nel leggere, da critico, gli altri poeti che un
po’ mi somigliano. Ma la più bella cosa del mondo è continuare ad apprendere.
Chi di noi non desidererebbe essere sempre apprendista, ragazzo di bottega? È
così che mi sento leggendo Alberti. Come un ragazzo che entra a imparare il
lavoro a una bottega, e vede il maestro intento all’opera: un’alta montagna di cristallo.
Come si faccia ad
avere la natura di poeta di Rafael Alberti mi è inconcepibile: lo guardo come
un negro, che non ha mai visto un bianco, guarda un bianco. Con un misto di
terrore e di ammirazione, di tenerezza e di difesa. Dunque tu fai poesia così?
E sei poeta? Ma come è possibile, se a me pare che ci sia un unico modo di
essere poeta, il mio? Come è possibile che ci siano due poesie? Come è
possibile che dove c’è qualcuno che parla di sé, con quella confidenza, con
quella astuzia, ci sia invece uno che parla di un se stesso così strano, come
senza confidenza con sé, con tanta abilità e niente astuzia, con sortilegi
senza costo, puri, con ricerche d’amore che non implicano complessi di
inferiorità, con tecniche metafisiche che non implicano nessuna reale
ambiguità? Com’è possibile ripetere lo stesso motivo con la naturalezza di un
artigiano o di un animale? Fare settemila poesie e settemila oggetti tutti
puri, con dentro tutto e niente di sé, parlando sempre di sé e senza mai
confessarsi? Come puoi Rafael Alberti dare un ritratto così vero, così umano e
così articolato di te, se mai una volta discendi a patti con le norme degli
autoritratti, se hai tanto selvaggio, donchisciottesco pudore?
Parli forse di te come
un bambino, che non sa che la sua millanteria è contraria al pudore? Un bambino
che non parla di sé, perché si è estraneo come un dio, ma delle proprie imprese
e della propria immagine nel mondo? Ma perché parli delle tue imprese, se non
ti interessano? Perché parli di quello che ti è capitato o ti capita, se poi
riferisci tutto a una cima immacolata, che pure, tu sai che è soltanto
l’abitudine di un figlio di vecchi cattolici che non si svelavano agli altri
solo per buona educazione o ipocrisia? Con che legname hai bruciato tutto
questo, rendendolo materiale di tanto valore? Perché ti metti a scrivere una
poesia? Se non descrivi, non ti confessi, non accusi, non rimpiangi, non
piangi, non ti lodi, non fingi di lodarti, non aduli il lettore, non gli chiedi
pietà ecc. ecc. Come ti si presenta la poesia? Senza neanche un po’ di voglia
di essere fedele alla realtà, che si rimpiange sempre? Se sei stato nelle
“città di mare che non conoscono crepuscoli”, dove anch’io sono stato, che
conosco, e che mi fanno impazzire di nostalgia, come fai parlandone a non
essere neanche un poco realistico, neanche un poco, un poco solo, descrittivo?
Pensi che tutta l’Europa e tutta la Spagna abbiano lavorato per metterti in
mano un bulino prezioso con cui lavorare l’anima come una scaglia?
Come puoi sempre
pensare e fare la poesia, anche la più piccola, come un inno? E se i tuoi sono
inni, inni di quale religione? Forse di una piccola religione, che comprende
una nazione, una confessione, una lotta politica, una vittoria dei cattivi con
poche buone speranze per il futuro? Ma perché tutto questo è detto attraverso
inni? Perché il rimpianto per ciò che non è stato o è stato male e
ingiustamente, è sempre, in te, anche nella dolcezza straziante, così duramente
pieno di ritegno, da non poter esprimersi che con altre parole? Come fai a
essere così forte da sostituire a una a una le parole che hanno tanto peso,
tanto significato e tanto dolore nella nostra vita, strapparle, e sostituirle
con parole analoghe trovate nella tua officina di poeta? Dove tieni la chiave
di quella officina? Ci può essere tanta interezza e naturalezza di canto in una
natura di poeta? E non solo quando è canto, ma anche quando è discorso?
E tutta una vita, è
possibile che possa essere così trasposta, senza mai un attimo di incertezza o
di pentimento, nei termini di un emblema, in uno snodarsi di immagini che sono
una scommessa di perfezione? Come si fa a fare una serie di poesie “una più
bella dell’altra”, a suscitare come nuovo sempre lo stesso entusiasmo nel
lettore? Dove sono le ombre? Maledetti angeli! Lo sai che non si possono
leggere tutte di seguito le tue poesie, perché l’entusiasmo, ripetendosi sempre
uguale, diventa insostenibile?
Pier Paolo Pasolini
Per
gentile concessione di Graziella Chiarcossi
Testo
ripreso da https://videotecapasolini.blogspot.com/2019/01/inedito-pppasolini-lapprendista-poeta.html
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